Era il 30 aprile del 1975 quando le forze vietnamite del Nord entrarono vittoriose in Saigon. Dopo dieci anni di guerra la superpotenza statunitense doveva abbandonare il suolo del Vietnam in cui era arrivata dopo i Francesi nella speranza di occupare il loro posto. Un popolo piccolo, ma determinato, era riuscito a vincere contro forze numericamente e tecnologicamente superiori, mentre l’America sprofondava nella sconfitta. Le necessità delle truppe da combattimento comuniste erano minime. A differenza degli eserciti americano e sudvietnamita, esse non disponevano di aerei, mezzi corazzati o artiglieria e di conseguenza non avevano bisogno di carburante, parti di ricambio e granate, per non parlare della birra, della schiuma da barba, del talco e degli altri generi di lusso. Per sostenere la loro offensiva nel Sud, i Nordvietnamiti e il Vietcong non avevano bisogno di più di quindici tonnellate di rifornimenti giornalieri dal Nord. A quell’epoca l’Unione Sovietica e la Cina fornivano al Vietnam del Nord circa seimila tonnellate al giorno in aiuti” (S. Karnow, Storia della Guerra del Vietnam, BUR, 2000) Nel 1969, al culmine delle operazioni militari, i soldati Usa presenti nel teatro d’operazioni erano 540.000 più supporto logistico, oltre a forze australiane, neozelandesi, coreane del sud, thailandesi e filippine. Gli Stati Uniti riversarono sul Vietnam una potenza distruttiva pari a centinaia di bombe di Hiroshima basandosi sul concetto di “overkill, capacità di iper-uccidere (Nick Turse, Così era il Vietnam. Spara a tutto ciò che si muove, Piemme 2005).

Ma le ferite lasciate dagli Stati Uniti non si limitarono ai morti, feriti, invalidi in gran numero tra combattenti e civili; nel terreno e nell’acqua fu lasciato in eredità un potente veleno chimico, il famoso “agente arancione”, dal nome delle strisce colorate che ne indicavano il contenuto sui fusti che lo contenevano, un potente defoliante, che doveva servire a distruggere le grandi foreste che fungevano da rifugio e nascondiglio per i Vietcong e i soldati del Nord Vietnam. “Nel 2012 Washington decise di contribuire con il governo del Vietnam di ripulire l’area inquinata attorno all’aeroporto internazionale di Da Nang, la più importante base delle forze statunitensi nel Vietnam del Sud all’epoca della guerra. David Shear, ambasciatore Usa, descrisse l’operazione come una pietra miliare nei rapporti tra i due Stati, scrisse la CNN. La bonifica, fu una prima ammissione, sia pur tardiva, di colpa per l’uso indiscriminato di armi chimiche e avverrà sotto la supervisione dell’Us Agency for International Development e del Ministero della Difesa vietnamita con un costo di 43 milioni di $ per una durata di circa tre –quattro anni dovendo ridurre il livello di inquinamento in 73 mila metri cubi di terra”.

Un piccolo velo di verità si è alzato su quello che può benissimo essere considerato l’impiego più vasto di armi chimiche nella storia delle guerre; si calcola che circa 80 milioni di agenti chimici, tra Agente Arancione 45 milioni di litri-Agente Blu (usato per distruggere i raccolti) e Agente Bianco (altro defoliante), furono dispersi sul 20% della giungla sudvietnamita, di cui il 36% su foreste di mangrovia, per un totale di 2,5 milioni di ettari.

La pretesa dei vertici militari di allora era quella di impedire, grazie all’uso massiccio della tecnologia e dell’apparato militare e logistico più grande al mondo, che le forze della guerriglia potessero usare le vaste aree coperte da foreste impenetrabili per muoversi e combattere. Si pensò così allora di utilizzare allo scopo, visti gli insuccessi dei bombardamenti, delle azioni di pattugliamento che costavano un alto tributo di sangue, del fuoco dell’artiglieria, di ricorrere alla guerra chimica su vasta scala. Si diede il via all’“Operazione Ranch Hand” nel 1961, dopo una richiesta pervenuta dal Presidente sudvietnamita Diem, che trovò definitiva approvazione da parte del Presidente Kennedy nel novembre dello stesso anno con delle limitazioni, che ben presto però furono abbondantemente superate, colpendo indiscriminatamente giungla e raccolti, civili e non.

Sugli aerei, solitamente bimotori C-123, vi erano equipaggi selezionati di soli scapoli, che vestivano a volte anche abiti civili così da evitare in caso di cattura qualsiasi esposizione a livello internazionale del governo degli Stati Uniti. All’inizio le azioni erano sotto il controllo dell’Esercito sudvietnamita, ma poi passò rapidamente sotto la supervisione statunitense. E così, giorno dopo giorno, s’intensificarono le azioni su vaste aree del Paese nell’illusione che i defolianti potessero impedire alla guerriglia di operare ed essere rifornita attraverso il famoso sentiero di Ho Chi Minh. D’altronde, il motto dell’Operazione Ranch Hand era eloquente: “Solamente noi possiamo fermare la foresta”, e di conseguenza i guerriglieri. L’uso di questo diserbante continuò ufficialmente fino al 1971, ma è lecito credere che le azioni siano proseguite anche dopo, incuranti della famosa quando inutile “opinione pubblica” più che mai manipolabile; del resto, quale organismo internazionale, che fosse l’Onu o altro, ha mai potuto ostacolare gli Stati Uniti quando hanno deciso l’utilizzo di armi distruttive di massa? Come vedremo l’Agente Arancione può benissimo essere considerato tale per i devastanti effetti nel breve, medio e lungo periodo sull’uomo. Washington aggirò tranquillamente sia la Convenzione dell’Aja del 1907, sia il Protocollo di Ginevra del 1925, affermando che quest’ultimo non poteva essere applicato in quanto non contemplava gli erbicidi, anche se nel 1969 l’Onu adottò timidamente una risoluzione che affermava la validità del Protocollo. Soltanto nel 1969 uno studio dell’Istituto Nazionale sul Cancro rivelerà negli Stati Uniti che la diossina provoca tumori e deformazioni genetiche sugli animali in laboratorio…

E le conseguenze sull’uomo iniziarono a manifestarsi, mentre le ricadute in campo militari furono ininfluenti sia sotto il profilo tattico, che strategico, perché la guerriglia continuò incessante fino alla vittoria e la giungla in breve tempo riprese possesso del terreno.

La pericolosità dell’Agente Arancione è data soprattutto dalla presenza di diossina, forse una delle sostanze più tossiche mai prodotte dall’uomo. “Secondo il dottor Barry Commoner, direttore del Centro per la biologia dei sistemi naturali dell’Università di Washington ed ecologista, basterebbero 85 grammi di diossina immessi nella rete idrica di New York per uccidere tutta la popolazione della città.

L’avvelenamento non colpì soltanto il terreno, ma anche gli animali e l’uomo, entrò nel sottosuolo, inquinandolo, e contaminò la catena alimentare della popolazione vietnamita. Ma furono colpiti anche i soldati statunitensi che fecero la conoscenza con l’Agente Arancione spesso dopo essere tornati in Patria a fine servizio o a distanza di anni dalla fine della Guerra.

I pattugliamenti nella giungla distrutta furono letali, perché i reparti di fanteria si muovevano senza alcuna precauzione su di un terreno avvelenato, inspirando la diossina che era presente nel fogliame rinsecchito e sul terreno polveroso.

Nel suo documentassimo libro “Agente Arancione-I danni collaterali in Vietnam” di Philip Jones Griffiths l’autore, grazie alla documentazione raccolta durante il periodo trascorso in Vietnam in un arco di tempo di venti anni a partire dal 1980, ha testimoniato le conseguenze della diossina sui civili. “In Vietnam nascono bambini deformi perché la diossina agisce come un ormone, arriva al feto prima degli ormoni normali e i risultati sono mostruosi, con decine di migliaia di nati deformi e un numero ancora maggiore di aborti spontanei”. “I parti diventano delle specie di roulette russe, una madre un giorno mi disse che era talmente terrorizzati di quello che aveva visto attorno a sé, che non appena nacque suo figlio chiese subito se avesse le braccia e le gambe” (Philip Jones Griffith, Agente Orange: Collateral Damage in Vietnam)

Gli invasori di allora hanno avuto il loro conto da pagare, come dicevamo, e il tributo in morti, figli malformati e gravidanze interrotte hanno costellato l’esistenza di molti reduci americani e delle loro famiglie. L’American Cancer Society ha calcolato che furono quasi 3 milioni i cittadini statunitensi che prestarono servizio del Sud Est asiatico, tra gli anni ‘60 e ‘70 e quasi 1,5 milioni erano in servizio durante il periodo di maggior uso di diserbanti 1967/69. I veterani che ritornavano a casa iniziarono a manifestare i primi sintomi da intossicazione, che era avvenuta attraverso l’aria, la pelle, gli occhi, ferite e il cibo. Anche i marinai delle navi che trasportavano il veleno furono colpiti. La maggior parte delle operazioni – Hand Operation Ranch – sono state compiute con aerei e elicotteri, ma anche con camion e mezzi navali e finanche con spruzzatori portatili. Anche coloro che erano adibiti al rifornimento dei mezzi per l’irrorazione furono esposti all’Agente Arancione. Il Dipartimento per i Veterani degli Stati Uniti ha elencato tutta una serie di patologie dovute a questa esposizione che comprende principalmente i tumori alle vie respiratorie, ma le pressioni esercitate a livello governativo sono sempre state forti per impedire che si arrivasse alla piena condanna di una guerra chimica combattuta e mai dichiarata e al pieno risarcimento delle vittime militari. L’American Cancer Society non si sbilanciò troppo sui legami tra le forme tumorali ed esposizione all’Agente Arancione, addusse il fatto che “se ora ci sono un po’ più di prove sugli effetti sulla salute dell’Agent Orange, molte domande non hanno ancora avuto risposta”. Forse bisognerebbe indagare su che genere di pressioni politiche siano state esercitate per far emettere simili giudizi, troppo pacati, troppo blandi, che ricordano tanto quelli sugli effetti dell’Uranio Impoverito della Commissione Mandelli in Italia, che servirono solo a minimizzare le conseguenze nel tempo di armamenti o simili, che poi si sono ritorte contro chi li ha usati. Il Pentagono è sempre stato restio a venire incontro alle esigenze dei reduci ed ammettere l’uso di sostanze chimiche, perché ciò equivarrebbe a dire esplicitamente che gli Stati Uniti condussero azioni di guerra chimica.

In questa guerra gli Stati Uniti persero 58.000 uomini, oltre a 304.000 feriti di cui 153.000 gravi e 75.000 invalidi. L’Esercito della Repubblica del Sud Vietnam ebbe 254.000 caduti e 783.000 feriti. Le forze del Nord Vietnam più Viet Cong ebbero circa 1.700.000 perdite di cui almeno un 1000.000 in battaglia, oltre a 300.000 dispersi. I dati più attendibili sulla mortalità in Vietnam oggi sono quelli dell’Harward Medical School e dall’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington che stima un totale di circa 3.800.000 morti violente tra combattenti e civili.


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Giornalista pubblicista, già direttore della testata italiasociale.net. Come inviato di “Rinascita” ha partecipato nel 2011 a Teheran alla II Conferenza Internazionale su Disarmo, Non Proliferazione Nucleare e Armi Distruttive di Massa organizzata dall’Istituto di Studi Politici e Internazionali di Teheran. Ha collaborato con la radio di Stato iraniana Irib e con l’agenzia di stampa Irna.