Fonte: http://www.voltairenet.org/article168417.html


Nello sforzo di cogliere la profonda complessità, la sfumatura e la considerevole ramificazione della sommossa egiziana, il Voltaire Network ha pubblicato una serie di articoli analitici, offrendo ai suoi lettori vari punti di vista. Dotato di respiro storico, questo saggio di James Petras considera le ragioni che stanno dietro all’esitazione di Barack Obama, quando è evidente che Hosni Mubarak ha terminato il suo ruolo di strumento utile per gli Stati Uniti e la sua destituzione sembrerebbe approvata da tutti, eccetto da Israele.


Introduzione

Per comprendere la politica di Obama nei confronti del Egitto, della dittatura di Mubarak e della rivolta popolare è necessario collocare la vicenda in un contesto storico. Il punto essenziale è che Washington, dopo vari decenni di inserimento nelle strutture statali delle dittature arabe, dalla Tunisia al Marocco, Egitto, Yemen, Libano, Arabia Saudita e Autorità palestinese, sta provando ad orientare le sue politiche in modo tale da innestare sull’attuale configurazione del potere e/o estorcere dei politici liberali favorevoli alle elezioni.

Mentre la maggior parte dei cronisti e dei giornalisti versa inchiostro sul “dilemma” del potere statunitense, sulla novità degli eventi egiziani e le dichiarazioni del giorno per giorno di Washington, ci sono abbondanti precedenti storici, essenziali per capire la direzione strategica delle politiche di Obama.

Contesto storico

La politica estera statunitense ha una lunga storia di favoreggiamento (dall’instaurazione al finanziamento, dalla fornitura di armi al sostegno diplomatico) ai regimi dittatoriali che a loro volta aiutano le loro politiche e gli interessi imperiali fino a quando mantengono il controllo sul popolo.

Nel passato, i presidenti repubblicani and democratici hanno lavorato per trent’anni con la dittatura di Trujillo nella Repubblica Dominicana; instaurato il regime autocratico di Diem nel Vietnam pre-rivoluzionario nel 1950; collaborato con due generazioni di regime del terrore della famiglia Somoza in Nicaragua; finanziato e promosso golpe militari (e successivi regimi repressivi) a Cuba nel 1952, in Brasile nel 1964, in Cile nel 1973, ed in Argentina nel 1976. Quando lo sconvolgimento popolare ha sfidato queste dittature supportate dagli Stati Uniti, ed una rivoluzione sociale e politica sembrava prossima al successo, Washington rispondeva con una politica a tre piste: criticando pubblicamente la violazione dei diritti umani e sostenendo la necessità di riforme democratiche; segnalando privatamente un continuo supporto al Governante; e per ultimo, cercando un’élite alternativa che potesse sostituire e preservare l’apparato statale, il sistema economico e supportare gli interessi strategici nordamericani.

Per gli Stati Uniti non ci sono relazioni strategiche ma solo dei permanenti interessi imperiali volti a preservare lo Stato cliente. La dittatura suppone che il suo rapporto con Washington sia di impronta strategica: il che spiega lo stupore e lo sgomento nell’essere sacrificati per salvare l’apparato statale. Temendo la rivoluzione, Washington ha avuto despoti-clienti riluttanti a cedere assassinati (Trujillo e Diem). Ad alcuni vengono forniti dei santuari all’estero (Somoza, Batista), altri vengono costretti a condividere il potere (Pinochet) o stabiliti come docenti in visita ad Harvard, Georgetown o altre “prestigiose” istituzioni accademiche.

Il calcolo di Washington sul quando rimpastare il regime è basato sulla capacità del dittatore di calmare l’insurrezione, sulla potenza e la lealtà delle forze armate e sulla disponibilità di un sostituto malleabile. Il rischio di attendere troppo a lungo, di rimanere a fianco del dittatore, è che l’insurrezione si radicalizzi: il cambiamento che ne deriva spazza via sia il regime sia l’apparato statale, tramutando un’insurrezione politica in una rivoluzione sociale. Un errore di calcolo simile è capitato nel 1959, nella fase di preparazione della rivoluzione cubana, quando Washington stette vicino a Batista senza essere capace di presentare una coalizione alternativa pro-U.S.A. che si collegasse al vecchio apparato statale. Un errore di calcolo simile capitò nel Nicaragua, quando il Presidente Carter, criticando Somoza, rimase passivo mentre il regime veniva rovesciato e le forze rivoluzionarie distruggevano le basi militari nordamericane e israeliane, i servizi segreti e l’apparato del intelligence, per poi a nazionalizzare le proprietà statunitensi sviluppando una politica estera indipendente.

Washington si mosse con maggiore spirito di iniziativa in America Latina nel 1980. Promosse una transizione elettorale che rimpiazzasse i dittatori con malleabili politici neo-liberali, che promettevano di preservare l’attuale apparato statale, difendere le privilegiate élite estere ed interne e appoggiare le politiche regionali ed internazionali statunitensi.

Lezioni passate e politiche attuali

Obama è stato estremamente esitante a chiedere le dimissioni di Mubarak, per molte ragioni, anche mentre il movimento cresce di numero ed i sentimenti anti-Washington diventano più profondi. La Casa Bianca ha molti clienti sparsi per il mondo – includendo Honduras, Messico, Indonesia, Giordania e Algeria – convinti di avere relazioni strategiche con Washington e perderebbero fiducia nel loro futuro se Mubarak dovesse essere scaricato.

In secondo luogo, le più importanti ed influenti organizzazioni pro-Israele negli U.S.A. (AIPAC, i Presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane) ed il loro esercito di scriba hanno mobilitato i leader del congresso per fare pressione sulla Casa Bianca affinché continuasse a sostenere Mubarak, dal momento che Israele è il principale beneficiario di un dittatore indesiderato dagli Egiziani (e Palestinesi) ma ben voluto dallo Stato ebraico.

Come risultato il governo di Obama si è mosso lentamente, sotto la paura e la pressione del crescente movimento popolare egiziano. Cerca una formula politica alternativa che rimuova Mubarak, mantenga e fortifichi il potere politico dell’apparato statale ed incorpori un’alternativa civile ed elettorale come mezzo per smobilitare e de-radicalizzare il vasto movimento popolare.

Il maggior ostacolo alla rimozione di Mubarak è che un grosso settore dell’apparato statale, specialmente i 325.000 militari della Sicurezza Centrale e le 60,000 Guardie Nazionali, è direttamente subordinato al Ministero degli Interni e a Mubarak. Secondariamente, i principali Generali nell’esercito (468,500 membri) hanno appoggiato Mubarak per trent’anni e si sono arricchiti attraverso il loro controllo su compagnie molto lucrative in vari settori. Non supporteranno alcuna ‘coalizione’ civile che metta in discussione i loro privilegi economici e potere per porre le basi di un sistema elettorale. Il comando supremo dell’esercito egiziano è un cliente a lungo termine per gli Stati Uniti ed un volontario collaboratore con Israele.

Obama è fermamente a favore di una collaborazione per assicurare e preservare questi corpi intimidatori. Ma necessita anche di convincerli a rimpiazzare Mubarak e consentire un nuovo regime che possa disinnescare il movimento di massa che continua ad opporsi all’egemonia statunitense e al servilismo verso Israele. Obama farà tutto il necessario per mantenere la coesione dello Stato ed evitare qualsiasi divisione che possa portare ad un movimento di massa – alleanza di soldati che trasformerebbe l’insurrezione in una rivoluzione.

Washington ha aperto il dialogo con i liberali più conservatori ed i settori clericali dei movimenti anti-Mubarak. Inizialmente ha provato a convincerli a negoziare con Mubarak – una posizione fallimentare che è stata respinta da tutti i settori dell’opposizione, dal primo all’ultimo punto. In seguito Obama ha provato con la “finta” promessa da parte di Mubarak che non si sarebbe candidato alle future elezioni, nove mesi dopo.

Il movimento ed I suoi leader hanno respinto anche questa proposta. Quindi Obama utilizza la retorica del “cambiamento immediato” ma senza delle effettive misure ad appoggiarlo. Per convincere Obama della sua capacità di potere, Mubarak ha mandato la sua formidabile polizia segreta, reclutata tra la teppaglia, per strappare con la forza la piazza al movimento. Una prova di forza: l’esercito resiste; l’assalto ha alzato la posta ad una guerra civile, con conseguenze radicali. Washington e la U.E. hanno fatto pressione sul regime di Mubarak per farsi da parte – per ora. Ma l’immagine di un esercito pro-democrazia era svanita, mentre uccisioni e ferimenti si moltiplicano a migliaia.

Con l’intensificarsi della pressione del movimento, Obama si è trovato stretto tra la lobby israeliana Pro-Mubarak e l’entourage del Congresso da una parte, e dall’altra dai consiglieri ben informati che gli suggeriscono di seguire le pratiche del passato e muoversi in modo deciso per sacrificare il regime e salvare lo Stato mentre opzione elettorale clerico-liberale è ancora sul tavolo.

Ma Obama esita e come un cauto crostaceo, si muove di lato e indietro, credendo che la sua magniloquente retorica sia un sostituto dell’azione… sperando che presto o tardi, la rivolta finisca con un Mubarachismo senza Mubarak: un regime capace di smobilitare il movimento popolare e che abbia la volontà di promuovere elezioni i cui risultati ufficiali seguano la linea generale del suo predecessore.

Nonostante questo, ci sono molte incertezze in un rimpasto politico: una cittadinanza democratica, all’83% non favorevole a Washington, avrà l’esperienza di combattere e la libertà di chiedere un riallineamento politico, specialmente perché non si mandino più le proprie forze dell’ordine nel fronte di Gaza, e perché non si sostengano più gli Stati Uniti nel Nord Africa, Libano, Yemen, Giordania ed Arabia Saudita. In secondo luogo le libere elezioni apriranno il dibattito ed aumenteranno la pressione per una maggiore spesa sociale, l’espropriazione dell’impero da settanta miliardi di dollari del clan di Mubarak e gli amici capitalisti che saccheggiano l’economia. Le masse pretenderanno una diversa allocazione delle spese pubbliche dal pomposo apparato ad un sistema produttivo, alla generazione di posti di lavoro. Una limitata apertura politica potrebbe portare ad un secondo round, nel quale i nuovi conflitti sociali e politici divideranno le forze anti-Mubarak, un conflitto tra gli avvocati della democrazia sociale e l’élite dell’elettorato neo-liberale. Il momento anti-dittatoriale è solo la prima fase di una battaglia prolungata verso un’emancipazione definitiva non solo in Egitto ma in tutto il mondo arabo. L’esito dipende dal grado in cui le masse svilupperanno la loro organizzazione indipendente e i loro leader.

(Tradotto da Giuliano Luiu)


* James Petras è professore emerito di Sociologia alla Binghamton University, New York. È autore di 64 libri tradotti in 29 lingue.


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