Home Negozio Riviste XLI – I Balcani

XLI – I Balcani

18,00 

 

Non è un caso se il lessico geopolitico ricorre alla metafora dei Balcani per indicare un’area afflitta da instabilità ed il corrispondente processo di disgregazione degli Stati. Sul territorio balcanico è infatti stanziata una decina di popoli, nonché vari gruppi etnici minori; vi si parlano idiomi di varia origine e vi si praticano religioni diverse. Questo mosaico ha offerto agli strateghi dello “scontro di civiltà” la possibilità di favorire quei conflitti che sono chiamati “guerre di faglia”.

Descrizione

DOSSARIO: I BALCANI

Da sempre l’area balcanica è al centro degli interessi nazionali e tutto quello che accade in quella regione ha conseguenze importanti per la stabilità dell’Italia. Attualmente nei Balcani assistiamo a una duplice criticità, economico-demografica e identitaria, che rischia di travolgere quanto è stato determinato dalle nazioni occidentali dopo gli Accordi di Dayton nel 1995 e l’aggressione alla Federazione Jugoslava nel 1999. Sullo sfondo traspare, in maniera sempre più evidente, l’antica contrapposizione tra potenze tellurocratiche e potenze marittime, ieri simboleggiata dalla competizione tra Berlino e Londra, oggi dalla nuova guerra fredda tra Mosca e Washington.

La Russia, sia in epoca zarista che durante l’Unione Sovietica, ha sempre indirizzato la propria geopolitica verso lo sbocco sul Mar Mediterraneo, dando particolare importanza al ruolo della penisola balcanica. A rendere più semplice il lavoro della Russia è stata la vicinanza etnica e religiosa con le popolazioni balcaniche, in particolar modo con la Serbia, dando vita all’idea panslavista nella regione. Tuttavia, con la fine dell’Unione Sovietica e in particolare della Jugoslavia, i Balcani si sono spostati più ad Occidente che ad Oriente, alla luce anche del caos geopolitico e della competizione russo-statunitense nel Vicino e Medio Oriente e nell’Europa orientale, nello spazio storico d’influenza russa. La situazione, alla luce della difficile integrazione europea di Serbia, Macedonia e Bosnia, potrebbe cambiare nuovamente.

Il Turkish Stream e il Nord Stream 2 sono parte della stessa strategia, finalizzata a rafforzare la presenza di Gazprom in Europa e ad aggirare un’Ucraina tendenzialmente inaffidabile. Le prospettive dei due gasdotti, però, sono molto diverse: se quelle del primo erano piuttosto incerte sin dall’inizio, il secondo, che gode del sostegno di Angela Merkel e della partecipazione di alcuni dei maggiori colossi europei della meccanica e degli idrocarburi, ha buone probabilità di vedere la luce. E, quando in Siria un caccia russo cadeva sotto i colpi di un missile turco, per i Paesi balcanici si profilava l’ennesima occasione perduta.

La questione dello sviluppo di solide democrazie ai confini dell’Unione Europea è sempre stato uno dei temi che ha ossessionato maggiormente gli studiosi e i politici del vecchio continente negli ultimi decenni. D’altro canto, le complesse realtà balcaniche, soprattutto nei luoghi maggiormente a rischio per gli attriti etnico-confessionali, mettono in serio pericolo il percorso verso la democrazia occidentale intrapreso dai paesi dell’area. Se ciò è una realtà generale, lo è a maggior ragione per i paesi musulmani della regione balcanica, soprattutto per quelli di più recente formazione, alla ricerca di modelli che garantiscano la salvaguardia non solo dei diritti fondamentali dei cittadini, ma anche la pace e l’armonia all’interno di fragili Stati multietnici.

La plurisecolare presenza islamica nei Balcani, data la sua “eccezionalità” rispetto alla maggioranza degli altri popoli d’Europa, rappresenta simultaneamente un rischio ed un’opportunità. La partita fondamentale si gioca sul tipo di Islam che prevarrà in nazioni come quella albanese o bosniaca. L’uso strumentale dei “genocidi” e il “vittimismo islamico”, sfruttati dai nemici della Russia, non fanno ben sperare, anche se il ruolo delle confraternite sufi potrebbe rappresentare un argine al filo-occidentalismo dell’Islam wahhabita e salafita d’importazione.

Il risultato della guerra “umanitaria” intrapresa dall’Occidente contro la Jugoslavia e dello smantellamento della Federazione è sotto gli occhi di tutti: un mosaico di staterelli privi di potere reale o tenuti sotto tutela, alcuni dei quali sono stati assorbiti dalla NATO ufficialmente (Slovenia, Croazia) o ufficiosamente (Cossovo). Dappertutto, classi dirigenti mediocri e corrotte sottomesse ad interessi estranei o sottoposte a ricatto; saccheggio generale delle risorse, delle materie prime e delle imprese.

Lo spazio balcanico è una tessera fondamentale del mosaico eurasiatico. In questa tessera, la presenza dei Serbi, attestata fin dai tempi antichi, è tutto fuorché marginale; l’origine di tale popolo, nella ridda delle ipotesi formulate, è uno dei capitoli più suggestivi e affascinanti nel libro della storia del nostro spazio continentale. L’Europa è quella che è anche grazie all’opera del popolo serbo nei secoli.

Gli ultimi due decenni della storia albanese costituiscono un caso paradossale tanto dal punto di vista ideologico quanto da quello geopolitico. Con la fine del comunismo nella sua variante enverista, che aveva segnato per quarant’anni la storia dell’Albania secondo un socialismo di stampo autarchico ed isolazionista, il “paese delle aquile” nel giro di pochi anni ha adottato una serie di riforme economiche ultraliberiste e ha capovolto le proprie direttrici geopolitiche con l’adesione alla Nato, avvenuta nel 2009. Tuttavia, nonostante la profonda frattura tra i due principali blocchi politici interni, costituiti da democratici e socialisti, paiono oggi aprirsi nuove prospettive eurasiatiche, sia per la ripresa dei rapporti economico-culturali con la Repubblica Popolare Cinese, sia per la lenta normalizzazione diplomatica con la Repubblica di Serbia, nel faticoso ma necessario tentativo di risolvere la vexata quaestio del Kosovo.

L’approccio alla crisi del debito sovrano di Atene ha sviluppato un discorso monodimensionale incardinato sulla capacità del Governo greco di far fronte (o meno) agli impegni contratti con la troika; l’analisi monofocale delle vicende greche non tiene di conto (se non in rari casi) delle conseguenze geopolitiche della crisi greca, perché, se questa ha limitato le possibilità di azione in politica interna e soprattutto economica, non ha intaccato il valore geostrategico di Atene sullo scacchiere del Mediterraneo orientale.

La Bulgaria, che fra tutti gli Stati aderenti al Patto di Varsavia era il più fedele satellite dell’Unione Sovietica, dopo il 1989 è diventata un “cucciolo degli Stati Uniti”, come la definì Jacques Chirac. I problemi più gravi che questo paese si trova oggi a dover affrontare sono il drastico decremento demografico, lo spopolamento delle aree rurali e montane e la mancata integrazione delle minoranze etno-linguistiche, spesso escluse dalla società civile per mancanza di un adeguato livello di istruzione.

La Romania si trova in una situazione geopolitica ambigua, che potremmo considerare quella delle false alleanze. Essa privilegia la relazione strategica con le potenze atlantiste per difendersi da una presunta aggressività della Russia. Una visione di questo genere e la geopolitica che ne deriva non hanno fondamento nella situazione geostorica della Romania, stato continentale per definizione. Un’alleanza di questo tipo può funzionare per un certo periodo, ma sarà solo congiunturale e opportunistica. La stessa cosa si può dire anche per gli stati occidentali. L’unica strategia geopolitica a lungo termine che si fondi sulla storia del continente è la strategia eurasiatista, cioè un tentativo di consolidare il Grande Continente da Lisbona a Vladivostok.

Alla collocazione atlantica e occidentale, imposta alla Romania dagl’interessi geostrategici statunitensi, la geografia e la storia contrappongono una ubicazione centrale, che è stata d’altronde sottolineata in vario modo dagli studiosi di geopolitica. A definire lo spazio geografico romeno non è l’Oceano Atlantico; sono, invece, i Carpazi, il Danubio e il Mar Nero.

Il paradigma romantico delle nazioni oppresse e risorte ha spesso pregiudicato una valutazione serena e obbiettiva della lunga (cinque secoli) presenza ottomana nei Balcani. La realtà della penisola balcanica nell’impero osmanlı è però quella di un’area ben integrata nell’ecumene imperiale, nel cui contesto fruì per lunghi periodi di pace e di una certa prosperità; l’istituzione dei millet assicurò il rispetto della molteplicità delle fedi religiose e delle etnie mentre il sistema agrario e la creazione di nuove città furono altri aspetti importanti del retaggio ottomano.

Le pistolettate di Sarajevo del 28 giugno 1914 avviarono la reazione a catena che condusse il mondo in quella che i contemporanei definirono la Grande Guerra. Nella narrazione dell’immenso conflitto e nella comprensione delle sue dinamiche diplomatiche, tuttavia, il fronte balcanico sembrò poi sparire del tutto, laddove giochi di alleanze, rivendicazioni territoriali, separatismi e indipendentismi furono ben più vivaci che sui fronti occidentale e orientale, condannati alla guerra di logoramento. Nodi irrisolti giunti dalle Guerre Balcaniche, lo scontro di interessi fra Impero Austro-Ungarico ed Impero Russo, l’agonia dell’Impero Ottomano, gli interessi divergenti degli Stati dell’Intesa in merito agli assetti da stabilire a conflitto terminato: a partire da tali problematiche si sprigionarono dinamiche che i Trattati di Pace lasciarono ancora irrisolte e sarebbero sfociate nelle vicende della Seconda Guerra Mondiale.

DOCUMENTI

L’etno-geografo Jovan Cvijić fu uno dei sei esperti della delegazione jugoslava alla Conferenza della pace di Parigi, dove venne costituito il nuovo Stato slavo del sud.

Questo saggio di Vasile Gherasim, del quale viene qui tradotta la prima parte, è stato presentato da Cristian Pantelimon sul n. 4/2015 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.

INTERVISTE

Márton Gyöngyösi, diplomato in scienze politiche ed economia politica, è deputato del Movimento per un’Ungheria Migliore (Jobbik) dal 2010. Dal 2014 è vicepresidente della commissione Esteri del Parlamento ungherese.

Arben Jaupaj, 43 anni, ha studiato storia e filologia all’Università di Tirana. Vive nella città turistica di Berat, ha lavorato come insegnante di storia e filosofia, lettore del Museo Storico cittadino, professore di antropologia culturale nell’Universita di Berati. Ha partecipato a diversi progetti culturali locali e nazionali in collaborazione con il Programma Culturale Svizzera in Albania, le Rete Albanesi di Toscana, la Fondazione Iraniana “Saadi Shirazi” a Tirana, l’Istituto Italiano di Cultura, l’Alleanza Francese, l’Università di New York a Tirana. Ha collaborato con gli uffici culturali presso le ambasciate cinese, spagnola e russa a Tirana. Attualmente è direttore della biblioteca pubblica di Berat e segue un dottorato di ricerca di storia contemporanea albanese presso l’Università di Tirana.

DOCUMENTI E RECENSIONI

Manlio Dinucci, L’arte della guerra. Annali della strategia Usa/Nato (1990-2015), Zambon 2015 (Giacomo Gabellini)

Gennadij A. Zjuganov, La mia Russia. Ideologia del patriottismo russo, Anteo 2015 (Davide Ragnolini)

Fabio Falchi, Il Politico e la Guerra, Anteo 2015 (F. F.)

Emil Cioran, Apologie de la barbarie. Berlin-Bucarest (1932-1941), Editions de L’Herne 2015 (Yannick Sauveur)

error: Tutti i diritti sono riservati.
0
    0
    Il tuo carrello
    Il tuo carrello è vuotoRitorna al negozio