Claudio Mutti, Roma dopo Roma. Configurazioni storiche dell’Impero Romano, Edizioni di Ar, Padova 2024, pp. 68, € 17,00.

Già nell’editoriale del numero 1/2013 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, Claudio Mutti sottolineava l’evidente differenza tra il concetto tradizionale di “Impero” e quello moderno di “imperialismo”. Qui, riportando il pensiero del teorico controrivoluzionario Emmanuel Malynski, gli imperialismi venivano definiti “megalomanie nazionalistiche valorizzate ingegnosamente dalla rapacità capitalista”[1]. Strenuo difensore dell’idea imperiale e, con essa, delle costruzioni geopolitiche propriamente europee andate distrutte con il “suicidio dell’Europa” del 1914-18 (quella guerra in cui, secondo il pensatore di scuola marxista Costanzo Preve, hanno vinto i peggiori in assoluto), Malynski si spinse oltre, arrivando ad affermare che il nazionalismo esasperato di certe potenze, orientato in senso capitalistico, sarebbe rapidamente degenerato in imperialismo politico-economico e, infine, avrebbe condotto il mondo alla “più gigantesca guerra mai esistita”[2].

A questo proposito, anche Julius Evola ebbe modo di denunciare la “contraffazione imperialistica dell’idea imperiale”. Una contraffazione che si manifesta anche nell’appropriazione indebita di categorie tradizionalmente imperiali, utilizzate per descrivere in modo improprio l’attualità geopolitica. Appare infatti del tutto fuorviante l’analogia sostenuta da taluni analisti tra il principio romano del “divide et impera” e la “geopolitica del caos” di stampo nordamericano. Ha scritto Tiberio Graziani, sempre sulle colonne di “Eurasia”: “Lì – nel caso dell’Impero Romano e anche degli imperi continentali di cui esso costituisce il paradigma – l’applicazione del principio è funzionale all’integrazione delle singole componenti in uno spazio territoriale unico e continuo, l’ecumene imperiale, e orientato, soprattutto, a limitare perturbazioni e tensioni locali per il bene supremo della comune casa imperiale; qui – nel caso della geopolitica del caos applicata dall’imperialismo statunitense – la divisione e le tensioni endogene, peraltro spesso artificialmente alimentate, vengono poste in essere per perturbare e frammentare altri spazi geopolitici onde depredare risorse  e assoggettarne le popolazioni residenti”[3].

Al contempo, appare altrettanto infondata l’attribuzione della qualifica di “impero” al sistema di dominio egemonico nordamericano. Questo perché, a differenza delle entità imperiali del passato, gli Stati Uniti non mirano a governare, ma semplicemente a possedere. Se lo spazio imperiale è sempre spazio sacralizzato, l’imperialismo nordamericano procede desacralizzando lo spazio accumulato. Ne consegue che qualsiasi tentativo di indicare Washington come “Quarta Roma” (così come i richiami dei padri fondatori alla civiltà greca) risulta una mera forzatura, una falsificazione storico-ideologica. La civiltà romana, infatti, fa notare lo stesso Mutti nella raccolta di interviste pubblicata dalle Edizioni di Ar con il titolo Europa, ridéstati!, “si basa su quanto è di più irriducibile alle esigenze della modernità: ossia, sull’identificazione dell’ambito religioso con quello giuridico e politico”[4]. È qualcosa che, al contrario, si ritrova nell’Islam e che la Repubblica Islamica dell’Iran (avversario geopolitico diretto dell’imperialismo USA) ha cercato di riaffermare nella contemporaneità.

Allo stesso modo, risulta totalmente illegittimo il tentativo di rintracciare nell’antica Grecia le radici di quella costruzione ideologico-geopolitica che corrisponde al nome di “Occidente”. L’antica Grecia, infatti, non produsse solo il razionalismo sofistico o quella democrazia che è ampiamente sbeffeggiata nelle opere satiriche degli autori classici. La cultura greca si esprime soprattutto nella “rivelazione religiosa” dei poemi omerici, nei Misteri, nella teologia di Eschilo e di Pindaro e nella metafisica di quel Platone che oggi viene indicato come nemico principe della cosiddetta “società aperta”.

Ad onor del vero, come ben sottolinea Franco Cardini nell’introduzione a questo nuovo lavoro di Claudio Mutti sulle ipostasi Roma, esiste un legame sotterraneo tra l’Occidente odierno ed il mondo classico. È quello rappresentato dal mito di Prometeo. La Modernità occidentale – afferma lo storico fiorentino – è il regno degli eredi di Prometeo. E come Prometeo, l’Occidente odierno è il protagonista di una ribellione (o sarebbe più corretto utilizzare il termine sovversione) antidivina o antisacrale. Così l’eredità classica si riduce ad una evoliana “scelta degli antenati” plasmata in epoca moderna, quando, ad esempio, “cancellando la continuità romana dell’Impero d’Oriente […] e identificando l’Impero Romano con la sola parte occidentale, il tacito accordo fra gli storici euro-americani ha impostato una visione occidentalista della storia” (p. 28). Eppure, il trasferimento dell’autorità imperiale da Roma a Costantinopoli avvenne senza alcuna interruzione nella serie degli Imperatori, mentre Carlo Magno (incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero nella notte di Natale dell’800 da Papa Leone III) non poteva in alcun modo vantare una analoga continuità. Poté vantarla, invece, la terza ipostasi di Roma, Mosca, quando Ivan III prese in sposa Zoe (o Sofia) Paleologa, figlia di Tommaso Paleologo, Despota di Morea, il quale rivendicava il trono di Costantinopoli in quanto fratello dell’ultimo imperatore Costantino XI (che, morto nella difesa della città, secondo alcune leggende si troverebbe “occultato” nei meandri sotterranei di Santa Sofia, in attesa di guidare la cristianità alla riconquista del trono imperiale).

Va da sé che Ivan III, con la caduta di Costantinopoli, assunse anche il ruolo di protettore di quella Ortodossia che, per ragioni squisitamente politiche (come principalmente politici furono i motivi dello scisma del 1054), con l’ottavo concilio aperto a Basilea nel 1431 e chiuso a Firenze nel 1439 dovette riunirsi alla Chiesa di Roma. In quell’occasione, tra l’altro, fra i delegati orientali spiccava un certo Giorgio Gemisto Pletone che sconvolse gli astanti sostenendo la necessità di un ritorno al puro neoplatonismo. E, secondo alcuni storici, fu lui a contribuire in modo determinante alla nuova diffusione della filosofia greca in quella parte occidentale dell’Europa che si proiettava verso il Rinascimento.

Ad ogni modo, la “riunificazione” delle Chiese venne profondamente avversata da parte delle autorità bizantine. Taluni sostennero che era preferibile vivere sotto il giogo ottomano anziché sotto il potere del Papa latino. Sta di fatto che lo stesso conquistatore ottomano rivendicò per sé una sorta di eredità romana. Scrive Mutti: “In virtù dell’omofonia fra Turcae e Teucri, infatti, Mehmed II era ritenuto un discendente del re eponimo dei Troiani, sicché i Turchi stessi venivano chiamati Teucri e molti ritenevano che il Conquistatore [discendente in qualche modo di Enea] avesse compiuto sui discendenti dei Greci la vendetta dei Troiani” (p. 43). E ancora: “Il tema delle origini troiane dei Turchi ricorre anche nel discorso, riferito dallo storico Michele Critobulo (1410-1470), che il Conquistatore pronunciò accanto alle rovine di Ilio, dove si era recato con un piccolo contingente di giannizzeri per rendere omaggio agli eroi caduti nella difesa della città” (p. 44).

A prescindere dalla discendenza (reale o meno che sia) degli Ottomani dai Troiani, ciò che interessa sottolineare è che il nuovo (o rinnovato) Impero si imponeva ancora una volta in senso tradizionale: “una Roma musulmana dei Turchi”, secondo lo storico romeno Nicolae Iorga, o un “Impero romano turco-musulmano”, per utilizzare i termini (correttamente riportati nel testo) di Arnold Toynbee.

Dunque, volendo rintracciare il senso (o il messaggio “nascosto”) di questo Roma dopo Roma, non si può che trovarlo nel tentativo (riuscito, secondo chi scrive) di identificare correttamente il significato del concetto di Impero. Questo, infatti, rappresenta un tipo di unità politica che riunisce nel medesimo spazio etnie o popoli diversi ma imparentati e riuniti da un principio spirituale. All’Impero, infatti, per usare ancora una volta le parole di Mutti, corrisponde “al di là della sua dimensione geografica e della varietà etnica e confessionale della popolazione […] un ordinamento unitario determinato da un principio superiore”[5]. Un “principio superiore” che in nessun caso può essere il prodotto di una contraffazione ideologica. Di fatto, con la decadenza e la scomparsa delle sue forme imperiali, l’Europa ha finito per identificarsi con l’Occidente: o meglio, come una sua periferia, utile in qualità di testa di ponte per portare guerra alle civiltà dell’Eurasia che ancora manifestano ambizioni imperiali non allineate col progetto egemonico nordamericano.


NOTE

[1]C. Mutti, Imperialismo e Impero, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” vol. XXIX, n. 1/2013.

[2]Ibidem.

[3]T. Graziani, Geopolitica del diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” vol. XII, n. 4/2007.

[4]C. Mutti, Europa, ridéstati!, Edizioni di Ar, Padova 2024, p. 144.

[5]C. Mutti, Imperialismo e Impero, cit.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).