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XXVIII – L’islamismo contro l’Islam?

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È significativo che Huntington affermi che “il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale”. In effetti i movimenti di matrice wahhabita e salafita sono stati utilizzati dalle potenze occidentali almeno fin dagli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti fornirono ai Fratelli Musulmani il loro sostegno contro il governo di Nasser e il panarabismo.

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Descrizione

GEOFILOSOFIA

È l’hybris, il “logos tremendo” della talassocrazia ateniese che Tucidide descrive nel famoso dialogo tra i Meli e gli Ateniesi: giusto è quel che è necessario, non viceversa. Viene posta così, in un’ottica definibile come “realistica”, la questione del rapporto tra il Politico e l’Etica, intesa come appartenenza alla propria terra, come il “dimorare” di un popolo. Inevitabile quindi la condanna della talassocrazia ateniese – che, in quanto “smisurata” volontà di potenza, non può non condurre la Città alla rovina – e naturale che proprio alla luce di ciò che i Greci denominavano “giusta misura” si riveli l’hybris su cui si fonda un’altra e ben più temibile talassocrazia.

DOSSARIO: L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

Capita spesso di vedere usato il termine “ultra-ortodosso” per designare alcune manifestazioni religiose, specialmente con riferimento alle cosiddette “tre religioni monoteistiche”: la cosa è piuttosto paradossale poiché di fatto gli ambienti cui si attribuisce una simile qualifica sono del tutto minoritari all’interno delle rispettive tradizioni, e spesso vengono considerati come “eretici” da quelle stesse scuole che per secoli ne hanno rappresentato l’“ortodossia”. Può essere interessante studiare brevemente alcuni antecedenti storici di certe forme ideologiche moderne, che amano presentarsi come “radicalmente islamiche”, ma che offrono invece i tratti di dottrine eterodosse già apparse nel passato, fino dai primi secoli dell’Islam, le quali sembrano costituire quasi degli archetipi destinati a giocare un ruolo disintegrativo nella stessa tradizione da cui apparentemente derivano.

L’attuale situazione del mondo islamico, ed in particolare del Vicino Oriente, con guerre permanenti, ingerenze straniere, l’emergere di gruppi reazionari, non può non essere analizzata alla luce degli interessi mondiali in gioco in questa zona del globo. I gruppi radicali spesso sono il frutto di una politica dell’imperialismo volta al perseguimento della famigerata politica del “divide et impera”. Ovviamente questa situazione caotica non è frutto di politiche recenti, ma è il risultato di un processo di disgregazione intrapreso da diverso tempo. Gli attori e le vittime possono cambiare, ma l’interesse strategico rimane il dominio della regione.

Le tre principali religioni monoteistiche hanno cercato, fin dai primordi, di stabilire un rapporto tra fede ed economia fondato sull’equilibrio e volto ad evitare pericolose degenerazioni. L’Islam, in particolare, è la religione che ha elaborato il più rigido sistema di restrizioni all’attività finanziaria, legando indissolubilmente il credito alle reali necessità popolari. La deriva del sistema produttivo capitalistico rende estremamente attuale questo argomento.

Fin dagli anni Cinquanta la classe politica dirigente degli USA vide nel wahhabismo un’ideologia funzionale ai suoi interessi geopolitici, che non avrebbe mai rappresentato un reale pericolo per Israele o per i regimi filoamericani del Vicino Oriente. La manipolazione degli islamisti entrò in una nuova fase negli anni Settanta, quando, ancor prima dell’intervento sovietico in Afghanistan, la CIA mise in piedi una rete operativa segreta in collaborazione con agenzie saudite, pachistane, iraniane ed egiziane.

Questo saggio intende offrire innanzitutto una rassegna delle fonti primarie che hanno costituito la base per l’elaborazione della dottrina del gihàd da parte dei giuristi musulmani. Il lavoro consiste quindi, in gran parte, in una versione commentata dei brani coranici concernenti il gihàd e dei più significativi hadith relativi al medesimo tema. Nel caso dei versetti coranici la versione è stata eseguita sul testo arabo, traslitterato in caratteri latini in maniera semplificata. Volutamente compilativo e “tecnico”, il saggio intende presentare i testi nella loro nuda oggettività, al fine di rendere possibile una comprensione del significato del gihàd quale esso emerge dalla polisemia del termine utilizzato nelle fonti. L’immagine che ne risulta è quella di una dottrina articolata e complessa, la quale non può essere ridotta alle semplificazioni e alle distorsioni che sono circolate sia nell’ambito occidentale sia in quello musulmano. Infatti, se è vero che l’Occidente ha percepito il gihàd (anzi “la” gihàd, secondo il bizzarro cambiamento di genere grammaticale subìto dal termine nella lingua italiana) come una fanatica “guerra santa” finalizzata alla conversione forzata dei non musulmani, è altrettanto vero che non meno distorte appaiono alcune interpretazioni del gihàd che hanno conosciuto una certa fortuna nello stesso mondo islamico. Basterebbe citare, a tale proposito, l’uso strumentale che del concetto in esame è stato fatto da alcuni gruppi politico-militari appartenenti alla variegata galassia del modernismo islamico. Si pensi, per esempio, al movimento dei Mojahedin-e Khalq-e Irani, che evoca il gihàd già nella propria denominazione; agli appelli al gihàd lanciati da organizzazioni patrocinate dalla CIA; al “gihàd sociale” teorizzato dall’intellettuale riformista Tariq Ramadan ecc. ecc. Al fine di delineare un profilo della concezione islamicamente ortodossa del gihàd, l’autore fa riferimento all’elaborazione “classica” della Sciarìa, ossia della Legge divina secondo l’Islam: tanto a quella che ha avuto luogo nel quadro dei riti giuridici tradizionali dell’Islam sunnita (malikita, sciafeita, hanafita, hanbalita), quanto a quella che ha preso forma nell’ambito sciita.

Per condurre la loro strategia nell’ex Jugoslavia, finalizzata all’insediamento di nuove basi militari in un paese storicamente neutrale e all’allargamento della NATO verso oriente, Washington e Londra hanno finanziato, addestrato militarmente e sostenuto mediaticamente il micronazionalismo albanese e i gruppi salafiti. Belgrado, considerata avamposto geopolitico russo, ne ha pagato le conseguenze maggiori. Lo “scontro di civiltà” fomentato tra il mondo ortodosso e quello islamico ha sconvolto tutta la regione, a vantaggio degl’ interessi economici e militari atlantisti.

Ampiamente diffuso in tutto il mondo, il movimento religioso-politico creato dal pensatore di Erzurum ha rappresentato – al momento dell’affermazione dell’AKP – il segno della riscossa islamica in Turchia, dopo la pluridecennale intolleranza degli ambienti laico-kemalisti allineati all’”Occidente”. Ora però l’ambiguità e la debolezza di fondo del pensiero güleniano ha favorito il suo recupero da parte dell’ideologia occidentale, che lo ha utilizzato come sostegno per la svolta involutiva e filoatlantica recentemente impressa dal governo di Ankara alla politica estera.

Fethullah Gülen è un influente ex-imam turco, il quale ha fondato e dirige, assieme al suo vice Nurettin Veren, un movimento religioso (MFG o Movimento Fethullah Gülen) che ha sede in Turchia e vanta 4 milioni di seguaci in tutto il mondo. Nel 1998 Gülen fuggì negli USA, per evitare le indagini circa il suo coinvolgimento in un golpe in Turchia. Bill e Hillary Clinton, e la CIA, lo accolsero e lo presentarono come uno “straordinario studioso e pacifico riformatore laico dell’Islam”. Oggi Barack Obama ha nominato Dalia Mogahed suo consigliere sull’Islam. Ovviamente Mogahed è un gülenista.

“Israele è la miccia sempre accesa. Quanto è lunga la miccia e fino a dove può bruciare? La polveriera non è in Medio Oriente. Il Medio Oriente al massimo è la seconda parte della miccia. La polveriera si trova in un punto imprecisato della cosiddetta ‘area turanica’ (Iran, Afghanistan, Tagikistan, Kirghizistan, Azerbaigian, Uzbekistan, Pakistan), che da secoli rappresenta il ventre molle della Russia ma (attenzione) anche della Cina. Dalle etnie uigure (turche) si risale verso lo Xinjiang, uno dei più grandi bacini minerari e petroliferi del mondo. Da lì si controlla tutta l’Eurasia. Si controllano corridoi del terzo millennio. Da quei corridoi eurasiatici passano gli oleodotti e i gasdotti, passano le vie della droga, passano i mercanti di schiavi che riforniscono le industrie e i commerci di tutto il mondo” (Samuel Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta).

In Cina la comunità musulmana conta 20 milioni di fedeli appartenenti a varie nazionalità; almeno la metà di loro è stanziata nel territorio della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, nodo strategico della Via della Seta, che rappresenta per Pechino una delle più promettenti prospettive sociali, politiche ed economiche degli ultimi vent’anni. Qui l’estremismo wahhabita si è innestato sulle pulsioni secessioniste sostenute ed alimentate da centrali statunitensi.

Conquistata l’indipendenza, l’Algeria dichiarò l’Islam religione di Stato, ma l’intelligencija musulmana fu marginalizzata. Houari Boumedienne riequilibrò la situazione, introducendo il diritto islamico nel codice civile come fonte sussidiaria del diritto ed assegnando a noti intellettuali islamici posti di responsabilità e di guida. Ciononostante i Fratelli Musulmani intensificarono la loro opposizione. Oggi il regime algerino si trova in difficoltà, ma nessuno è in grado di prevedere quando avrà luogo l’esplosione che incendierà il paese.

In Egitto la massoneria è stata un veicolo formidabile della penetrazione occidentale, un’organizzazione elitaria che ha influito sulla cultura politica locale per tutto il corso del XIX secolo e fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando Nasser sciolse tutte le logge, vedendo nell’organizzazione massonica un veicolo di interessi stranieri. La vita massonica in Egitto è ripresa soltanto nel 2007, quando è stata fondata la Grande Loggia Regolare d’Egitto, che dipende direttamente dalla Grande Loggia Regolare d’Inghilterra.

Italiani e francesi si contendono il controllo della Tunisia, un tempo territorio dell’Impero Ottomano. Stretti fra cosmopolitismo e interesse nazionale, i massoni francesi in Tunisia si muovono in un campo minato, dovendo difendere le loro prerogative nei confronti sia della popolazione locale sia delle altre comunità straniere presenti nella nazione nordafricana. Dagli esordi alla metà dell’Ottocento, la massoneria arriva all’indipendenza della Tunisia, attraversando due guerre mondiali e subendo lo scioglimento ordinato prima dal regine di Vichy e poi dalla neonata repubblica indipendente tunisina.

DOCUMENTI

Quello che segue è l’intervento del nostro redattore Enrico Galoppini, preparato in occasione della Conferenza dal titolo “Il risveglio islamico” tenutasi a Teheran il 18 e 19 settembre 2011. Tale intervento era riservato ad uno dei seminari a latere della conferenza vera a propria, ma per ragioni di tempo non è poi stato esposto. Il taglio del presente scritto non corrisponde a quello dei contributi di norma ospitati sulla rivista, ma riteniamo che costituisca un documento, utile a suo modo a fare chiarezza circa la differenza tra “Islam” e “islamismo”.

INTERVISTE

Claudio Mutti, Intervista all’hujjatulislam Hajj Abbas Di Palma

Anna Maria Turi, Intervista a Omar Mih, rappresentante del Fronte Polisario

CONTINENTI

Dopo essere stato colpito duramente dallo scoppio della seconda intifada e dalla perdita di priorità strategica nell’agenda politica internazione del post-11 settembre, il processo di pace israelo-palestinese sembra essersi definitivamente arenato nella frattura apertasi tra Hamas e Fatah. Un quadro, quello attuale, frutto di un progressivo deterioramento che rende velleitarie molte proposte finalizzate a rilanciare negoziati a partire dalle storiche questioni che hanno a lungo alimentato l’ostilità degli attori coinvolti. In questa logica s’inserisce la riflessione sul ruolo che, potenzialmente, potrebbe avere la questione delle risorse idriche che, da fonte di conflittualità, potrebbe divenire strumento di  cooperazione. Le peculiarità della questione idrica rispetto ad altri elementi di attrito tra israeliani e palestinesi deriva dalla sua duplice natura. L’acqua, infatti, oltre ad essere un’essenziale fonte di vita dotata di un valore simbolico direttamente proporzionale alla sua scarsità, è anche un bene il cui prelevamento e consumo possono essere razionalizzati tramite criteri di efficienza ed economicità. Disponendo d’adeguati finanziamenti, investimenti e tecnologie, il conflitto idrico tra israeliani e palestinesi potrebbe essere parzialmente disinnescato liberando così nuovi spazi negoziali per affrontare questioni il cui esito dipende, esclusivamente, da variabili di natura politico-strategica.
Malgrado le frasi di circostanza pronunciate da Hillary Clinton durante l’ultimo vertice dell’AIPAC, appare presumibile che il teatro marittimo di confronto del XXI secolo non sarà l’Oceano Pacifico, bensì l’Oceano Indiano. Le forti alleanze strette da Pechino con Teheran, Islamabad e Rangoon lasciano supporre quali potrebbero essere i reali motivi della razionalizzazione delle truppe nel Sud Est asiatico e in Australia stabilita dalla nuova dottrina militare degli Stati Uniti, nonché della rinnovata alleanza di Washington con le petro-monarchie del Golfo e con la Fratellanza Musulmana: contenere la Cina e bloccarne i tentativi di cooperazione con i Paesi del Vicino Oriente e dell’Africa.
Il saggio tenta di evidenziare il contrasto tra il sempre maggiore appoggio della Cina agli interventi dell’ONU e la parallela strategia economica e politica attuata nel Continente africano. Si cerca di mettere in luce i limiti della partecipazione cinese all’azione internazionale di mantenimento della pace, che si distingue per essere dettata da interessi politici ed economici che in larga parte si pongono in conflitto con i principi e i fini che stanno alla base degli stessi interventi delle Nazioni Unite.
La Repubblica Democratica del Congo, ricchissima di risorse naturali, è stata ribattezzata “scandalo geologico” e “paradosso della ricchezza”. Coltan, petrolio, diamanti, oro, niobio, cobalto, nichel.. sono solo alcuni dei minerali presenti nel sottosuolo congolese. Un patrimonio minerario che rappresenta una maledizione per la popolazione civile, vittima da oltre vent’anni di una guerra che non si è mai sopita ma che ha assunto solo forme diverse. Si tratta di conflitti per il possesso delle zone minerarie che coinvolgono gruppi ribelli, élite politiche e grandi multinazionali.
Parte terza di uno studio apparso sui nn. 1/2012 e 2/2012 di “Eurasia”.
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