Introduzione

Ad oggi, nel momento in cui si scrive, l’Occidente ha fornito due diverse tesi sull’attentato del 22 marzo scorso a Krasnogorsk nell’oblast di Mosca. La prima rientra nel novero del “complottismo politicamente corretto”: quello che identificando in Vladimir Putin il sempiterno “male assoluto” lo vorrebbe artefice delle azioni più spregevoli, atti terroristici contro il suo stesso popolo (e contro i naturali interessi nazionali russi compresi). Si vedano i tentativi (piuttosto ridicoli, ad onor del vero) di attribuire alla Russia il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. In altre parole, è la tesi che interpreta l’attentato di Mosca come “false flag” (il termine anglosassone dovrebbe già rendere bene l’idea di chi è maestro in tale pratica): ovvero, un “autoattentato” il cui obiettivo sarebbe stato quello di intensificare il livello del conflitto in Ucraina e, per interposto Stato, con l’intero Occidente. Questa tesi è direttamente collegata a quella che vorrebbe Putin (allora direttore dell’FSB e poi Primo Ministro) coinvolto nella “strategia della tensione” che portò al secondo intervento russo in Cecenia nel 1999. Indubbiamente, ci sono ancora molte ombre sulla serie di attentati che sconvolse la Russia nell’estate di quell’anno e sul tentativo dei gruppi armati ceceni guidati da Shamil Basaev e dal saudita-giordano Ibn al-Khattab di estendere il conflitto al Daghestan. I servizi occidentali (soprattutto francesi e britannici) hanno direttamente attribuito al Cremlino la responsabilità di gran parte di questi eventi. Tuttavia, sarebbe opportuno sottolineare come il principale interlocutore degli islamisti ceceni (ed anche colui che ha sempre sostenuto l’idea del negoziato con loro, arrivando a sostenere la campagna di sequestri incentivando il pagamento del riscatto) è stato l’oligarca Boris Berezovskij: personaggio legato ai centri di potere occidentali, assai vicino a Boris El’cin e parte integrante di quell’oligarchia predatrice che negli anni ’90 mise in ginocchio la Russia. Non solo, dopo aver sostenuto la sua corsa alla presidenza, Berezovskij è stato il più strenuo oppositore di Vladimir Putin a partire dal momento in cui comprese che il nuovo corso non sarebbe stato in linea con la sua agenda di svilimento dell’interesse nazionale russo.

Tornando al presente, rimane da capire per quale motivo Vladimir Putin avrebbe dovuto dapprima inquinare la propria campagna elettorale con l’assassinio dell’oppositore filooccidentale Aleksej Navalnyj (altra personalità da inserire nel lungo elenco di “sedotti e abbandonati” dall’Occidente, tra i “più utili da morti che da vivi”, visto anche il suo scarso seguito in Russia) e, successivamente, rovinare la netta vittoria con un “attacco pilotato” che, indubbiamente, mina il principio di sicurezza interna sul quale ha costruito larga parte del suo consenso.

La seconda tesi è quella della responsabilità diretta dell’ISIS (senza nessun coinvolgimento ucraino e/o occidentale, subito smentito e negato) con tanto di preavviso da parte di Washington. Una “soluzione” sicuramente appetibile per riproporre, in previsione di un’eventuale vittoria repubblicana alle prossime elezioni presidenziali statunitensi, lo schema dello “scontro tra civiltà”, magari con un progressivo (e lento) disimpegno USA dall’Ucraina ed un conseguente scarico di tale “fardello” sull’Europa (strategia messa in atto già nei Balcani). In questa analisi si cercherà di dimostrare la sostanziale inconsistenza di entrambe le tesi.

 

L’ISIS e la Russia

Il particolare rapporto tra il sedicente “Stato Islamico” e la Russia merita l’apertura di una breve parentesi. Dopo la morte di Aslan Maskhadov nel 2005 (ex Presidente della Cecenia nel corso della breve esperienza semindipendente a cavallo tra i due conflitti degli anni ’90), il ruolo di guida della militanza armata in Cecenia venne assunto da Abdul-Halim Sadulayev, che decretò la formazione di un fronte caucasico unito antirusso tra tutti i musulmani del Caucaso settentrionale. L’obiettivo – riprendendo la dottrina portata avanti dal ramo “wahhabita-gihadista” del separatismo ceceno (il cui massimo esponente rimaneva il tristemente noto Shamil Basaev) – era quello di cercare di allargare il conflitto. Sadulayev, tuttavia, morì di lì a poco ed il suo posto venne preso da Doku Umarov, anch’egli convinto della necessità di estendere il teatro di guerra all’intera regione. Di fatto, è stato proprio Umarov a porre fine all’esperienza della Repubblica cecena di Ičkerija e ad inaugurare quella (decisamente più ambiziosa) dell’“Emirato del Caucaso” (Imarat Kavkaz). Emirato di cui lo stesso Umarov si autoproclamò vertice politico-militare.

A dire la verità, il progetto di Umarov incontrò l’opposizione del Ministro degli Esteri di Maskhadov, Akhmad Zakayev, in esilio a Londra (dove soggiorna tuttora e da dove continua a sostenere progetti di frammentazione della Federazione Russa lungo linee etno-settarie). Senza grande successo, Zakayev esortò i miliziani ceceni a rimanere fedeli alla causa pseudonazionalista (ormai sepolta anche dalla più che ampia collaborazione dello stesso Maskhadov con il terrorismo di matrice islamista). Ciò gli valse anche una condanna a morte da parte di un tribunale sciaraitico dell’Emirato. Dal canto suo, Umarov fece sapere che non aveva bisogno di alcuna approvazione da parte di uomini che non si trovavano neanche nella regione. Il suo dovere, dichiarò, era quello di combattere per creare uno Stato in cui venisse applicata la sua particolare interpretazione, integralista e radicale, della Shari’a. Inoltre, a suo modo di vedere, la giurisdizione dell’Emirato del Caucaso andava oltre i confini della regione. Essa si estendeva su tutte le aree della Russia abitate da musulmani che avrebbero dovuto inevitabilmente unirsi a lui, in quanto, a suo dire, oppressi dal governo di Mosca.

Della stessa idea era anche Movladi Udugov: ex Ministro dell’Informazione sotto il governo di Dzochar Dudaev (patrono della causa separatista cecena nei primi anni ’90). Anch’egli, infatti, nel 2008 ebbe modo di dichiarare che l’idea di “Stato Islamico” non ha confini. Di conseguenza, era sbagliato concentrarsi esclusivamente sul Caucaso. Ancora nel 2011, sul sito informatico kavkazcentr.ru (principale organo di diffusione della propaganda wahhabita-gihadista nel Caucaso), Umarov sosteneva addirittura la necessità di riconquistare le regioni di Astrachan, gli Urali e la Siberia!

Inutile dire che la sua iniziativa non ha riscosso successo tra le popolazioni musulmane della Russia, né nel Caucaso né altrove (grazie anche ai rapporti con le monarchie del Golfo instaurati da Akhmad Kadyrov e da suo figlio Ramzan). Tuttavia, per dare una parvenza di credibilità ad una “istituzione” che esisteva solo nella sua testa, Umarov divise il territorio del fantomatico emirato in sei province (vilayat): il Vilayat di Circassia, quello di Cabarda-Balcaria, il Vilayat della Steppa di Nogaj, il Vilayat di Galgayche (corrispondente all’Inguscezia), il Vilayat di Cecenia e quello del Daghestan. Ognuno di essi, guidato da un suo luogotenente, avrebbe dovuto partecipare in egual misura al conflitto contro gli “infedeli” russi.

Data la scarsa disponibilità di capitale umano in una regione che stava rapidamente riscoprendo le forme tradizionali e ortodosse dell’Islam, il confronto militare con Mosca si risolse in una serie di attentati e minacce terroristiche. Quelli più famosi sono sicuramente gli attentati esplosivi al treno espresso Nevskij del 2009, quello alla metropolitana di Mosca del 2010 e quello all’aeroporto Domodedovo nel 2011. Di non minore rilievo sono stati infine gli attacchi in Daghestan nel 2012, le esplosioni di Volgograd nel 2013 e gli scontri armati tra miliziani di Imarat Kavkaz e forze di sicurezza a Groznyj nel 2014. Senza considerare le continue minacce di attentati con le quali i terroristi hanno cercato di rovinare l’atmosfera dei giochi olimpici invernali di Soči, sempre nel 2014.

Ad ogni modo, sin dal 2010, con la creazione del Distretto Federale del Caucaso del Nord, il lancio della Strategia 2025 (rivolta al consolidamento economico regionale) ed il coordinamento delle forze di sicurezza locali e federali in diverse operazioni antiterrorismo, Mosca è riuscita a limitare non poco le azioni del gruppo terroristico. Lo stesso Umarov morì nel 2013 in circostanze poco chiare (forse a seguito di un avvelenamento), mentre tre dei suoi successori vennero eliminati nel corso del biennio 2015-2016. Nel 2014, inoltre, in concomitanza con l’ascesa nel Levante dello pseudocaliffato guidato dall’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, molti comandanti di Imarat Kavkaz preferirono optare per la piattaforma ideologica della nuova entità terroristica, nonostante alcuni portavoce dell’emirato ne abbiano criticato apertamente lo stile di lotta rivolto soprattutto contro altri musulmani ritenuti “infedeli” o (peggio ancora) “apostati” e non contro il “nemico esterno” (impostazione tradizionale della prima al-Qaeda).

Forte dei numerosi “cambi di casacca”, il sedicente “Stato Islamico” ha dato vita nel 2015 al Vilayat Kavkaz (comprendente, in linea teorica, l’intera regione caucasica dal Mar Nero al Mar Caspio) ed a nuovi portali di informazione in lingua russa (tra cui spicca Istok, “la fonte”), che avrebbero dovuto competere direttamente con il già citato kavkazcentr.ru.

La propaganda del nuovo “Stato Islamico” era (ed è) tutta impostata sul fatto che il gihad, concepito come obbligo individuale di ogni fedele, avrebbe prodotto una ricompensa in primo luogo terrena (e non esclusivamente ultraterrena): ovvero, la possibilità di vivere all’interno dello stesso pseudocaliffato.

Inutile dire che tale approccio presenta molti più punti in comune con il messianismo giudaico (rivolto alla ricostruzione del puramente materiale Regno di Israele, e dunque a portare “Dio in terra”, accelerando la venuta dei “tempi messianici”), o con la “teologia della prosperità” evangelico-protestante (tutta incentrata sulla ricompensa terrena), che non con l’escatologia islamica tradizionale. Ed è altrettanto inutile affermare che questo aspetto tradisce l’origine occidentale e postmoderna dell’entità terroristica; frutto di una mescolanza tra istanze religiose influenzate dal puritanesimo e di una ulteriore estremizzazione dell’eterodossia wahhabita.

Sta di fatto che le indubbie capacità promozionali del gruppo (costruite attorno ad elaborati messaggi videografici) hanno rappresentato per la Russia una minaccia in termini di potenziale proselitismo nella regione caucasica (non sono pochi i miliziani di quest’area finiti ad ingrossare le fila dei presunti “ribelli siriani”). E ciò, oltre al mantenimento delle importanti basi militari di Tartus e Latakia, ha rappresentato il motivo principale dell’intervento diretto della Russia in Siria (arrivato, secondo alcune fonti iraniane, anche grazie agli sforzi diplomatici del generale Qassem Soleimani, uno dei più acerrimi nemici dell’ISIS, non a caso eliminato per ordine di Donald Trump). Tale intervento, inoltre, è stato anche il prodotto della reiterata aggressività occidentale nell’area mediterranea. Un’aggressività che nel 2011 ha portato alla distruzione della Libia (con la quale Mosca stava intessendo rapporti sempre più stretti) dopo che la stessa Russia (insieme alla Cina) si era ingenuamente astenuta al voto sulla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Tale risoluzione, pur prevedendo l’immediato cessate il fuoco tra le parti in conflitto, non concedeva alla NATO nessuna autorizzazione di bombardare lo Stato nordafricano. Tuttavia, dopo quanto avvenuto nella ex Jugoslavia e con l’aggressione all’Iraq del 2003, questo evento ha reso ulteriormente chiaro che la diplomazia anglo-americana comporta il costante tentativo di ingannare la controparte, se non gli stessi satelliti.

Non è da escludere, infine, il fatto che sempre Mosca si sia resa conto sin dai primi anni 2000 della sostanziale incongruenza della “War on Terror” dell’amministrazione Bush prima e di quella Obama poi. Come è noto, gli Stati Uniti hanno a lungo finanziato e sostenuto quei movimenti islamisti che, secondo la strategia di Zbigniew Brzezinski, avrebbero dovuto costruire una sorta di “cintura verde” ai confini meridionali dell’URSS e successivamente della Federazione Russa. A questo proposito, rimane celebre un’affermazione dell’ex agente della CIA Graham Fuller: “la politica di guidare l’evoluzione dell’Islam e di aiutarlo contro i nostri avversari ha funzionato meravigliosamente bene in Afghanistan contro i Russi. Le stesse dottrine possono ancora essere utilizzate per destabilizzare ciò che resta della Russia e per contrastare l’influenza cinese in Asia Centrale”. Non solo, ma è altrettanto noto che i veterani della CIA Richard Secord, Edward Deaborn ed Heine Aderholf, negli anni ’90, diedero vita in Azerbaigian alla compagnia petrolifera di copertura Mega Oil: strumento utilizzato per trasferire circa 2000 miliziani gihadisti dall’Afghanistan ad un campo di addestramento preparato (grazie a fondi sauditi) nei dintorni di Baku, dove si preparavano i combattenti da inviare in Cecenia.

Sorvolando sul sostegno della CIA alla creazione di al-Qaeda nel contesto del gihad antisovietico in Afghanistan, ciò che qui preme sottolineare è il fatto che l’odierno “Stato Islamico” è un derivato della stessa al-Qaeda (almeno del suo ramo iracheno guidato dal terrorista giordano Abu Musa al-Zarqawi) e della scellerata politica svolta da Washington nel corso dell’occupazione dell’Iraq. Gli Stati Uniti, infatti, una volta entrati a Baghdad alla guida della cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, hanno ritenuto opportuno smantellare totalmente esercito e forze di sicurezza irachene, mettendo dall’oggi al domani sulla strada migliaia di uomini con una notevole preparazione in ambito militare, di spionaggio e controspionaggio. Molti di questi uomini hanno dovuto reinventarsi un ruolo ed uno scopo nel mondo e l’hanno trovato dapprima nel messaggio qaidista e successivamente in quello dello pseudocaliffato, il quale ha conosciuto le sue fortune militari-territoriali proprio grazie alle capacità degli ex ufficiali sunniti dell’esercito iracheno (in alcuni casi affiliati alla confraternita sufica della Naqshbandiyya).

Va da sé che tanto al-Qaeda in Iraq, quanto lo “Stato Islamico” dal 2014 (anche se esisteva in nuce già da molto prima), hanno svolto un preciso ruolo geopolitico per conto degli USA, contrastando la rivolta nazionalista-sciita del movimento legato a Muqtada al-Sadr e controbilanciando la crescente influenza iraniana sull’Iraq. In altri termini, hanno ben servito il progetto di divisione lungo linee etnico-settarie dell’Iraq e più in generale dell’intero Medio Oriente, previsto sia nel piano sionista elaborato negli anni ’80 da Odet Yinon, sia nel Progetto Grande Medio Oriente dei neocon statunitensi (ancora nel 2007, l’attuale presidente USA Joe Biden sosteneva la necessità della frammentazione dell’Iraq).

La stessa guerra in Siria è stata a più riprese definita come una “balcanizzazione indotta”. Qui la CIA, attraverso l’Operazione Timber Sycamore, ha fatto filtrare via Giordania e Turchia un numero notevole di armamenti terminati direttamente nelle mani di diversi gruppi gihadisti (in particolare, il qaidista Fronte al-Nusra). Allo stesso tempo, la coalizione occidentale anti-ISIS si è distinta per i bombardamenti indiscriminati su Raqqa (capitale dello pseudocaliffato) e su altri villaggi, quando non direttamente sulle postazioni dell’esercito siriano, facendo strage di civili ed ottenendo l’effetto contrario di ingrossare le fila dell’organizzazione terroristica. Una prassi messa in atto anni prima anche nello Yemen, nel corso della cosiddetta “guerra di Sa’dah, quando Barack Obama neanche faceva distinzione tra la ribellione zaydita nel nord del Paese ed i miliziani di al-Qaeda nella Penisola Arabica che operavano spesso in simbiosi con l’esercito di Sana’a per reprimerla.

Arrivando all’attentato di Mosca, la rivendicazione del ramo Khorasan dello “Stato Islamico” non è una particolare sorpresa. L’IS-K, che aveva già rivendicato l’attacco all’ambasciata russa di Kabul nel 2022, da tempo svolge un ruolo di destabilizzazione e di sabotaggio dei progetti di interconnessione eurasiatica in Asia centrale e meridionale: dallo spazio ex-sovietico all’Afghanistan (dove è in guerra aperta contro i Talebani) e in Pakistan (dove l’obiettivo principale dei gruppi ad esso affiliati è il Corridoio Economico Sino-Pakistano).

Ancora una volta, anche se si volesse ammettere l’estraneità occidentale all’attentato (sebbene Ankara abbia sottolineato l’impossibilità che gli attentatori abbiano agito senza l’ausilio di un qualche servizio estero), rimane il fatto che questo gruppo rappresenta una pedina facilmente sfruttabile per la geopolitica del caos statunitense. Esso, infatti, continua a fornire una notevole dose di manovalanza da utilizzare in diversi teatri caldi sul continente eurasiatico.

 

Il terrorismo internazionale e l’Ucraina

In un articolo pubblicato sul sito informatico di “Eurasia” in data 10 giugno 2022 col titolo Guerra demografica e guerra economica, era già stata presentata l’ipotesi che il flusso di armi occidentali in Ucraina avrebbe fatto le fortune della criminalità organizzata locale, legata a doppio filo sia con il regime di Zelensky, sia con le organizzazioni terroristiche internazionali che operano tra il Caucaso e l’Asia centrale.

Negare (o quanto meno occultare) le connessioni tra Kiev e questi gruppi risulta sicuramente utile alla propaganda di guerra occidentale, ma rappresenta anche una vera e propria fuga dalla realtà. Ad esempio, sin dal 2022 è attivo sul suolo ucraino il Battaglione OBON (o Sceicco Mansur) inserito nella Legione Internazionale di Difesa Territoriale dell’Ucraina e composto in larga parte da miliziani ceceni e nordcaucasici. Il battaglione è stato creato dal già citato Akhmad Zakayev allo scopo di combattere il comune nemico russo. Tra i vertici del battaglione spiccano i terroristi Rustam Magomedovic Azhiev, Hadzij-Murad Zumso e Amaev Khavazhi. Il primo è un veterano del conflitto siriano dove ha guidato il gruppo gihadista Ajnad al-Kavkaz (Soldati del Caucaso), composto in prevalenza da ex combattenti dell’Emirato del Caucaso ed impiegato nell’area di Latakia. Dopo il dispiegamento in Ucraina, i miliziani di Ajnad al-Kavkaz hanno avuto un ruolo di primo piano nella battaglia di Bakhmut/Artemovsk e nei ripetuti tentativi di penetrazione nella regione russa di Belgorod (principalmente con lo scopo di terrorizzare la popolazione civile locale).

Di non minore rilievo sono le intese tra il celebre Battaglione Azov, l’ISIS e al-Qaeda. Il veterano del Battaglione Aleksej Levkin (già in ottimi rapporti con i gruppi estremisti nordamericani Rise Above Movement e Atomwaffen Division e protagonista di diverse incursioni nel territorio di Belgorod) ha manifestato a più riprese la sua ammirazione per i metodi utilizzati dai gruppi del settarismo islamista. Non a caso, il terrorismo contro la popolazione civile ha caratterizzato sia l’esperienza dello pseudocaliffato tra Siria e Iraq, sia il dominio azovita a Mariupol, prima della sua liberazione nel 2022.

Tali analogie si riscontrano anche nello stile di propaganda. I video dello pseudocaliffato e quelli del Battaglione Azov si caratterizzano entrambi per un notevole uso di riprese aeree, per il ricorso ai droni e la costante ricerca di una forma di evocazione pseudospirituale. Da non sottovalutare anche la comune avversione che entrambi i gruppi sembrano mostrare per l’autentica sacralità. Se il presunto “paganesimo” azovita ha portato i membri del Battaglione a saccheggiare le chiese ortodosse (naturalmente quelle legate al Patriarcato di Mosca) ed a bruciarne le icone, è fin troppo noto l’impegno profuso dai miliziani dell’ISIS nella distruzione del patrimonio storico e spirituale del territorio da loro controllato (da Palmira a Ninive) ed il loro totale dispregio dei luoghi di culto e di preghiera (si veda l’attentato al cimitero di Kerman in Iran).

Ciò li rende protagonisti di quello che, in diverse occasioni, chi scrive ha definito come processo di “desacralizzazione dello spazio”. Un processo che va di pari passo con l’occidentalizzazione del mondo e che ha il suo più fiero portabandiera in quel sionismo che profana e distrugge chiese, moschee e cimiteri nella totale indifferenza delle cancellerie occidentali.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).