Il 2 settembre si celebrerà il 75° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale. Il 2 settembre 1945, a bordo della corazzata statunitense USS Missouri, nella baia di Tokyo, la delegazione giapponese firmò la resa incondizionata, che fu annunciata via radio dall’imperatore Hirohito il 15 agosto.

Da tre quarti di secolo il mondo gode di una “pace”, intesa come assenza di guerra tra le grandi potenze, che non ha eguali nell’età contemporanea. Si è trattato però, per oltre quarant’anni, di una “pace” armata fino ai denti, che si reggeva sulla mutua distruzione assicurata (l’acronimo inglese rende bene la follia di questo equilibrio). Una “pace” armata e fragile che già nel 1962, appena 17 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, rischiò di degenerare nell’olocausto nucleare, quando a Cuba la guerra fredda conobbe i suoi tredici giorni più caldi.

La dissoluzione del patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica a cavallo tra 1989 e 1991 stordì il mondo con l’illusione dell’unipolarismo. Effettivamente in quegli anni vi era un’unica superpotenza incontrastata. La liberaldemocrazia e il libero mercato sembravano destinati ad affermarsi in tutto il mondo mentre il divario di potenza avrebbe garantito pace e concordia e la competizione tra Stati sarebbe avvenuta solo in campo economico. Le promesse di quegli anni (più ricchezza, più giustizia, più sicurezza) non furono mantenute, mentre l’invasione dell’Iraq del 2003 e la crisi finanziaria del 2007-2008 delegittimarono l’Occidente a trazione statunitense[1].

Per quanto riguarda l’invasione a guida anglo-statunitense dell’Iraq, bisogna sottolineare che essa ha lasciato in eredità uno Stato fallito che prima ha rischiato di essere sopraffatto dai terroristi dello “Stato islamico” (Is), anch’essi lascito della sciagurata invasione, e che, oggigiorno, è incapace di tenere a freno le milizie paramilitari che uccidono impunemente i loro critici[2]. A quasi vent’anni dall’invasione del 2003, l’Iraq continua ad essere un buco nero di violenza e instabilità e un’arena di competizione per le potenze, come dimostrato dall’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani.

A partire dalla fine degli anni Duemila e durante lo scorso decennio si è però delineato un nuovo scenario. I rapporti tra le grandi potenze hanno conosciuto un mutamento storico. Con gli interventi militari in Georgia (2008), Crimea (2014), Siria (2015) e Libia (2019), la Russia ha ristabilito il suo status di grande potenza e già nel febbraio 2007, all’annuale conferenza sulla sicurezza di Monaco, il presidente russo Vladimir Putin prese le distanze dagli interventi unilaterali occidentali, condannandoli in quanto forieri di destabilizzazione e privi di legittimazione[3].

Per quanto riguarda la Cina, l’esorbitante crescita economica seguita alle riforme di Deng Xiaoping, oltre a tirare fuori dalla miseria centinaia di milioni di persone, ha reso disponibili risorse inimmaginabili. Esse si sono tradotte da un lato nell’ammodernamento delle forze armate, dall’altro in una diplomazia degli investimenti (la Belt and Road Initiative, colloquialmente nota come Nuova Via della Seta) che riguarda innanzitutto l’intorno regionale cinese ma il cui fine ultimo è quello di raggiungere l’Europa, collegando l’intera Eurasia in una grande rete commerciale ed infrastrutturale. Allo stesso tempo Pechino ha iniziato a concretizzare le sue rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale, occupando atolli e scogli su cui ha costruito basi militari.

Accomunate dal fatto di essere percepite dagli Stati Uniti come i più pericolosi rivali strategici, negli ultimi anni Russia e Cina hanno approfondito le loro relazioni dal punto di vista economico, politico, energetico e militare. Nel periodo post guerra fredda i legami tra Mosca e Pechino non sono mai stati così stretti.

La presidenza Trump (o almeno il suo primo mandato, a seconda di come andranno le elezioni di novembre) verrà sicuramente ricordata per aver portato alla luce del sole la rivalità tra gli Stati Uniti e la Cina, fatto ormai assodato anche per i non addetti ai lavori. Sebbene i media ne offrano una versione edulcorata che riguarda solo l’economia e la tecnologia, la rivalità sino-americana comprende anche aspetti militari e geopolitici. Mentre Pechino consolida la sua presenza militare nel Mar Cinese Meridionale, la US Navy esegue le cosiddette “operazioni di affermazione della libertà di navigazione” nell’ambito della sua iniziativa volta a garantire “un Indo-Pacifico libero e aperto”, cioè il mantenimento dello status quo e il respingimento della Cina. Questo conflitto di interessi ha posto le basi per eventuali incidenti navali tra i vascelli cinesi e statunitensi nel Mar Cinese Meridionale[4].

L’Iran, nonostante le sanzioni che ne sopprimono le possibilità di sviluppo economico, continua ad avere una propria sfera d’influenza nel Vicino Oriente che si concretizza soprattutto nella fornitura di aiuti finanziari e militari a soggetti non statali come partiti politici e gruppi paramilitari, mentre i missili a medio raggio e la guardia costiera dei pasdaran svolgono la funzione di deterrente. Nonostante l’intenzione di ritirarsi dal Vicino Oriente, manifestata sia da Barack Obama sia dal suo successore, gli Stati Uniti continuano ad essere molto presenti militarmente nella regione.

In sostanza, durante lo scorso decennio si è registrato un evidente declino relativo della potenza statunitense sia dal punto di vista economico e tecnologico (per via della crescita cinese), sia dal punto di vista geopolitico (interventi militari della Russia, espansionismo della Cina nel Mar Cinese Meridionale, resistenza dell’Iran alle sanzioni e ampliamento della sua sfera d’influenza nel Vicino Oriente). Tale declino relativo è stato accompagnato da un cambiamento nelle relazioni tra le tre più grandi potenze. Gli eventi della Crimea e del Donbass del 2014 hanno portato i rapporti della Russia con gli Stati Uniti e l’Unione Europea al minimo storico da quando è finita la guerra fredda. A sei anni di distanza, a causa di sanzioni e controsanzioni e altri eventi accaduti in questo lasso di tempo, non si vedono segnali di riavvicinamento. Per quanto riguarda le relazioni tra Cina e Stati Uniti, esse hanno conosciuto un netto peggioramento nella seconda metà dello scorso decennio, con crescenti tensioni in numerosi ambiti. Bisogna però dire che già nel settembre 2015, quando ammonì gli Stati Uniti di non cadere nella trappola di Tucidide, il presidente cinese Xi Jinping era perfettamente consapevole della posta in gioco della rivalità sino-americana[5].

In poche parole, l’assetto del sistema internazionale è cambiato. Dall’unipolarismo dei primi anni Novanta si è passati a un assetto tendente al multipolarismo.

Poi è arrivato il 2020 con il Covid-19. Il virus, invece di rappacificare le grandi potenze e favorire la cooperazione tra di loro per risolvere l’emergenza sanitaria globale, ha accelerato, cioè aggravato, la rivalità sino-americana. Il virus acceleratore[6] ha contribuito ad inclinare il piano su cui si trovano le relazioni tra Washington e Pechino. Cina e Stati Uniti, invece di accordare una tregua e collaborare per sviluppare un vaccino, si sono accusati a vicenda di aver originato il virus. Come se non bastasse, lo scorso luglio si è avuto un inasprimento inedito della tensione diplomatica. La chiusura del consolato cinese di Houston, accusato di spionaggio e furto della proprietà intellettuale, è stata seguita da una misura analoga da parte del governo cinese, il quale ha imposto la chiusura del consolato statunitense di Chengdu, città situata nella Cina sud-occidentale. Tale inasprimento è sintomatico del pessimo stato dei rapporti diplomatici tra le due potenze[7].

A tre quarti di secolo dalla fine della guerra più sanguinosa della storia dell’umanità viene spontaneo domandarsi cosa ci riserveranno i prossimi decenni di politica internazionale. La pace tra le grandi potenze verrà preservata per altri 75 anni? È questa la grande domanda che dobbiamo porci.

Inutile dire che rispondere a tale quesito è impossibile. L’unica cosa che si può fare è individuare le dinamiche di lungo periodo caratterizzanti il nostro tempo e sulla base di queste avanzare delle ipotesi per il futuro. Durante lo scorso decennio è avvenuto il più importante cambiamento nella politica internazionale dai tempi della fine della guerra fredda. Le relazioni tra le grandi potenze sono mutate in modo significativo: dalla coesistenza e dalla cooperazione si è passati all’antagonismo e a una rinnovata competizione che vede contrapporsi gli Stati Uniti alla Cina e alla Russia. In particolare, la rivalità tra Washington e Pechino è destinata ad essere (già lo è) il tema centrale della politica internazionale dei prossimi anni e decenni.

Nell’ambito di questa rivalità si osservano anche il riarmo del Giappone, che si sta risvegliando dopo un sonno pacifista imposto dalla potenza occupante statunitense, e le recenti tensioni al confine tra India e Cina, degenerate con una violenza che non si vedeva da decenni. Ciò suggerisce che la rivalità sino-americana non coinvolge solo Washington e Pechino, ma anche le potenze regionali e gli Stati che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale.

Lo stralcio del trattato Inf, siglato nel dicembre 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, è un altro campanello d’allarme che ci impone di focalizzare l’attenzione sulle relazioni tra le grandi potenze. Gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente dal trattato accusando la Russia di non rispettarlo, ma è chiaro che il governo statunitense ritenga l’Inf obsoleto perché non vincola la Cina, percepita come principale rivale strategico. Infatti, nel comunicato stampa che annunciò il ritiro unilaterale, il Dipartimento di Stato fece appello non solo alla Russia ma anche alla Cina per avviare negoziati tesi alla stipulazione di un nuovo trattato[8].

A febbraio del 2021 scadrà anche il New START, firmato nell’aprile 2010 da Russia e Stati Uniti ed entrato in vigore nel febbraio dell’anno successivo. Anche in questo caso Washington ha tentato, infine rinunciando[9], di coinvolgere Pechino. La risposta del governo cinese è stata netta: “saremo felici di partecipare ai negoziati quando gli Stati Uniti avranno ridotto il loro arsenale nucleare al livello cinese”[10]. Nel frattempo a Vienna continuano i negoziati tra le delegazioni di Russia e Stati Uniti. Tuttavia, il rinnovo del trattato non è affatto scontato[11].

Gli anni Dieci si sono conclusi consegnando una fotografia della politica internazionale molto diversa da quelle degli anni Novanta e Duemila. Una fotografia caratterizzata da una rinnovata competizione tra le grandi potenze che non ha eguali nel periodo post guerra fredda. Competizione che è stata inasprita dalla pandemia di Covid-19, specie per quanto riguarda Cina e Stati Uniti, le cui relazioni sono caratterizzate da sfiducia e sospetto come mai prima d’ora.

Questo è lo stato delle relazioni tra le principali potenze del mondo a 75 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Aspri conflitti esistono però anche a livello regionale. Si pensi al quarantennale conflitto tra Stati Uniti ed Iran nel Vicino Oriente, di cui si è già accennato, e a quanto sta accadendo nel Mediterraneo centrale e orientale, anch’esso teatro di una rinnovata competizione che vede protagonisti, tra gli altri, Turchia e Russia. Le prospettive di pace per i prossimi decenni non sono quindi rosee. Non si può far altro che auspicare che in futuro le relazioni tra le grandi potenze migliorino. Al momento però non si vedono spazi per riavvicinamenti significativi.

Pechino e Washington portano sulle loro spalle una responsabilità enorme. Entro il 2049 potrebbe scoppiare una guerra. Quell’anno, oltre a marcare il centenario della proclamazione della Repubblica Popolare, è stato individuato da Xi Jinping come il termine ultimo entro cui compiere il “sogno cinese”, ovvero la rinascita della nazione cinese dopo il “secolo delle umiliazioni” (1839-1949). Il compimento di tale sogno passa anche attraverso la riunificazione di Taiwan, che Pechino percepisce come propria provincia ribelle. I cinesi non hanno mai escluso l’uso della forza militare per fare ciò. Quella di Taiwan è la grande questione irrisolta delle relazioni tra Cina e Stati Uniti. Questi ultimi continuano a supportare Taipei fornendo armamenti ed equipaggiamenti militari. Di fatto ne sono i protettori.

Semmai scoppierà una guerra tra Stati Uniti e Cina, la speranza è che essa venga circoscritta, come nel caso della guerra di confine sino-sovietica del 1969. Tuttavia, quando parte la scintilla della guerra non c’è cosa più difficile che impedire il divampare dell’incendio.


NOTE

[1]Vittorio Emanuele Parsi, Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 39-64.

[2]Basra killings undermine Iraqi PM’s efforts to rein in militias, “Reuters”, 22 agosto 2020. Ultimo accesso 26 agosto 2020.

[3]Speech and the following discussion at the Munich Conference on security policy, “President of Russia”, 10 febbraio 2007. Ultimo accesso 26 agosto 2020.

[4]China-US close encounters “raise conflict risk in South China Sea”, “South China Morning Post”, 16 giugno 2020. Ultimo accesso 26 agosto 2020.

[5]Speech by H.E. Xi Jinping President of the People’s Republic of China at the welcoming dinner hosted by local governments and friendly organizations in the United States, “Ministry of Foreign Affairs of the People’s Republic of China”, 23 settembre 2015. Ultimo accesso 26 agosto 2020.

[6]Il virus acceleratore, Eurasia. Rivista di studi geopolitici, LIX, 3/2020.

[7]Chengdu: US leaves consulate amid row with China, “BBC”, 27 luglio 2020. Ultimo accesso 26 agosto 2020.

[8]U.S. Withdrawal from the INF Treaty on August 2, 2019, “U.S. Department of State”, 2 agosto 2019. Ultimo accesso 26 agosto 2020.

[9]USA ritirano proposta di aggiungere Cina ai negoziati Trattato per riduzione armi nucleari – Mosca, “Sputnik”, 22 agosto 2020. Ultimo accesso 26 agosto 2020.

[10]China “happy to” join arms control talks with US and Russia – if US cuts its nuclear arsenal down to China’s level, “Business Insider”, 8 luglio 2020. Ultimo accesso 26 agosto 2020.

[11]Per Lavrov le condizioni di Washington per preservare il trattato New START sono irrealistiche, “Sputnik”, 24 agosto 2020. Ultimo accesso 26 agosto 2020.


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Massimiliano Palladini, dopo la laurea triennale in Scienze politiche, sociali e internazionali (Università di Bologna) ha conseguito la laurea magistrale in Relazioni internazionali ed europee (Università di Parma). Si interessa di politica internazionale e storia delle relazioni internazionali. Nel 2019, insieme ad alcuni compagni di corso dell’Università di Bologna, ha fondato Civitas Europa, associazione di studi sull’integrazione europea e la politica internazionale.