Dopo aver letto un libro come quello di Alessio Mannino Mare Monstrum. Immigrazione: bugie e tabù (Arianna Editrice, Bologna 2014), la prima domanda che s’impone è questa: perché mai pubblicare libri come questo?

Non mi si fraintenda: non voglio dire che non è bene che libri del genere siano dati alle stampe. Tutt’altro. Ma è certo che nessuno, ma davvero nessuno di tutti coloro che hanno un qualche potere decisionale, un qualche ruolo di “responsabilità” in questo Paese, lo leggerà mai.

Parliamoci chiaro: questi sciagurati, trincerati nelle loro torri d’avorio e nei loro privilegi, non leggono nulla. Nulla di approfondito e documentato. E figuriamoci poi se esce dai binari del “politicamente” o “moralmente corretto”! Al limite, si prestano come attori e testimonial di una delle posizioni irreali e falsamente antitetiche che caratterizzano tutto quel che ruota attorno alla “questione immigrazione”.

Da un lato, circonfuso dell’aura del Bene Assoluto, chi si nutre di “pappa del cuore” appuntandosi la coccarda del “più buono del reame”; dall’altro, chi agita monotematicamente argomenti xenofobi scambiando alcuni spiacevoli effetti con le cause.

Vi è infatti chi critica (con argomenti il più delle volte obsoleti e spuntati) “il mercato” ma accetta “senza se e senza ma” l’immigrazione; e dall’altro capo di questo gioco delle parti – che ha fatto abbondantemente il suo tempo – abbiamo chi non trova nulla di sbagliato nel “libero flusso delle merci e dei capitali” (favola per allocchi) ma ne rifiuta un solo aspetto (e per giunta con argomenti-diversivo come quelli “culturali”): la tratta dell’“uomo merce”, che in realtà viene delocalizzato dove il sacro ed intoccabile “mercato” esige.

Tutti, indistintamente, tirano l’acqua al loro mulino, pensando di ricavarne qualche vantaggio. Per questo l’immigrazione fa comodo a tutti.
Ma l’immigrazione è per prima cosa una tragedia, al cui centro vi è l’alienazione dell’immigrato, sottoposto per primo ad una destrutturazione della propria personalità (cap. 1), alla quale farà seguito quella della comunità che lo riceve quando arrivano troppi immigrati.

L’immigrazione è difatti anche una questione di numeri sopportabili. Migrazioni ci sono sempre state, ma quella di tipo moderno generata dal capitalismo predatore e dalla sua way of life che alletta le moltitudini (e che vede partire individui e, al limite, i suoi familiari stretti, ma non popoli e clan interi come nei secoli passati), è diretta conseguenza del modello capitalistico, il quale alimenta a lungo andare un nomadismo globale e una tendenza alla deterritorializzazione di tutto e tutti, compreso l’essere umano. Che in base ai postulati della ‘filosofia’ d’accatto dominante finisce per essere concepito come un contenitore vuoto da riempire a piacimento, e non più anche l’esito della sua storia, dei suoi avi, della sua patria.

«Ecco, è nella dimenticata e bistrattata parola “patria” che si concentra il rimosso più profondo: il legame spirituale e affettivo con la terra dei padri costituisce l’esatta antitesi della rottura dei legami, essenza della migrazione. L’errante, l’affamato, la scheggia impazzita del mondialismo deve mettere la ricerca della felicità monetaria davanti a tutto. Deve trovare del tutto normale, ovvio, fisiologico volare da un capo all’altro dei continenti grazie alle linee aeree a basso costo, rimanendo in contatto elettronico grazie a Skype o Facebook. Deve capire che la libertà di fare le stesse cose a Milano, come a Londra o a New York, è più importante di rendere la madrepatria un posto migliore, per sé e i suoi figli. Deve pensare prima ad alzare il reddito d’acquisto e la capacità di spesa personale, e solo poi all’equilibrio psicofisico e all’identità del suo Io. E accadrà che ci penserà sempre meno, perché non ne avrà il tempo. Dovrà cedere via via ai compromessi con la cultura d’arrivo, perché gli conviene e perché ormai non ha scelta, se non intende tornare “sconfitto”. Dovrà fornire un esempio di integrazione, perché i privilegiati occidentali imparino che emigrare è una possibile, anzi allettante soluzione ai loro tormenti (lavoro che non c’è, mancanza di prospettive, sfiducia nella società e nello Stato). Tutti errabondi, errare disumanum est» (p. 13).

Per i fautori del mondo globalizzato, di Destra e di Sinistra, e a qualsiasi ideologia o religione facciano riferimento per darsi una “identità”, l’individuo è come un pezzo di ricambio di una macchina.

Questa è la cruda verità, e la grande tragedia che sta dietro la “filosofia delle migrazioni”: la disumanizzazione degli esseri umani.
Per questo, un libro che intende sfatare bugie e tabù, non può in alcun modo essere un’accusa contro l’immigrato, bensì contro l’immigrazione.

E sempre per questa elementare ragione, l’Autore di questo studio, che si articola in sei agili capitoli ed è arricchito da quattro interviste, stigmatizza anche la “fuga di cervelli” e di competenze in atto dall’Italia attanagliata dalla “crisi” verso un “altrove” che se all’inizio potrà assumere le sembianze di una “opportunità” alla fine si rivelerà per quel che è: la perdita della propria identità.

Invece, ribadisce con forza Mannino, la fuga è una sconfitta: bisogna restare qua, ‘in trincea’, a dare battaglia: contro questo sistema ingiusto perché non a misura d’uomo. Contro i corrotti e i traditori al governo che lo puntellano; contro i sindacati e le “agenzie umanitarie”, religiose o meno; contro l’imprenditore profittatore e, soprattutto, il finanziere, che speculano sullo sradicamento delle persone e la riduzione delle comunità umane ad enormi ed anonimi “mercati”.

Per “il mercato”, ogni cosa vale l’altra, purché costi di meno e faccia girare soldi. Per questo il sistema capitalistico, agli esordi, non poteva che cominciare con la Tratta dei neri (un vero tabù storico). E sempre per lo stesso motivo, ad oltre duecento anni dalla Rivoluzione Francese, viviamo in un’epoca nella quale il ‘mito’ dell’eguaglianza è ancora estremamente radicato nelle coscienze (cap. 5).

Ma le identità possono permanere solo se si mantengono le differenze, per cui si staglia in tutta la sua ipocrisia e dabbenaggine la posizione di chi elogia le differenze, il “multiculturalismo” e la “società multietnica” ma di pari passo odia le identità quando sono “troppo forti”.
Eppure, proprio il “paradigma differenzialista”, fatto proprio da uno degli intervistati, Alain De Benoist (che il solito sinistrume ignorante, belante e accusatorio bolla senza tanti giri di parole come “fascista”), potrebbe essere una delle vie d’uscita da questo dramma planetario al termine del quale, qualora venisse a compiersi definitivamente, vi sarebbe un’unica melassa di individui-consumatori indistinguibili nel loro appiattimento su un “modello unico” governato dalle leggi del Mercato e del Consumo.

Ovviamente, per giungere a tanto, bisogna che anche il mito della “crescita” infinita non sia mai messo in discussione. Ed è ciò che fa Maurizio Pallante, in una delle interviste che chiosano il volume.
Ma il nocciolo del problema, a mio avviso, se non vogliamo addentrarci in disamine filosofiche e metafisiche che esulano dagli intenti di questo libro, sta in quello che Diego Fusaro esprime al meglio quando, intervistato, connette essenzialmente il fenomeno delle migrazioni di massa contemporanee all’imposizione, in ogni dove, del Capitalismo predatore e sfruttatore, che passa come un rullo compressore sulle specificità dei popoli imponendo i suoi rapporti di forza.

Oltretutto, lo stesso Fusaro rileva che la Sinistra, che statutariamente a parole “difende i lavoratori”, va in totale contraddizione alimentando l’immigrazione di persone disposte a lavorare per meno soldi e minori tutele, danneggiando i “lavoratori” del Paese che accoglie. Con buona pace della “lotta di classe” che dovrebbe essere un suo cavallo di battaglia, perché come la storia ha dimostrato più volte anche la solidarietà tra “sfruttati” presuppone un’omogeneità etnico-culturale assente nelle “classi lavoratrici” arcobalenizzate.

La Destra, invece (e con Destra s’intende l’altra faccia della medaglia, complementare ed essenziale), se da una parte alimenta con le sue ali “estreme” le campagne allarmistiche e xenofobe (che hanno anche le loro “ragioni”, come rileva un altro intervistato, Massimo Fini), dall’altra è ben contenta di far arrivare individui da sfruttare più e meglio degli autoctoni. Anche se, a dire il vero, “i padroni” non sono solo “di Destra”… e, anzi, ne abbondano di radical chic. Ma quel che è certo è che tutti costoro hanno un gran bisogno di “schiavi a buon mercato” (cap. 3).

Purtroppo, dicevamo, questo libro non finirà sul tavolo di qualcuno che prende le decisioni, perché ne gioverebbe senz’altro, potendo capire, per esempio, che il problema principale non è “il clandestino”, vera foglia di fico di chi ha architettato lo “spettacolo dei barconi”. La stragrande maggioranza degli immigrati arriva infatti per altre vie, legali al 100%, ma sono certe scene pietose rovesciate nelle case degli italiani dalla televisione ad occupare completamente sia le cronache sia il dibattito sull’immigrazione. Che così resta ostaggio di un approccio moraleggiante e sideralmente lontano da ogni logica.

A questo si aggiungano i crescenti degrado ed insicurezza, che sono un dato di fatto – e non una “opinione esagerata” – nelle più grandi città italiane e non solo. Ma che fare in assenza di uno Stato degno di questo nome, con una classe politica imbelle ed incapace di praticare una politica estera nel nostro interesse di Paese posto al centro del Mediterraneo?

L’immigrazione fuori controllo e senza una seria pianificazione nell’interesse della comunità accogliente è figlia dell’assenza di una seria e coerente politica estera, così tutti i nostri partner europei non trovano di meglio che rimbalzarci la “patata bollente”, tanto noialtri italiani siamo diventati la burletta di questo simulacro di “Unione”.

Vengono imbastite “operazioni” tanto altisonanti quanto dispendiose ed inefficaci. Si vanno a colpire (quando si fa qualcosa) i “pesci piccoli” mentre i grandi trafficanti di “merce uomo” se la ridono. Non si sa nulla – aggiungo io – degli inconfessabili “accordi” tra i paesi di provenienza e quelli di destinazione…

«Anche volendo pigiare seriamente il tasto repressivo, l’andirivieni di sbarchi non si fermerebbe del tutto. Per un’azione di contrasto efficace, per prima cosa bisogna chiarirne il presupposto: uno Stato ha il pieno diritto e il preciso dovere di decidere se, come e quanti stranieri possano entrarvi. Lo Stato, qualsiasi Stato, non è né un’associazione di carità, né una protuberanza di una vagheggiata “umanità”, giuridicamente e politicamente inesistente. Uno Stato sovrano è sovrano a cominciare dal diritto di decisione sui propri confini; perciò, o riesce a farli rispettare prima che siano violati, intervenendo al di fuori di essi, oppure, se è costretto a farlo al di qua, non è più sovrano: subisce la pressione esterna e vi si adegua. Perdendo, con la sovranità, anche la dignità» (p. 48).

Insomma, «sull’immigrazione ci vuole poco cuore e più cervello». Dichiarazione di qualche esponente leghista? No, parola di Luigi di Maio, vicepresidente della Camera, il quale aggiunge che «è una follia, per le condizioni in cui è ridotto il nostro Paese» (p. 50); aggiungendo, per completare il ragionamento, che “preoccuparsi” per l’emigrazione dall’Africa sub-sahariana e, allo stesso tempo, collaborare alla distruzione dello Stato libico e sfruttare le risorse di quei popoli è quantomeno contraddittorio e controproducente…

E allora avanti così, perché questa situazione è davvero la Cuccagna per molti, troppi mestatori di professione. Come per quelli che ci devono spaventare con “gli immigrati che fanno più figli” e che perciò ci assorbiranno, ci sommergeranno, ci islamizzeranno eccetera. Quando basterebbe interpellare anche il sociologo più sfigato per sapere che la tendenza, una volta entrati nella spirale del “benessere materiale” e fatti propri modelli comportamentali alieni, è quella ad essere meno prolifici…

La verità è che quasi tutti si “occidentalizzano”, punto e basta.

Gli immigrati “ci portano via il lavoro”? In parte sì e in parte no. Per cui falsificano la situazione, mestando nel torbido, coloro che rispondono solo affermativamente o negativamente in maniera perentoria ed apodittica.

«Il quadro è contraddittorio e a macchia di leopardo, ma uno è il dato fondamentale, l’elefante nella stanza di cui non si parla mai: l’avere compresso i salari e le condizioni di lavoro ha reso l’immigrato – che ha poco o nulla da perdere ed è disposto praticamente a tutto – il giocatore vincente di una partita in cui perdono tutti. Eccetto quello che una volta si chiamava “padronato”» (p. 23).

In pratica i flussi migratori aumentano solo quando il lavoro effettivamente c’è. Perché al momento è in corso anche un fenomeno di fuga dall’Italia, dove fra un po’ non ci sarà più nulla da fare nemmeno per gli italiani. Ed è vero che alcuni mestieri gli italiani non li vogliono più fare? In parte sì e in parte no. Si pensi alle “badanti”. Ma qui entriamo in un campo minato, quello della cura dei nostri anziani non più autosufficienti… Ah, il supremo “modello occidentale”, ah “i nostri valori”! Detto brutalmente: chi vuole più pulire il sedere ai genitori ormai vecchi e debilitati?

In altri casi, però, si potrebbe fare qualcosa per incentivare il ritorno degli italiani a determinate mansioni: ad esempio, cominciare a controllare che non si possa essere pagati due o tre euro all’ora, sgobbando per quattordici ore… Impedire per legge le “delocalizzazioni” della produzione di beni e servizi, propinanti però agli italiani a costi ingiustificabili. Tutti, una volta o l’altra, hanno potuto parlare con un operatore del call center che chiama dall’Albania, eppure le bollette continuano ad esser care…
E non sarebbe il caso di privilegiare chi in Italia c’è nato ed ha compiuto i suoi studi? Che senso ha, se non umiliare e scoraggiare le persone, attivare corsi di laurea e/o professionali e, contemporaneamente, far arrivare stranieri per metterli in “competizione” con gli autoctoni?

Ma dov’è la politica, che dovrebbe svolgere anche questo compito? Inesistente, del tutto appiattita sulla poundiana definizione di “camerieri dei banchieri” o, se preferite Marx, sui “comitati d’affari della borghesia”.

Senonché, oggigiorno non esiste nemmeno più la borghesia, coi suoi difetti e il suo egoismo sociale, ma anche coi suoi pregi e il suo senso del decoro, come avrebbe detto Costanzo Preve. Sia l’immigrato che l’autoctono si amalgamano così idealmente, sperando di far parte, a discapito di chi “non ce la fa”, di una global middle class che si trova ovunque a suo agio, da New York a Berlino, da Parigi a Dubai, perché tanto l’importante è che il sistema capitalistico-finanziario deterritorializzato, i suoi “valori” ed i suoi status symbol trionfino dappertutto, sommergendo “il passato”, da cui fondamentalmente anche l’immigrato meno fortunato vorrebbe affrancarsi per non doversi dire che “ha perso” in questa specie di roulette che è il “mondo globalizzato”.

È «la fine delle appartenenze di popolo, per fare posto all’individuo culturalmente apolide, magmatico, puntiforme, che si pretende avulso dalle proprie origini e nel diritto-dovere di rigettarle, reinventandosi un’immagine di sé cotta a puntino dalla fabbrica dell’Io narcisistico così caro e conveniente all’industria del consumo» (p. 55).

Ma può anche accadere il contrario: ossia l’abbarbicamento ad una “tradizione”, il più delle volte mal compresa perché ricostruita a posteriori, con i suoi elementi essenziali e vivificanti oramai persi per sempre. È il caso, di stringente attualità, delle “comunità islamiche” presenti nei paesi occidentali, che producono anche – in quantità fortunatamente minoritarie – i cosiddetti “jihadisti” e gli “odiatori dell’Occidente” cui contrappongono un’idealizzata quanto posticcia “purezza delle origini”, come se “il passato” potesse essere ricostruito attraverso i sermoni di qualche telepredicatore religioso. Ad ‘onore’ di costoro – rileva Massimo Fini col suo gusto per il paradosso – va comunque il fatto che cercano, combattendo in Iraq o in Siria, una esperienza forte, “liminale” e da “uomini veri”, che la mollezza e l’appiattimento del comfort moderno stanno per sradicare definitivamente dall’animo delle persone riducendole al livello di mansueti agnellini da “villaggio globale”.
Un “mondo globalizzato” dove la preoccupazione principale, specie per noi italiani che non abbiamo un preciso modello da proporre all’immigrato, sembra essere la “integrazione”, che sta diventando una vera e propria fisima da talk show.

Qualcuno dovrebbe finalmente spiegare com’è possibile “integrarsi” e, al tempo stesso, vivere in una società – quella italiana – che da un giorno all’altro sta svendendo, oltre a pezzi della sua economia, elementi essenziali della sua “identità”, a favore di un appiattimento acritico sugli stili di vita importati da Oltreoceano.

In che cosa si dovrebbe “integrare” un immigrato? Una domanda alla quale nessuno saprà mai dare una risposta sensata, perché semplicemente non c’è.

L’unica “integrazione” – che poi è puro e semplice “senso civico” – è il rispetto delle leggi vigenti (giuste o sbagliate che siano), come osserva Massimo Fini. Ma vaglielo a dire ai summenzionati mestatori di professione… Perché dovrebbero riconoscere che la maggior parte degli immigrati rispetta le leggi italiane, o quanto meno non le infrange in maniera più rilevante rispetto agli italiani stessi.
Per girare intorno al dramma umano posto dall’immigrazione, s’inventano “carte dei valori” dove è richiesto un surplus di “fedeltà” che contiene elementi sinceramente preoccupanti e degradanti: dissociarsi da una posizione “filo-palestinese” oppure, come in Olanda, sorbirsi anche qualche scena osé nell’esame di “olandesità” congegnato per chi vuole acquisire l’agognata nazionalità.
E stendiamo un velo pietoso sulla querelle riguardante lo ius soli e la concessione del voto amministrativo (vero mostro giuridico) per accaparrarsi qualche simpatia a breve termine. Il tutto somiglia a quegli escamotage – come il “registro delle unioni civili” – per introdurre artatamente altri tipi di “famiglia”. E poi sarebbero gli immigrati a non rispettare le leggi!

Non ci siamo proprio. O si entra nell’ordine d’idee che il “male originario” (cap. 2) è la globalizzazione, l’occidentalizzazione del mondo che provoca sradicamento in ogni dove, o ci dovremo rassegnare a convivere con questo squallido e degradante teatrino, dove s’inscena una storia che non prevede alcun lieto fine, perché tutti – mentre se ne escono con la loro “soluzione” o perdono tempo in una “guerra tra poveri” – finiranno nella pancia dell’unico mostro che li aspetta al varco.


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