La seguente analisi si articola in tre differenti sezioni e cerca di valutare il conflitto attraverso aspetti inerenti il diritto internazionale, la dottrina militare ed il dato economico. Nello specifico, pur riconoscendo che, come affermava Karl Haushofer, la geopolitica non è una scienza esatta, si cercherà di dimostrare che l’azione russa, lungi dall’essere “fallimentare” o scarsamente pianificata (come viene presentata in un Occidente sempre più distante dalla realtà), è il prodotto di un calcolo freddo e razionale di costi e benefici.

 

In punta di diritto

È assai difficile poter valutare secondo i criteri di un diritto internazionale sostanzialmente americanocentrico quella che si presenta come l’aggressione militare di una potenza non occidentale. Tuttavia, è bene ricordare che la Russia, in passato (intervento in Siria e annessione della Crimea in virtù del concetto di Responsibility to Protect), ha spesso cercato di presentarsi come Stato che agisce proprio in conformità con tale diritto.

In primo luogo, l’attuale diritto internazionale può essere considerato come una sorta di jus contra bellum da opporsi al concetto di justa causa belli. Questo approccio teorico antimilitarista, naturalmente, viene calpestato senza particolari scossoni tra l’opinione pubblica ogniqualvolta a muovere guerra sia la potenza egemone sul piano globale (gli Stati Uniti) o l’avamposto occidentale nel Levante (Israele). A questo proposito, non si può prescindere dal ricordare che esistono alcune eccezioni per ciò che concerne la violazione dell’integrità territoriale di uno Stato (teoricamente) sovrano. Questa è ammessa o in caso di autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU o in caso di necessaria autodifesa collettiva. Questa autodifesa (il caso russo) deve rispondere a due criteri: a) necessità; b) proporzionalità.

È evidente che l’intervento russo è l’inevitabile prodotto del muro contro muro dell’Occidente rispetto al più che legittimo diritto alla sicurezza della seconda potenza militare al mondo. Mosca non può tollerare una ulteriore espansione della NATO verso est, con la conseguente installazione di sistemi missilistici in Ucraina in grado di colpire il territorio russo in pochi minuti (la nuclearizzazione dello spazio geografico russo è il sogno nel cassetto dei vertici militari statunitensi sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale); Mosca non può tollerare l’installazione di laboratori biologici militari nordamericani ai propri confini[1]. È altrettanto evidente che l’intervento militare russo (non più di 70.000 unità) può (almeno in linea teorica) rispondere al criterio di proporzionalità.

Fin qui si rimane nel campo assai complesso dell’“attacco preventivo” utilizzato a più riprese dalle controparti occidentali (Israele nel 1967, gli Stati Uniti nel 2003 in Iraq sulla base di prove false). Fonti dei servizi moscoviti riferiscono anche di un’eventuale operazione ucraina su vasta scala nel Donbass (attraverso l’utilizzo di miliziani addestrati in Polonia dalla NATO) che sarebbe stata prevenuta dall’azione russa. Al di là di questo, esistono altri due casi di intervento “legittimo”: a) violazione del principio di dovuta diligenza; b) usurpazione.

Il primo si applica in risposta ad attacchi subiti da parte di gruppi terroristici e bande armate (dunque, da parte di attori non statali) nel caso in cui lo Stato sul quale ricade la giurisdizione su questi soggetti fallisca nel prendere le misure dovute (l’Ucraina di fronte ai gruppi paramilitari, secondo l’interpretazione russa). Il secondo si applica nel momento in cui uno Stato (l’Ucraina) esercita le funzioni governative sul territorio di un altro Stato (le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk riconosciute come indipendenti da Mosca nell’istante prima del conflitto). A ciò si può aggiungere, e questo sembra essere indubbiamente l’argomento più forte a favore di Mosca, il mancato rispetto degli Accordi di Minsk e le reiterate (quanto brutali) azioni militari ucraine per riportare all’ordine le regioni orientali del Paese, le quali non a caso risultano essere anche le più industrializzate e ricche di risorse.

Alla luce di quanto scritto finora, appare evidente che un’eventuale giustificazione dell’intervento militare russo sul piano del diritto internazionale risulta quanto meno piuttosto debole. Di fatto, esso si pone maggiormente come il tentativo di superare il positivismo normativo (e la sostanziale ipocrisia) del diritto internazionale americanocentrico in nome di una idea di nomos della terra legata ad una concezione storico-spirituale di possesso e appartenenza allo spazio geografico.

Infine, oltre al fatto che lo stesso diritto internazionale viene spesso interpretato (soprattutto dalle grandi potenze) a proprio piacimento, non si può dimenticare il suggerimento che Iosif Stalin diede a Chiang Ching-kuo, delegato della Repubblica di Cina in URSS al termine della Seconda Guerra Mondiale: “tutti i trattati sono carta straccia, ciò che conta è la forza[2].

Aspetti militari

L’ex militare ed analista della Foundation for Defense of Democracies Bill Roggio ha sostenuto la tesi secondo la quale la propaganda occidentale ha condotto alla totale incomprensione della strategia militare russa in Ucraina[3]. Roggio, in particolare, sottolinea come l’Occidente si sia concentrato erroneamente sulla tesi che la mancata presa di Kiev nei primi giorni del conflitto avrebbe inevitabilmente significato l’insuccesso dell’azione russa.

Sicuramente, Mosca pensava che l’ingresso delle proprie truppe in territorio ucraino avrebbe potuto generare un collasso immediato del governo di Kiev. Tuttavia, ciò non significa che non fosse stata pianificata una strategia in grado di prescindere da tale avvenimento. L’analisi delle forze sul terreno, in questo caso, parla abbastanza chiaro.

Ormai da giorni si parla di una colonna di carri russi di oltre 60 km che stanzia immobile alle porte di Kiev. Perché non è sotto attacco da parte dell’esercito ucraino? Perché non entra a Kiev?

Alla prima domanda l’ex generale Fabio Mini ha risposto che la suddetta colonna non è sotto attacco per il semplice fatto che Mosca controlla spazio terrestre ed aereo[4]. Questo è il motivo per cui Kiev continua a richiedere una No Fly Zone che non arriverà mai (sempre che il fanatismo delle frange più estremiste dell’atlantismo non scelga di optare per la guerra mondiale). L’ingresso a Kiev, con il rischio di finire stritolati in una guerriglia urbana tra fazioni ucraine già in lotta tra loro (l’omicidio di un negoziatore più incline al compromesso ne è la dimostrazione più evidente), non è necessario, visto che il ricongiungimento tra le forze russe che arrivano da nord e quelle che arrivano da sud taglierebbe in due l’Ucraina rendendo impossibile anche il rifornimento delle truppe e delle milizie che operano sul fronte più caldo, quello orientale. Evitare l’ingresso nei centri urbani e controllare le infrastrutture energetiche rimane l’obiettivo primario dell’operazione militare russa. Si è parlato a più riprese dell’attacco alla centrale di Zaporizhzhia. Bene, nessun analista sembra aver notato che poco sopra la centrale si trova il canale che nel 2014 (dopo l’annessione della Crimea) venne chiuso al preciso scopo di strangolare la penisola del Mar Nero sotto il profilo idrico. Il controllo di questa infrastruttura è fondamentale per ristabilire l’approvvigionamento idrico della regione.

A questo punto, alla luce del successo propagandistico dell’ex attore Volodymyr Zelens’kyi, i cui profili sulle piattaforme sociali sono un trionfo di notizie false e di dichiarazioni di sostegno da parte del gotha dell’atlantismo (Von der Leyen, Biden, Draghi), del sionismo e delle multinazionali ad essi collegate, si può porre un’altra domanda: perché Mosca attacca i ripetitori televisivi ma non chiude internet?

Qui il discorso si complica non poco. Come ha fatto notare l’ex generale dell’aeronautica cinese Qiao Liang, la guerra nel XXI secolo è in primo luogo una guerra informatica inscindibile dai suoi apparati tecnologici. Gli eserciti (quello russo non è differente) dipendono dalla tecnologia informatica. Questo fattore, secondo Qiao, può essere sia un vantaggio che uno svantaggio. La tecnologia informatica, infatti, è basata sui chip e la possibilità di evitare la dipendenza da questi strumenti è ormai inesistente. Ciò rende sempre più problematica la protezione dei dati e l’impossibilità di superare la potenziale debolezza derivata dall’alto livello di informatizzazione rappresenta un rischio continuo per la sostenibilità delle capacità e delle azioni militari. Questo è il motivo per cui lo scontro fra le potenze nel XXI secolo (ed il conflitto in Ucraina, con la sua commistione tra azione bellica tradizionale e attacchi informatici, ne è il principale indicatore e anticipatore) si svolgerà in primo luogo nel cosiddetto cyberspazio.

In conclusione, l’azione di Mosca (studiata per tempi non troppo lunghi ma neanche eccessivamente brevi) è ancora rivolta ad imporre le proprie condizioni sul tavolo negoziale: neutralizzazione dell’Ucraina e riconoscimento dell’annessione della Crimea e dell’indipendenza delle Repubbliche orientali. Non bisogna dimenticare che la Wehrmacht impiegò oltre un milione di uomini e cinque settimane per piegare la Polonia nel 1939. In quell’occasione, tanto i Tedeschi quanto i Polacchi si curarono ben poco della popolazione civile. Oggi, la Russia ha scelto di limitare al minimo gli attacchi sui centri abitati e di stabilire (in accordo con la controparte di Kiev) corridoi umanitari che, per ora, non sembrano funzionare al meglio a causa dell’ostruzionismo dei gruppi paramilitari ucraini (il tristemente noto Battaglione Azov su tutti).

Se Mosca ha una precisa strategia di lungo periodo, è altrettanto vero che ne ha una pure l’Occidente. Non è da escludere infatti che questo si sia già preparato alla possibilità di un governo ucraino in esilio. L’invio di armi e le agevolazioni al viaggio verso il Paese dell’Europa orientale di mercenari e terroristi internazionali può essere interpretato con la precisa volontà di proseguire nella destabilizzazione della regione nel momento in cui Mosca dovesse raggiungere i suoi obiettivi.

Il dato economico

Ha suscitato scalpore il fatto che il Primo Ministro israeliano Naftali Bennett si sia recato a Mosca nel corso dello Shabbat in cerca di una mediazione per la crisi. A prescindere dal fattore geopolitico (mostrare amicizia nei confronti della Russia potrebbe tornare utile in Siria contro la presenza iraniana), non bisogna tralasciare i profondi interessi economici e di stabilità interna che l’entità sionista riveste nel conflitto. Infatti un’ampia fetta della popolazione di Israele, che tra l’altro è uno dei principali importatori di grano ucraino, è originaria delle Repubbliche che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica. Per questo motivo, un eventuale prolungarsi dello scontro non andrebbe per nulla a giovare sull’equilibrio tra le diverse comunità ex sovietiche all’interno dell’entità sionista e su un’economia che, nonostante i falsi miti propagandistici, vive già in larga parte grazie ad aiuti esteri.

Quando si parla del dato economico, naturalmente, non si può prescindere dal tema delle sanzioni. Visto che si è parlato di “azioni senza precedenti” da parte dell’Unione Europea, sarà bene analizzare quali effetti reali tali azioni potranno avere. A questo proposito si può partire dal fatto che la Russia possiede un tesoretto di 630 miliardi di dollari spendibile per sostenere il peso delle suddette “azioni senza precedenti”. Bisogna ricordare inoltre che la Russia, negli ultimi anni, forse già in preparazione dell’evento bellico e della risposta occidentale, ha provveduto a ridurre il rapporto debito/PIL (il debito pubblico russo è al 12,5% del PIL, quello americano è al 132,8%); ha ridotto il debito estero; ha accumulato grandi quantità d’oro (2.300 tonnellate), il bene rifugio che aumenta di valore in concomitanza con le crisi geopolitiche; e si è scientemente liberata dei titoli di debito USA. A ciò si aggiunga l’enorme disponibilità di materie prime e lo stretto rapporto con i due Paesi manifatturieri più grandi al mondo (Cina e India, poco intenzionate a seguire la vulgata sanzionatoria). All’abbondanza di materie prime si può aggiungere la produzione avanzata di alluminio, titanio (il gruppo russo Vsmpo-Avisma copre in larga parte il fabbisogno di titanio di Boeing e Airbus) e palladio (il 50% della produzione su scala globale). Senza considerare la produzione di cereali, il cui blocco alle esportazioni sta già mettendo ampiamente in crisi il settore produttivo della pasta in Italia (argomento per un eventuale approfondimento sulla geopolitica del cibo). Ciò significa che eventuali controsanzioni russe avrebbero effetti potenzialmente devastanti sull’economia europea, già in ginocchio dopo due anni di disastrosa gestione della crisi pandemica. Il tutto per la gioia di Washington, che nel porre le basi per questo conflitto aveva visto la grandiosa opportunità di liberarsi del principale concorrente all’egemonia del dollaro: l’euro. Ragione per cui, ancora oggi, invita i vassalli europei a fornire aerei da combattimento a Kiev. L’obiettivo, infatti, è quello di allargare il conflitto all’intero continente.


NOTE

[1]Si veda The pentagon bio-weapons, www.dylana.bg.

[2]Liu Xiaofeng, New China and the end of the International American Law, www.americanaffairsjournal.org.

[3]Putin is not crazy and the Russian invasion is not failing. The West’s delusion about this war, www.fdd.org.

[4]Ucraina, l’ex generale Fabio Mini: “Guardate il cielo, non la lunga colonna di carri. Se sarà attacco a Kiev arriverà da lì”, www.ilfattoquotidiano.it.

*Immagine ricavata da https://readovka.news/


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).