Franco Morini D’Annunzio, la massoneria e le barricate di Parma, Prefazione di Franco Cardini, Postfazione di Matteo Pio Impagnatiello Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2023 pp. 128, € 18,00

Lo schema di un progetto rivoluzionario che avrebbe comportato la marcia su Roma di legionari fiumani e squadristi fascisti venne elaborato da Gabriele D’Annunzio a Fiume e fu da lui sottoposto nell’autunno del 1920 all’attenzione di Benito Mussolini, il quale rispose sostenendo la necessità di ottenere la neutralità di socialisti e popolari. Essendosi deteriorato il rapporto fra il Duce e il Comandante, nell’estate del 1922 quest’ultimo prese in considerazione una variante del progetto originario: il 20 settembre, davanti all’altare della Patria, un’oceanica assemblea di reduci e mutilati di guerra avrebbe conferito la dittatura al Poeta Soldato, il quale avrebbe poi proposto a Mussolini e ad altri politici di entrare a far parte del suo direttorio. Tale iniziativa godeva del sostegno di Alceste De Ambris, che a Parma dirigeva la Camera del Lavoro sindacalrivoluzionaria, di orientamento corridoniano, in alternativa ai sindacati socialisti; essa però dovette essere rinviata al 4 novembre, poiché il 13 agosto D’Annunzio si ferì seriamente cadendo da una finestra della sua villa.

“Prima che io precipitassi dalla Rupe Tarpea”, si legge nel Messaggio del convalescente agli uomini di pena del 21 settembre 1922 (inserito nel Libro ascetico della Giovane Italia), “da Parma, dal Borgo delle Carra, dalla trincea civica, (…) voci crude si levarono a chiamarmi”.

Con la sua “aulica ma inequivocabile prosa – scrive Franco Morini – D’Annunzio esordiva paragonando l’invito dei trinceristi ad unirsi a loro nelle trincee e barricate dell’Oltretorrente con quello precedente di Ronchi, al quale pur febbricitante aveva aderito, ponendosi in testa alla marcia verso Fiume” (p. 49).

Meno aulico ma più articolato è il raffronto tra Parma e Fiume stabilito da Mussolini, che in una conversazione con Yvon De Begnac (Taccuini mussoliniani, Il Mulino 1990, pp. 99-101) rende tra l’altro un generoso omaggio agli uomini dell’Oltretorrente. “Contro Parma – dice Mussolini – nulla avevano potuto le sperimentate milizie di Balbo in questo stesso 1922. Siamo d’accordo, l’orologiaio mutilato di guerra e decorato al valore Guido Picelli non era D’Annunzio. Ma se D’Annunzio avesse avuto ai propri ordini, a Fiume, anche le formazioni rivoluzionarie di Picelli, Giolitti non avrebbe vinto la guerra contro il poeta. Alceste De Ambris, vecchio capo della città sindacalista, non se lo era mai nascosto, mai lo aveva nascosto al Comandante”.

Difatti proverranno proprio dalle file dei barricadieri oltretorrentini alcuni esponenti del “fascismo di sinistra” parmigiano, per i quali il Comune di Parma ha decretato la damnatio memoriae escludendone i nomi dall’elenco che si può leggere sulle lastre di pietra del cosiddetto “Monumento alle Barricate”. Caso esemplare è quello di Brenno Monardi, che nell’agosto 1922 militava nella Legione “Filippo Corridoni” capeggiata da Vittorio Picelli, fratello di Guido. Milite della Brigata Nera “Gavazzoli” nel periodo della Repubblica Sociale, Monardi, colpito alle spalle da elementi partigiani il 31 agosto 1944, sarà il primo caduto della sua brigata.

Tornando alla conversazione con De Begnac, Mussolini prosegue dicendo: “Il Comandante era amareggiato per il confronto rivoluzionario tra Fiume e Parma. Parma aveva ricevuto l’aiuto pieno del governo nel corso dell’assalto datole da Italo Balbo. Fiume aveva avuto contro di sé – totalmente – le forze dello Stato. Il Comandante non voleva naturalmente che Parma venisse posta a ferro e fuoco da Balbo, ma capiva che il ripetersi della difesa delle istituzioni sovversive in altre città, così come era avvenuto a Parma, avrebbe ricondotto il Paese all’eversione che lo aveva devastato tra il 1919 e il 1921. Se l’esempio di Parma fosse stato seguito altrove, e altrove avesse conseguito successo, sarebbe stato rimesso in discussione il diritto dei reduci a farsi responsabili della vita italiana ricondotta all’ordine in ogni settore della pubblica attività. Il Comandante era troppo fine politico per non valutare i pericoli che il rivoluzionarismo tipo Parma avrebbe introdotto in una situazione nazionale la cui incertezza poteva essere annullata soltanto dalla rivoluzione che stavamo conducendo a maturazione. Di qui, il sostanziale favore che il Comandante non poteva non riservarci”. Lo stesso De Ambris, “che non condivideva le nostre idee politiche e aveva rotto il fraterno legame che lo aveva alleato nel 1914 e nel 1915 alla nostra lotta per l’intervento – aveva in quell’estate 1922 detto al Comandante che porsi contro di noi, o, meglio, permettere a talune frange del legionarismo di osteggiarci sarebbe stato esiziale per gli interessi del Paese”.

Per quanto riguarda il ruolo della massoneria, che nella complessa situazione parmigiana dell’agosto 1922 era ben presente da una parte e dall’altra delle barricate, esso era già stato oggetto dell’attenzione di Franco Morini in Squadrismo tra squadra e compasso. Dalle barricate di Parma alla Marcia su Roma (La Sfinge, Parma 1991). Secondo Morini, Italo Balbo, “che fu oratore della Loggia Gerolamo Savonarola di Ferrara” (G. Ciano, Diario 1939-43, Rizzoli 1946, I, p. 63), sarebbe intervenuto coi suoi squadristi in seguito al “disperato appello” del “fratello” Michele Terzaghi, allarmatissimo per le azioni antimassoniche dello squadrismo parmense. Il “pericolo bolscevico”, in realtà, sarebbe stato poco più di un pretesto, anche perché i comunisti “a quel tempo a Parma erano pressoché inesistenti, non assommando a più di venti gli iscritti tra città e provincia” (p. 100).

Pubblicato a ridosso delle celebrazioni ufficiali del centenario delle Barricate di Parma, questo nuovo libro di Morini è un vero e proprio studio revisionista, in quanto sottopone ad un’impietosa chirurgica revisione la vulgata che sull’argomento è stata imposta da una storiografia addomesticata, condizionata dal conformismo ideologico e da interessi mercenari.


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