Era il 6 marzo 2009. A Ginevra, con un incontro tra il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e del suo allora analogo statunitense Hillary Clinton suggellato dalla pressione di un pulsante con scritto “reset” in inglese e in russo[i], la neonata Amministrazione Obama lanciò il reset, finalizzato a ristabilire le relazioni con la Russia dopo la Guerra in Georgia del 2008. Fine ultimo di questa politica, secondo gli auspici di Obama, era la costruzione di un partenariato strategico con Mosca finalizzato, tra le altre cose, ad avere un Cremlino alleato nella lotta contro il terrorismo e almeno neutrale nei teatri d’interesse degli Stati Uniti (Cina ed Iran in primis). Il tentativo, per i primi anni, sembrò funzionare: nel 2009 Medvedev concesse gli spazi aerei ai voli militari USA diretti in Afghanistan, nell’aprile 2010 USA e Russia sottoscrissero gli Accordi START 2 per la riduzione degli ordigni nucleari, e un mese dopo i due Paesi si accordarono sulle sanzioni all’Iran. L’allora Presidente russo Medvedev ebbe un ruolo non secondario nell’iniziale successo di questa politica. Fortemente occidentalizzato nello stile e in parte nei valori, malgrado i suoi legami con Putin, Medvedev rappresentava agli occhi di Obama una Russia in evoluzione, che si stava lasciando indietro gli anni dello Zar per trasformarsi in un Paese democratico a pieno titolo.

La storia, però, è andata diversamente, e quella nata come l’amministrazione del reset verrà ricordata come l’amministrazione che ha trascinato l’Occidente nella “Nuova Guerra Fredda”. Un collasso giunto a maturazione nella prima metà del 2014, quando la crisi ucraina ha segnato la fine del reset e l’inizio di una fase di tensioni, sanzioni reciproche e guerre per procura che di fatto dura tutt’oggi, ma le cui origini sono da rintracciare in una serie di eventi accaduti tra il febbraio del 2011 e il novembre del 2013 (le Primavere Arabe, le guerre in Libia, il lancio dell’Unione Eurasiatica, le proteste in Russia, il caso Snowden, lo schiaffo russo sulle armi chimiche siriane) e nel permanere di una forte divergenza di obiettivi strategici. L’uscita di scena di Medvedev, sostituito da Putin nel marzo del 2012, ha avuto nel complesso un ruolo secondario, ma le ripercussioni sui rapporti personali non sono da sottovalutare. Se Medvedev ha vissuto un ottimo rapporto con Obama, al punto da diventare uno dei due politici da lui seguiti su Twitter (l’altro è stato il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg)[ii], Putin era cordialmente detestato da Obama, ricambiato.

L’ascesa di Biden, anche per questo, non è stata una buona notizia per la Russia. Se l’amministrazione Obama è stata la protagonista della “nuova Guerra Fredda”, Joe Biden ne è stato in qualche modo l’eminenza grigia, col suo attivismo diplomatico e un ruolo spesso dietro le quinte ma non per questo irrilevante. Già ai tempi del reset, dopo una visita a Kiev, Joe Biden aveva affermato che “abbiamo sottovalutato la nostra mano nei confronti di Mosca”, prevedendo che, in virtù del suo calo demografico e dei suoi problemi economici, il Cremlino sarebbe stato costretto a fare concessioni all’Occidente su una vasta serie di questioni legate alla sicurezza[iii]. Parole che, tra le altre cose, sono state interpretate come un non riconoscimento di una qualsiasi sfera di influenza russa nello spazio ex-sovietico. Durante la crisi ucraina, poi, Biden è stato uno dei principali sostenitori prima delle proteste filoccidentali e poi del nuovo governo ucraino, e nell’aprile 2014 è stato proprio lui a dare il benestare all’azione militare di Kiev contro i separatisti del Donbass: la sua visita in Ucraina, infatti, precedette di un giorno il lancio di quella che la Bankova chiamò “operazione antiterrorismo”. La vittoria elettorale di Trump, troppo spesso addebitata a Mosca, non è stata certo di aiuto, e il ritorno in auge di personalità fortemente antirusse quali Victoria Nuland e Jen Psaki ha subito lasciato presagire una resa dei conti tra il Cremlino e un partito che, a torto o a ragione, si sente ancora privato per mano di Mosca di una vittoria elettorale che a suo avviso gli spettava.

Eppure, nonostante un periodo alquanto teso, tra le accuse – ricambiate – di Biden a Putin di essere “un assassino” e le forti tensioni ai confini tra Ucraina e Russia, i contrasti tra Russia e Stati Uniti sembrano essere entrati in una fase di relativa stabilizzazione. Già il mese scorso, mentre Biden proponeva un incontro a Putin, l’amministrazione USA aboliva le sanzioni al Nord Stream 2, la seconda condotta del gasdotto che collega la Russia con la Germania attraverso il Mar Baltico[iv]. E, durante il loro recente incontro a Ginevra, i due Presidenti si sono accordati per il ripristino dei rispettivi ambasciatori, ritirati a seguito della schermaglia retorica del marzo scorso, suggellando con un comunicato congiunto fuori programma l’impegno a mantenere in vita lo START 2 e a mantenere in vita un dialogo bilaterale strategico[v]. Le questioni geopolitiche calde, dall’Ucraina al Mediterraneo, sono state affrontate, ma hanno avuto un peso relativo; lo stesso discorso vale per i diritti umani, in particolare il caso Naval’nyj. Infatti nella conferenza stampa a seguito dell’incontro nessuno dei due ha usato parole di fuoco contro l’altro: Biden ha parlato di “due grandi potenze”, elevando così la Russia rispetto al rango di “potenza regionale” a cui l’aveva confinata Obama, e Putin ha definito la sua controparte statunitense “uno statista esperto”.

Cosa è cambiato negli ultimi anni? Nel 2014, malgrado i numerosi segnali in senso contrario, erano in molti a credere ancora nelle illusioni del mondo unipolare e della “fine della storia”, mentre in pochi – almeno a Washington – prendevano in seria considerazione la possibilità che una Russia estraniata dall’Occidente avrebbe cercato una spalla amica nella Cina. Le dichiarazioni di Obama secondo cui “(in Crimea) la Russia sta dalla parte sbagliata della storia”, che Biden di sicuro condivideva, sono indicative di questo atteggiamento. Tuttavia, malgrado le sanzioni, la Russia non è collassata, e in questi anni ha anzi conseguito una serie di successi militari, geopolitici e persino scientifici che hanno costretto gli analisti occidentali a rivedere le loro posizioni. A tutto ciò si aggiungono i crescenti rapporti con la Cina, con cui la Russia ha firmato nel 2014 un accordo per le forniture di gas e nel 2019 un accordo di libero scambio. La Cina, che già negli anni precedenti la pandemia ha superato gli Stati Uniti come prima potenza economica mondiale[vi] e ha lanciato un mastodontico programma di realizzazione di infrastrutture che prende il nome di Belt and Road Initiative, a seguito dello scoppio della pandemia ha conosciuto un’ulteriore accelerazione della sua ascesa geopolitica, come dimostra l’acquisto di aziende e infrastrutture strategiche realizzato negli ultimi mesi dal fu Celeste Impero.

È una situazione che preoccupa non poco gli Stati Uniti, i quali non possono permettersi di contenere allo stesso tempo la Russia e la Cina, se non al prezzo di unirle in funzione antioccidentale. Se Obama manteneva un forte interesse per l’Europa orientale – dove la sua politica estera seguiva in larga parte il playbook di Brzezinski – e il Medio Oriente, Trump ha percepito in maniera molto più netta la minaccia costituita dalla Cina, cercando una riconciliazione con Putin anche in funzione anticinese. Biden, che in passato aveva ripetutamente criticato la politica di Trump sulla Cina, ne sta diventando invece il prosecutore, sia pure in un’ottica di multilateralismo e non di bilateralismo e con un ritorno alla retorica sui diritti umani in larga parte assente negli anni di Trump. E malgrado i primi mesi del suo mandato siano stati all’insegna di forti tensioni, non solo retoriche, tra Putin e Biden, nelle ultime settimane le reali intenzioni del Presidente USA stanno emergendo; tuttavia, per fortuna, sembrano non includere una resa dei conti con l’odiato nemico russo.

Sarebbe tuttavia errato definire questo incontro come la base di un nuovo reset. Un vero reset richiederebbe una stabilizzazione definitiva della Siria e soprattutto dell’Ucraina, vero movente delle sanzioni e delle controsanzioni che oggi limitano fortemente le opportunità di interscambio tra Russia e Occidente, magari in cambio di un allontanamento della Russia dalla Cina. Ed è alquanto improbabile che ciò accada non solo nei prossimi mesi, ma anche nei prossimi anni. Ciò che interessa a Biden, piuttosto, è congelare il fronte russo, al fine di concentrarsi sul fronte pacifico ed evitare di essere distratto da problemi in Ucraina o in altri teatri di interesse russo. Putin, d’altro canto, punta a mantenere la Bielorussia sotto la sua sfera di influenza, evitando che la stessa si trasformi in una seconda Ucraina, e ad evitare che quest’ultima o la Georgia entrino nella NATO. Sotto questo aspetto ha un peso essenziale la smentita da parte di Biden, alla vigilia del Vertice di Ginevra, delle affermazioni del Presidente ucraino Zelenskij, che in un tweet aveva parlato di un consenso tra i Paesi NATO sull’adesione di Kiev all’alleanza[vii]. Una smentita che non va confusa con uno stop ad un ulteriore allargamento dell’Alleanza Atlantica ad est, ma che comunque costituisce il segno di una volontà di congelare il fronte orientale, e che di fatto rende possibile prevedere che, nei prossimi mesi, la situazione sullo stesso rimarrà relativamente stabile.


NOTE

[i] L’incontro è passato alla storia anche per un errore di traduzione: la parola usata per tradurre “reset” in russo, infatti, non è stata “perezagruzka” ma “peregruzka”, che significa “sovraccarico”. Un errore veniale, ma indicativo dall’atteggiamento tutt’altro che collaborativo dello Stato profondo statunitense (il pulsante è stato donato a Lavrov dalla Clinton).

[ii] https://www.themoscowtimes.com/2012/07/26/medvedev-makes-it-big-on-twitter-a16571

[iii] https://www.wsj.com/articles/SB124848246032580581

[iv] https://www.youtube.com/watch?v=-wSQjPJS2H4

[v] https://www.whitehouse.gov/briefing-room/statements-releases/2021/06/16/u-s-russia-presidential-joint-statement-on-strategic-stability/

[vi] A parità di potere di acquisto.

[vii] https://nypost.com/2021/06/14/biden-denies-ukraine-prezs-claim-that-nato-confirmed-ukraine-can-join/


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Giuseppe Cappelluti, nato a Monopoli (Bari) nel 1989, vive e lavora in Turchia. Laureato magistrale in Lingue Moderne per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Bergamo, ha conseguito la laurea triennale in Scienze della Mediazione Interculturale presso l’Università degli Studi di Bari. Dopo aver trascorso periodi di studio presso l’Università di Tartu (Estonia) e a Petrozavodsk (Russia), nel 2016 ha conseguito un Master in Relazioni Internazionali d’Impresa Italia-Russia presso l’Università di Bologna. Dal 2013 ha pubblicato numerosi articoli su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e nel relativo sito informatico. Suoi contributi sono apparsi anche su “Fond Gorčakova” (Russia), “Planet360.info” (Italia), “Geopolityka” (Polonia) e “IRIB” (oggi “Parstoday”, Iran).