L’Accordo di Associazione e Stabilizzazione (ASA) rappresenta per i Paesi non membri dell’Unione Europea il primo passo per riuscire a farne parte. Nella regione dei “Balcani occidentali”, la ratifica del cosiddetto «accordo interinale» dell’ASA ha rappresentato per Slovenia e Croazia l’ufficiale ingresso nella stessa Comunità europea in qualità di Paesi membri, mentre per Serbia, Montenegro e Macedonia ha promosso un’ accelerazione dei negoziati finali per la conclusione dello stesso processo di adesione.

Tra le ex Repubbliche jugoslave è la Bosnia-Erzegovina il Paese che ha manifestato le maggiori difficoltà nell’attuazione dell’ASA, nonostante quest’ultimo sia stato ratificato già sei anni addietro nel 2008. Se le cause principali riguardano importanti inadempienze soprattutto in ambito giuridico, è il sempre maggiore potere decisionale dei tre popoli costitutivi presenti nel Paese, ossia la comunità croata, serba e bosgnacca, che ha rallentato l’avvicinamento di Sarajevo a Bruxelles.

Nonostante la maggiore inadempienza contestata alla Bosnia-Erzegovina dalle istituzioni comunitarie riguardi la non attuazione della sentenza Sejdić-Finci, emessa dalla Corte per i diritti umani di Strasburgo, la Commissione Europea sembra essere decisa a ripristinare un percorso che al momento viene definito «non percorribile». Come ha sottolineato a Sarajevo lo scorso dicembre l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, l’italiana Federica Mogherini, l’obiettivo del Consiglio dell’Unione rimane quello di produrre un’implementazione più positiva tra Bosnia-Erzegovina ed Unione Europea in virtù dell’Accordo già esistente.

Gli storici processi di integrazione promossi da Bruxelles, siano essi stati di natura politica come nel caso della Grecia, Spagna o Portogallo per la prevenzione di un ritorno all’autoritarismo, che di natura economica come per gli ex Paesi sovietici sotto il Patto di Varsavia, non sono minimamente comparabili all’attuale scenario presente all’interno del territorio bosniaco-erzegovino.

Appare altrettanto chiaro che un tale processo tecnico di integrazione, in cui a precise scadenze vengono imposti obblighi e concesse delle “contropartite”, non è attuabile per evidenti problemi di natura politica.
La stessa Unione Europea, attore promotore dell’avvicinamento con Sarajevo, nonostante disponga del Direttorio per l’Integrazione, è mancante in tale istituto di un potere esecutivo capace di identificare responsabilità e possibili ostruzionismi. Il testo normativo in ambito di integrazione, ossia “La strategia europea in materia di sicurezza” siglato nel 2003, ha evidenziato tutta la sua inadeguatezza in Bosnia-Erzegovina poiché documento omologo a quello già adottato negli Stati Uniti d’America in un contesto ovviamente completamente differente.
Anche se Sarajevo ha promosso sia un forte allineamento alle politiche comunitarie sia pareri concordi alle specifiche risoluzioni della PESC, il problema bosniaco sembra aggravarsi per una possibile implosione politica interna, sottovalutata fin dalla conclusione dei colloqui di pace di Dayton nel 1995.

La natura del problema ricade sulla divisione interna dello Stato che nelle sue componenti etniche, divenute oramai vere comunità politiche molto influenti grazie al loro peso decisionale nelle istituzioni, manifesta tutta l’incapacità di raggiungere gli obiettivi preposti da un altro importante concordato, quello di “Prud III”. Il testo del 2009, che avrebbe dovuto realizzare un concreto assetto federale basato su un principio di autonomia territoriale piuttosto che etnico-comunitaria, avrebbe garantito una non ingerenza di alcuno attore esterno ed escluso qualsiasi pressione politica durante la sua attuazione.
Al momento, un ripristino dei dialoghi intorno agli obiettivi del “Prud III” rappresenta per Bruxelles l’unica speranza di riuscire a ricostruire un dialogo con la Bosnia-Erzegovina in chiave di integrazione europea.

I cambiamenti sviluppatisi dopo la conclusione della guerra fratricida di quasi un ventennio addietro, potrebbero compromettere definitivamente l’ingresso del Paese all’interno dell’Unione Europea.
Quello che è sempre stato definito un problema etnico-identitario, oggi sembra trasformarsi in uno di natura prettamente politica; l’assetto costituzionale, inoltre, garante della parità di rappresentanza delle tre comunità in ambito istituzionale, sembra al momento non regolamentare il forte momento di crisi.

La Šestorka, la coalizione politica d’opposizione che negli anni 2000 vinse le elezioni come forza promuovendo un serio cambiamento all’interno del Paese, ha perso qualsiasi tipo di credenziale e fiducia per l’aumento del tasso di corruzione e per i tanti casi di clientelismo. Anche gli storici partiti del Paese ed i loro leaders, gravati dagli errori in ambito negoziale non solo con Bruxelles, non sembrano più rappresentare un punto di riferimento per la popolazione e per le tre comunità etniche presenti.

La crescente spinta indipendentista serbo-ortodossa appare voler spingere la Repubblica di Srpska in un’enclave monoetnica poiché, ancor oggi, quasi la maggioranza della gente si autodefinisce “jugoslava” o addirittura “patriota-jugoslava” da un punto vista politico.
In una della sua municipalità più rappresentative, ossia la città di Banja Luka, la pretesa di una maggiore autonomia ha inaugurato l’ennesimo momento di crisi tra la comunità serba ed il principale attore politico rappresentante della stessa comunità, ossia il Partito del Progresso Democratico.

La richiesta di ricondurre la Bosnia-Erzegovina verso una struttura più confederale riecheggia oggi proprio a Sarajevo, dove i “patrioti bosniaci” si scontrano politicamente con le pretese delle stesse istituzioni capitoline che allo stesso tempo auspicano una riforma politica in un’ottica di centralizzazione statale.
Proprio la capitale, inoltre, rispetto a quello che mostravano i suoi dati storici, è al momento protagonista di una crescente islamizzazione conseguente l’incremento della sempre maggiore presenza della comunità bosgnacca. Quella che un tempo era una delle città roccaforte della comunità sia serba che ortodossa, simbolo della vecchia Jugoslavia, vede adesso la possibile avanzata del Partito d’Azione Democratica, rappresentante della stessa comunità musulmana.

Nella zona a maggioranza croata invece, l’istanza politica rivendicata dalla comunità etnica riguarderebbe il tentativo di riuscire a trasformare la finzione legale dell’uguaglianza costituzionale dei «tre popoli costitutivi» in un assetto paritario con la capitale Sarajevo. La città di Mostar, enclave proprio della comunità croata e del leader socialdemocratico Željko Komšić, sembra essere la più accreditata a rappresentare la “seconda capitale” di questa atipica forma di Stato.

Nonostante tutto, se da una parte la Bosnia-Erzegovina sembra rimanere una federazione fortemente decentralizzata, dall’altra è evidente che le politiche dell’Unione Europea in tema di allargamento dei propri confini esterni non corrispondono ai risultati sperati.
Anche l’Ucraina, ad esempio, stretta nella morsa tra Bruxelles e Mosca, aveva in parte rifiutato nel 2013 la possibilità di firmare l’accordo interinale dell’ASA. Forse, anche quest’aspetto, potrebbe essere l’ennesima chiave di lettura di tale scenario.

Se il caso bosniaco e quello ucraino appaiono delle coincidenze, una loro veloce comparazione con un altro scenario balcanico, precisamente quello del Kosovo, confermerebbe la totale inadeguatezza delle politiche di Bruxelles.

L’Unione Europea, che aveva sostenuto le istanze indipendentiste di Priština con la dichiarazione di indipendenza dalla Serbia, violando de jure e de facto qualsiasi principio di integrità territoriale sancita dal diritto internazionale, potrebbe veder fallire uno dei suoi più importanti progetti di cooperazione ed integrazione nei Balcani a causa di pulsioni politiche che per interesse e parzialità di giudizio oggi non vengono sostenute.


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