Nei primi giorni di giugno, il Center for Strategic and International Studies (“think tank” assai vicino al Pentagono ed all’industria delle armi statunitense dal quale viene copiosamente finanziato) ha pubblicato un articolo (dal titolo The longer-term impact of the Ukraine conflict and the growing importance of the civil side of the war) che ben descrive un certo cambio di paradigma nell’approccio nordamericano al conflitto in Europa orientale. In esso si legge: “It now seem all possible that Ukraine will not regain its territory in the east, will not get the levels of aid it needs to quickly rebuild, will face continuing threats from Russia in the east that will limit its ability to recreate an industrialized area, and will face major problems in terms of maritime trade[1].

Nella precisa consapevolezza del fatto che ben pochi, all’interno dell’amministrazione USA, fossero convinti della reale possibilità di una “vittoria totale” dell’Ucraina nel conflitto (l’obiettivo è sempre stato quello di protrarlo ad oltranza, di “combattere fino all’ultimo Ucraino” come ha fatto notare Franco Cardini), l’articolo evidenzia comunque una svolta decisa in termini di retorica ufficiale se si considera che al suo interno si legge anche che solo una “minuscola porzione” (“only a tiny portion”) degli attacchi compiuti dai Russi sul suolo ucraino possono essere formalmente definiti come crimini di guerra.

Di fatto, decenni di elucubrazioni (in molti casi fini a se stesse) sulla cosiddetta “guerra ibrida” (prodotte anche nella stessa Russia, si pensi alla “Dottrina Gerasimov”) hanno obnubilato le menti degli “strateghi” e “analisti” occidentali che si sono lasciati trovare impreparati di fronte ad una nuova guerra convenzionale combattuta attraverso l’utilizzo coordinato (e su vasta scala) di mezzi militari, politici ed economici. Ed in cui il terrorismo informativo e la manipolazione psicocognitiva hanno interessato soprattutto la parte non direttamente belligerante occidentale, dove i mezzi di informazione hanno scientemente optato per sfruttare la “tragedia” separandola dalle sue cause, in modo da invertire le responsabilità della stessa nello spazio e nel tempo.

In particolare, sorvolando sulle estemporanee analisi che già a fine febbraio davano la Russia in trappola e la strategia USA vincente su tutta la linea, in pochi si sono resi conto da subito del livello globale del conflitto: ovvero, dei profondi cambiamenti che lo scontro stava rapidamente portando a galla sul piano della struttura economica, finanziaria e geopolitica mondiale esistente e dell’altrettanto profonda crisi in cui esso stava (e sta) facendo sprofondare l’Occidente (soprattutto la sua componente europea) sul piano economico e militare.

Proprio l’Europa, anziché reagire istericamente, avrebbe dovuto mantenere la necessaria capacità di analisi politico-militare degli eventi, in modo da limitare subito i danni e frenare un conflitto il cui prolungamento accresce di giorno in giorno gli effetti devastanti per la sicurezza e l’economia continentale. Infatti, parafrasando Carl Schmitt, esso è ispirato dalla principale potenza antieuropea della storia contemporanea: gli Stati Uniti d’America. Un tale conflitto, a prescindere dal suo esito, impone un ripensamento (o meglio, una ristrutturazione) totale delle forze militari e degli eserciti delle singole nazioni europee, dimezzati al termine della guerra fredda ed imbrigliati all’interno di quell’alleanza ineguale che corrisponde al nome di NATO: uno strumento che (per Washington) ha avuto il “merito” di trasformare la possibile minaccia sovietica di ritorsione nucleare sugli Stati Uniti nella certezza inevitabile di una guerra di devastazione nucleare e convenzionale in Europa.

Questo discorso, tuttavia, impone in primo luogo un’analisi degli eventi bellici ucraini degli ultimi mesi. La penetrazione iniziale delle forze russe lungo il confine settentrionale ed orientale dell’ex repubblica sovietica aveva creato un fronte di oltre 1500 km (assai lungo in rapporto al numero di truppe inizialmente utilizzate da Mosca, intorno alle 150.000 unità a cui si aggiungono 50.000 soldati delle Repubbliche separatiste). Questo si è ridotto della metà dopo il ritiro russo dalle aree di Kiev, Cernihiv e Sumy con il consecutivo concentramento di forze nel Donbass (la cui “liberazione” rimane l’obiettivo dichiarato) e nelle aree di Kherson, Mikolayv, Melitopol e Zaporizhzhia. L’Ucraina, dal canto suo, ha potuto schierare 250.000 uomini tra forze regolari, Guardia Nazionale e le milizie inserite al suo interno (tristemente note per i crimini di guerra commessi negli otto anni di conflitto pregresso)[2]. Ad essi si sarebbero aggiunti intorno ai 7000 mercenari stranieri (soprattutto francesi, polacchi, georgiani, canadesi e statunitensi, in buona parte ben addestrati e reduci da altri teatri di guerra). Secondo fonti militari russe, 2000 di questi “combattenti internazionali” sarebbero caduti in battaglia, mentre altri 2000 avrebbero abbandonato il fronte lamentando l’eccessiva violenza dello scontro[3].

Ora, è bene chiarire da subito che, per numeri e mezzi impiegati, tale conflitto (nonostante i limiti autoimposti da Mosca al controllo sullo spazio aereo e l’utilizzo in buona parte di veicoli datati) non è paragonabile né alle guerre balcaniche (fatta eccezione per i 78 giorni di bombardamenti NATO sulla Serbia) né alle guerre occidentali in Iraq e in Afghanistan, né all’aggressione alla Libia. Tra marzo ed aprile 2003, la “coalizione dei volenterosi”, ad esempio, affrontò un esercito iracheno allo sbando dopo oltre un decennio di regime sanzionatorio. E tali guerre possono essere catalogabili nell’ambito degli “scontri asimmetrici” in cui la maggior parte delle operazioni militari sono di natura antinsurrezionale (comprese le campagne più importanti come quella di Falluja in Iraq, dove 15.000 anglo-americani riuscirono con grande difficoltà, e molto probabilmente attraverso l’utilizzo di armi al fosforo, ad aver la meglio su 4000 insorti).

Il 17 giugno il Ministero della Difesa di Kiev ha ammesso che l’Ucraina avrebbe perso intorno al 50% delle sue capacità militari totali (probabilmente la percentuale è più alta). Più o meno nei medesimi giorni, prima il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e poi il suo collaboratore David Arakhamia hanno dichiarato rispettivamente che i caduti ucraini sono 100 e poi 1000 al giorno.

È assai difficile capire se tali cifre siano reali o figlie della propaganda e della necessità pressante di nuovi aiuti occidentali. Tuttavia, mettono in evidenza il fatto che un volume così elevato di perdite (come si è già cercato di dimostrare nel precedente articolo Guerra demografica e guerra economica) è in ogni caso insostenibile per Kiev nel lungo periodo. Soprattutto alla luce del fatto che alcuni reparti dell’esercito ucraino, lasciati senza ordini e supporto logistico nell’area (ostile) di Severodonetsk, avrebbero subito perdite pari al 90% dei loro effettivi.

I servizi di spionaggio britannici e nordamericani parlano di oltre 15.000 caduti nel campo russo (più o meno gli stessi di dieci anni di guerra in Afghanistan negli anni ’80 del secolo scorso). Kiev afferma di aver neutralizzato 33.600 soldati nemici. Non si può stabilire con certezza quale sia l’effettivo volume delle perdite su entrambi i lati[4]. Come ha affermato l’analista Gianandrea Gaiani, anche se i caduti russi fossero la metà (7.500) sarebbe comunque un numero elevato per i canoni occidentali odierni (non per un modello di guerra convenzionale). Infatti bisogna tenere a mente che i principali eserciti europei (Francia, Germania e Italia), ridotti sul piano numerico ma ad alto contenuto tecnologico, hanno in media intorno agli 80.000 effettivi ed una dotazione limitata di veicoli corazzati e aerei. L’esercito italiano, inoltre, ha un’età media tra i volontari in servizio permanente di 39,8 anni, con oltre il 57% di essi che supera i 40 anni[5]. In caso di conflitto convenzionale in cui dover avvicendare le truppe sulla linea del fronte, nessuno di questi eserciti sarebbe capace di impiegare in battaglia più di 15.000 uomini alla volta con una capacità di resistenza limitata a poche settimane in caso di alto tasso di perdite umane e di intensivo sfruttamento di munizioni. In particolare, nessuno esercito europeo sembra essere preparato ad un conflitto combattuto soprattutto nella dimensione terrestre, quella decisiva quando in gioco vi è la ricerca (come nel caso russo) di uno spazio vitale (o spazio di sicurezza) negato in toto (sul piano sia fisico sia virtuale) dall’Occidente. Ragione per cui il “blocco” di Kaliningrad, anche se studiato strategicamente come strumento di pressione in ambito negoziale, risulta essere non poco rischioso, soprattutto alla luce del mancato rispetto degli accordi di transito tra l’enclave ed il resto del territorio russo stilati da Mosca e Bruxelles nei primi anni 2000.

Questo dovrebbe spiegare la malcelata renitenza di molti governi europei a dichiarare apertamente l’ammontare e le caratteristiche degli aiuti militari inviati all’Ucraina (forse più limitati di quello che si possa pensare), mentre, al contrario, il Dipartimento della Difesa USA ha scelto di pubblicare in modo dettagliato valore e quantità di ogni specifico prodotto inviato. Nel sito informatico del governo nordamericano si legge che, dal 24 febbraio, gli Stati Uniti hanno fornito aiuti militari all’Ucraina per 5,6 miliardi di dollari (8,6 “investiti” in totale dal 2014). Forniture che comprendono: 1400 sistemi di difesa aerei Stinger, 6500 missili anticarro Javelin, 126 obici M777, droni tattici Puma, 20 elicotteri Mi-17 (16 dei quali erano in dotazione dell’aeronautica afghana), 7000 armi leggere e 50 milioni di munizioni, oltre 700 munizioni circuitanti[6].

Tuttavia, anche in virtù del suddetto cambio di paradigma, si è scelto di non inviare “armi offensive” come i droni Grey Eagle per il rischio (assai elevato) che la loro sofisticata tecnologia possa cadere in mano russa.

Se il dato militare non sorride all’Europa, quello economico è drammatico. Nello specifico, il problema delle forniture energetiche (con prezzi sempre crescenti) determinerà una crisi economica strutturale dalla quale sarà assai difficile uscire, se si considera che i disperati tentativi di diversificazione non avranno alcun impatto nel breve periodo. La stessa idea di poter contare subito sul GNL nordamericano, nel momento in cui Gazprom taglia le forniture come risposta al regime sanzionatorio, sembra essere tramontata sul nascere dopo che un misterioso incidente (per la gioia del mercato interno statunitense) ha messo fuori uso il terminale della Freeport LNG in Texas, dal quale partono le navi cisterna che portano il gas liquefatto in Europa[7].

Il regime sanzionatorio che l’UE si è praticamente autoimposto, inoltre, ha messo in crisi il cosiddetto Green Deal e la supposta transizione ad un’economia a zero emissioni entro il 2050[8]. Un tale approccio richiede notevoli risorse ed investimenti per sviluppare nuove tecnologie e per operare una vera e propria ristrutturazione energetica. Risorse che, al momento, non sono più disponibili, visto che il costo sempre più alto dell’energia sta riducendo drasticamente la competitività delle economie europee su scala globale. Il Green Deal, infatti, prevede inevitabilmente lo sviluppo di infrastrutture per lo stoccaggio ed il trasporto delle energie rinnovabili. I materiali per la produzione di tecnologia ad energia rinnovabile (pannelli solari, batterie per lo stoccaggio, mezzi elettrici), inoltre, sono costruiti con metalli rari (cobalto, nichel, manganese, litio) che l’UE importa e di cui la Russia detiene ampie quote di mercato con la relativa capacità di influenzarne l’andamento. Mosca è la seconda produttrice al mondo di cobalto e la terza di nichel. Il primo produttore europeo di manganese è l’Ucraina (ottavo al mondo), anche se tale produzione risulta concentrata nell’ormai perduto Donbass. La Cina, infine, controlla il 46% della produzione mondiale di litio. A ciò si aggiunga che lo stesso ricorso al GNL nordamericano (più costoso per il consumatore finale) e prodotto attraverso la fratturazione idraulica, oltre a richiedere tempo per la costruzione di nuovi terminali ed un notevole consumo energetico per il processo di trasformazione, risulta essere “ecologicamente ostile”. 

In questo contesto, nonostante Bruxelles cerchi di parlare con una voce unica, gli interessi da Paese a Paese rimangono diversi così come le rispettive fonti energetiche. Germania e Italia sono fortemente dipendenti dal gas; la Francia utilizza molto il nucleare; Paesi più piccoli come Grecia, Cipro e Malta dipendono dal petrolio.

Il 40% delle importazioni europee di gas arrivano dalla Russia, il 18% dalla Norvegia, l’11% dall’Algeria ed il 4,6% dal Qatar. Il 30% dei combustibili fossili arriva dalla Russia[9]. La sostituzione delle forniture energetiche russe è pensabile solo nel lungo periodo e nel breve periodo l’alto prezzo delle risorse potrebbe comportare problemi di natura economico-sociale anche per i Paesi che non importano direttamente da Mosca.

Alcune considerazioni finali merita anche la cosiddetta “crisi del grano”. A questo proposito è bene ribadire che il blocco del grano ucraino non rappresenta un problema insanabile sul piano globale. Secondo i dati della FAO, il grano ucraino rappresenta il 3,2% della produzione mondiale.  L’Ucraina, nel 2021, era l’ottavo produttore mondiale con 25 milioni di tonnellate all’anno. Primo produttore mondiale è la Cina (134 milioni), seguita da India (108) e Russia (86, primo esportatore mondiale). Da notare che l’UE nel complesso sarebbe il secondo produttore mondiale con 127 milioni di tonnellate. Dunque tale crisi, in linea teorica, non riguarderebbe affatto l’Europa.

I rincari nei prezzi (antecedenti al conflitto) non sono proporzionali alla penuria della materia prima, ma sono frutto di un’aspettativa futura, prodotto dei contratti cosiddetti “derivati”. Soggetti che nulla hanno a che fare con il grano (fuori dal circuito della produzione), di fatto, usano i titoli derivati per fare mera speculazione (ad esempio, li comprano a 30 e li rivendono a 40). Una pratica che fino agli anni ’90 del secolo scorso era vietata su questo tipo di beni dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tuttavia, la successiva totale liberalizzazione del settore ha consentito l’utilizzo di questi strumenti di speculazione finanziaria. Come ha affermato il prof. Alessandro Volpi: “Il mercato dei cereali, come quello dell’energia, vive di un’aspettativa dell’andamento, con vere e proprie scommesse che determinano il prezzo. Se c’è un conflitto, se ogni giorno si ricorda che il grano ucraino è bloccato, se si annunciano ulteriori restrizioni alla produzione, le scommesse saranno al rialzo sul fatto che i prezzi tenderanno ad aumentare[10].

La crisi alimentare, dunque, è scollegata dall’andamento del conflitto. I Paesi a soffrire di deficit alimentare erano 44 già nel 2021 (33 in Africa e 11 in Asia)[11]. Il rincaro dell’energia, del prezzo del carburante, dei cereali e la speculazione ad essi collegata ha semplicemente peggiorato una situazione già di per sé problematica, che condurrà oltre 440 milioni di persone a soffrire la fame nei prossimi mesi, con il corollario di migrazioni incontrollate e con la possibile riapertura del “fronte” OGM in Europa ed a livello globale (non a caso, le multinazionali produttrici di semi geneticamente modificati sono le stesse che producono diserbanti a base di glifosati).

A ciò si aggiunga il fatto che un eventuale accordo tra Russia e Turchia sullo sminamento dei porti ucraini (nonostante i timori di Kiev) e sul transito delle navi mercantili nel Mare Nero taglierà fuori dalla “partita alimentare” quelle forze che pensavano di poterla utilizzare come arma di pressione umanitaria nei confronti di Mosca.


NOTE

[1]A. H. Cordesman, The longer-term impact of the Ukraine conflict and the growing importance of the civil side of the war, www.csis.org.

[2]Si veda il rapporto OSCE War crimes of the armed forces and security forces of Ukraine: torture and inhumane treatment, www.osce.org. In esso si legge: “The extent to which torture is being used and the fact that this is done systematically prove that torture is an intentional strategy of the said institutions, authorized by their leadership”. Tali istituzioni, specifica il rapporto, sono proprio le forze di sicurezza ucraine, la Guardia Nazionale e le milizie ad essa collegate. Il rapporto, inoltre, chiarisce che il diritto europeo in alcun caso giustifica la tortura e non pone alcuna deroga nemmeno nell’eventualità dello scontro armato o della minaccia alla sicurezza nazionale.

[3]G. Gaiani, Prime (amare) indicazioni dalla guerra in Ucraina, www.analisidifesa.it.

[4]Il 9 giugno Mosca ha dichiarato di aver abbattuto 193 aerei, 130 elicotteri ed oltre 1000 droni ucraini. Il 19 giugno Kiev ha dichiarato di aver abbattuto 216 aerei, 180 elicotteri e 594 droni russi. A prescindere dai numeri gonfiati, appare comunque evidente che, in un contesto di utilizzo di sistemi antiaerei S-300 ed S-400 a lungo raggio e di sistemi antiaerei portatili in campi di battaglia sorvolati a bassa quota dagli elicotteri, il numero di perdite di velivoli possa essere comunque alto.

[5]Prime (amare) indicazioni dalla guerra in Ucraina, ivi cit.

[6]Si veda U.S. Security Cooperation with Ukraine, www.state.gov.

[7]M. Bottarelli, L’utopia di chi spera nel GNL di USA, Africa e Israele, www.ilsussidiario.net.

[8]I. Dimitrova, L’UE ed il suo settore energetico dopo l’Ucraina, www.eurasia-rivista.com.

[9]Ibidem.

[10]Si veda Crisi del grano, è solo speculazione, www.collettiva.it.

[11]Si veda FAO: record produzione mondiale cereali nel 2021, www.askanews.it.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).