Il 1989 è stato un anno di importanza cruciale per la storia contemporanea. A partire da questa data, con la caduta del muro di Berlino, ha inizio il processo di implosione del blocco socialista che terminerà due anni più tardi con il crollo della stessa Unione Sovietica. È proprio a partire dal 1989 che si può collocare cronologicamente l’inizio di quel momento unipolare, caratterizzato dall’affermazione egemonica globale degli Stati Uniti d’America e dalla messa in atto dell’idea di “predestinazione”, che, ad oggi, non è ancora terminato. Tuttavia, se è vero che il 1989 segna l’inizio dell’unipolarismo, è altrettanto vero che nel corso del medesimo anno (e addirittura prima che il muro di Berlino venisse abbattuto), con la resistenza della Repubblica Popolare Cinese di fronte a quella che è stata definita (più o meno correttamente) come una “rivoluzione colorata ante litteram”, vengono creati i presupposti per la realizzazione futura di un ordine globale multipolare. Di fatto, a trent’anni di distanza da quel 1989, è proprio la potenza economico-commerciale della Cina (politicamente ristrutturata lungo le linee guida del “socialismo con caratteristiche cinesi”)[1], a rappresentare, prima ancora della ritrovata forza militare russa, il vero e proprio motore verso l’evoluzione ad un sistema multipolare delle relazioni internazionali.

I 

Evitando di cadere nella trappola di stucchevoli “nostalgismi” del mondo bipolare, si rende comunque necessario affermare quella che, sulla base delle condizioni attuali, sembra essere una verità incontrovertibile: la riunificazione tedesca, l’implosione del blocco socialista ed il crollo dell’URSS hanno rappresentato una vera e propria catastrofe geopolitica per l’Europa. Una catastrofe di cui il continente continuerà a subire i più nefasti effetti ancora per molti anni.

Questa affermazione, ovviamente, necessita di una dettagliata dimostrazione. Ed è ciò che si cercherà di fare in questo contesto, articolando il discorso su due livelli: a) una elencazione dei “mali” prodotti dall’istante unipolare collegata ad una riflessione sull’attuale condizione del sistema europeo; b) la transizione odierna dall’unipolarismo al multipolarismo.

È convinzione diffusa che l’implosione del blocco socialista sia stato quasi un evento estemporaneo, il prodotto di un moto popolare diffuso ed improvviso. Naturalmente, non è stato affatto così. E le cause di questa repentina dissoluzione potrebbero essere ricercate addirittura alcuni decenni prima degli anni ’80 del XX secolo. Utilizzando una terminologia cara all’antropologo russo Lev N. Gumilev si potrebbe affermare che il “microciclo” di etnogenesi del subethnos sovietico, iniziato nel 1917, dopo aver raggiunto il suo picco negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, abbia conosciuto, a partire dalla seconda metà degli anni ’50, l’inizio della sua parabola discendente.

Si potrebbe addirittura affermare che questa progressiva decadenza abbia avuto precisamente inizio con il processo destalinizzazione: ovvero, con la decostruzione del sistema politico realizzato nei decenni precedenti sotto la guida di Josif Stalin. Tale processo è proseguito a fasi alterne fino agli anni ’80, con un relativo rallentamento nell’epoca brezneviana e con una brusca accelerazione nel momento in cui, nel giro di pochi anni, si susseguirono alla guida del PCUS Leonid Breznev, Jurij Andropov, Konstantin Cernenko ed infine l’inetto Mikhail Gorbaciov, il cui destino di curatore fallimentare del comunismo sovietico venne predetto da Ruhollah Khomeini in una lettera che l’Imam gli inviò in data 1° gennaio 1989.

Così scrisse la Guida della Rivoluzione islamica iraniana nella lettera indirizzata all’allora Segretario del PCUS: “d’ora in poi bisognerà cercare il comunismo nei musei di storia della politica mondiale”[2].

Il problema del comunismo, secondo l’Imam, si trovava essenzialmente nel suo essere una dottrina materialistica. “E col materialismo – scrisse nella lettera – non si può di certo far uscire l’umanità dalla crisi provocata proprio dalla mancanza di fede nello spirito”[3].

Questo breve preambolo storico ha l’obiettivo di dimostrare che da tempo vi era il sentore che un’epoca stesse per terminare. Tuttavia, ben pochi riuscirono ad immaginare che il “dopo” non sarebbe stato affatto così luminoso.

Il primo prodotto della riunificazione tedesca e del crollo del blocco socialista è stato quel Trattato di Maastricht (1992) che ha posto le fondamenta per la costruzione dell’attuale “gabbia tecnocratica”. Ed a questo proposito è utile ribadire che l’Unione Europea attuale è in larga parte una creazione statunitense. Lo scopo di tale creazione era, da un lato, garantire il controllo geopolitico del Vecchio Continente da parte di Washington e, dall’altro, dare sfogo alle aspirazioni subimperialiste della Germania riunificata, allargando l’Unione a quell’Europa orientale nella quale il popolo tedesco, storicamente, ha sempre ricercato la propria profondità strategica.

Le parole dell’allora stratega del Pentagono Zbigniew Brzezinski, in questo senso, sono emblematiche: “Qualunque espansione del campo di azione politico dell’Europa è automaticamente un’espansione dell’influenza statunitense. Un’Europa allargata ed una NATO allargata serviranno gli interessi a breve ed a lungo termine della politica europea. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana senza creare, allo stesso tempo, un’Europa così integrata che sia in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni di rilievo geopolitico, in particolare nel Vicino Oriente”.

Oggi, la completa realizzazione del disegno strategico di Brzezinski è sotto i nostri occhi. L’UE (aggregato di Stati che cercano, seppur nella loro limitata sovranità, di fare ciascuno i propri interessi specifici) non esiste sul piano politico e geopolitico, ma solo su quello tecnico-finanziario. E l’Europa, attualmente, è divisa almeno in tre blocchi: l’asse (alquanto traballante se non addirittura ipotetico) franco-tedesco; il Gruppo di Visegrad ed i Paesi dell’est per i quali Washington ha studiato il ruolo geopolitico di “cordone sanitario” ai confini occidentali della Russia (si pensi all’iniziativa Tre Mari)[4]; i Paesi dell’Europa mediterranea che svolgono alternativamente il ruolo di laboratorio politico (il caso italiano) o di laboratorio economico-finanziario (il caso greco), e che vengono ciclicamente sottoposti alle ondate migratorie causate dalle aggressioni imperialiste della NATO o studiate ad arte come strumenti di destabilizzazione.

A questo proposito non sembra superfluo citare il testo di Kelly M. Greenhill  Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy. In quest’opera la consulente del Pentagono parla espressamente di “movimenti di popolazione transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di estorcere concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira”[5]. Alla luce della situazione attuale, con l’Italia sottoposta alla pressione migratoria dalla sponda sud del Mediterraneo a seguito della vergognosa avventura atlantista in Libia (altro prodotto, insieme alle aggressioni di Iraq e Siria, dell’istante unipolare), appare ancora più urgente la necessità per l’Europa di riconquistare il controllo del suo mare interno, trasformato in un “lago nordamericano” dal sistema di controllo fondato su una un linea “ipotetica” che unisce Gibilterra all’entità sionista attraverso le isole del fu Mare Nostrum.

L’importanza geostrategica del Mediterraneo venne a più riprese sottolineata dal pensatore e geopolitologo belga Jean Thiriart, che nella sua opera L’impero euro-sovietico da Vladivostok a Dublino non solo individuò nell’insufficiente interesse per l’area una delle principali cause della sconfitta delle forze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, ma, allo stesso tempo, affermò che una Europa realmente sovrana, liberata dall’occupazione nordamericana, avrebbe dovuto porre i propri confini meridionali lungo la linea del Sahara[6].

Con questo non si vuole certo affermare il bisogno di una nuova avventura coloniale europea in Nord Africa, ma semplicemente la necessità di costruire, con i Paesi di questa regione, uno spazio comune di cooperazione economica e militare, liberato dall’intromissione di potenze extraoceaniche, nel rispetto delle rispettive sovranità e dei rispettivi interessi.

Ritornando alla questione dell’unificazione europea e della sua espansione ad est, si può tranquillamente affermare, senza timore di venire smentiti, che questa fosse da subito direttamente collegata con il progetto di espansione della NATO. In cambio del suo ruolo di primo piano nella costruzione dell’Unione Europea, la Germania ottenne come contropartita l’inclusione degli ex satelliti dell’URSS all’interno del suo blocco geoeconomico. Non solo, ma orientando la sua geopolitica in termini essenzialmente commerciali ed economici, la Germania ebbe un ruolo di non poco rilievo anche nel processo di parcellizzazione della Jugoslavia. Qui l’obiettivo strategico nordamericano era quello di liberare uno spazio che potenzialmente avrebbe dovuto costituire il terminale per il trasferimento delle risorse energetiche dall’Asia centrale desovietizzata[7]. L’attuale realizzazione del gasdotto TAP, ad esempio, è sempre stata parte integrante di questa progettualità.

Nel contesto balcanico la strategia nordamericana, di fatto, cambiò nel giro di pochi anni. La “Direttiva 133” del 1984, dal titolo emblematico United States Policy Toward Yugoslavia, sebbene affermasse il bisogno di imporre una maggiore influenza sull’area e di assecondarne il processo di riforma verso il libero mercato, ancora sosteneva la necessità di garantire l’unità territoriale dello Stato balcanico, in modo tale da utilizzarlo come spina nel fianco del Patto di Varsavia e per contrastare l’egemonia cubana e sovietica all’interno del gruppo dei cosiddetti “Paesi non allineati”.

Questa strategia venne modificata radicalmente a partire dalla prima metà degli anni ’90, quando il Patto di Varsavia non esisteva più e la Jugoslavia rimase l’unico Paese socialista della regione. Così, alla disintegrazione dello Stato jugoslavo a seguito della guerra civile e dell’immissione nella regione di migliaia di combattenti gihadisti sotto patrocinio CIA (in parte reduci dall’esperienza afgana), fece seguito la sua “deserbizzazione”, realizzata a tappe forzate dall’amministrazione Clinton fino alla criminale aggressione a Belgrado del 199[8].

Quello jugoslavo, tuttavia, non è stato l’unico caso di transizione violenta dal socialismo al “libero mercato”. Qualche anno prima, nel 1989, una sorte simile, seppur senza disgregazione del Paese, era toccata alla Romania di Nicolae Ceausescu. Questi, fautore di una sorta di nazionalcomunismo nutrito dall’ideologia del “protocronismo romeno”, dopo aver portato il Paese all’interno di strutture finanziarie internazionali come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale si rese “colpevole” di aver studiato con Libia ed Iran il progetto di un istituto di credito destinato a concedere prestiti a tasso ridotto ai Paesi in via di sviluppo. Fu in quel momento che contro Ceausescu, definito all’epoca come “sterminatore del proprio popolo” (espressione con la quale i mezzi di informazione occidentali solitamente preannunciano ogni operazione di sovversione politica), si scatenò un brutale colpo di Stato, appoggiato, con una clamorosa autorete, dalla stessa Unione Sovietica[9]. Di lì a poco, infatti, la Romania, situata lungo la diagonale di navigazione interna più importante dell’Europa, il fiume Danubio, si ricollocò all’interno della NATO, dove, assieme alla Bulgaria, iniziò a svolgere il ruolo di garante del corridoio terrestre tra i nuovi ingressi settentrionali e mitteleuropei dell’alleanza atlantica (Paesi baltici, Polonia, Slovacchia, Ungheria) ed il suo membro più orientale: la Turchia.

Quella dell’integrazione europea, dunque, rimane una storia sostanzialmente infausta e votata alla mera sottomissione del continente, nella sua totalità, al controllo nordamericano. Ed i più recenti fatti ucraini rientrano a pieno titolo all’interno di questa progettualità. Basti pensare che i cosiddetti “corridoi paneuropei”, progettati allo scopo di unire le estremità dell’Europa, in linea di principio, altro non sono che delle infrastrutture di guerra programmate per garantire la suddetta volontà di controllo geopolitico. Non sorprende affatto che il Corridoio V, del quale fa parte anche il TAV Torino-Lione (progetto, non a caso, ampiamente sostenuto da tutte le forze politiche “atlantiste” italiane) miri a collegare Lisbona con Kiev.

Questo a dimostrazione del fatto che il modello di dominio talassocratico unipolare nordamericano non prevede confini, ma fasce di sicurezza. E le fasce di sicurezza per gli Stati Uniti si trovano al di là degli oceani: lungo il rimland orientale del continente eurasiatico e lungo i confini occidentali della Russia, con l’Europa totalmente inglobata nella loro sfera di dominio.

Le recenti tensioni tra USA e UE nascono essenzialmente dal fatto che gli strateghi di Washington mai pensarono che la Germania potesse essere capace di trarre un vantaggio così ampio dall’unificazione continentale. Anzi, a suo tempo, si ritenne che il progetto della moneta unica, costringendo la Germania a rinunciare al marco, avrebbe in qualche modo evitato un suo nuovo ed eccessivo rafforzamento.

L’errore di valutazione nordamericano ha fatto in modo che la Germania sviluppasse una struttura geografico-merceologica simile a quella disegnata dal Cancelliere Theobald von Bethmann-Holloweg nel celebre “Programma di Settembre” del 1914: ovvero, la creazione di un’associazione economica mitteleuropea (ad egemonia tedesca) attraverso comuni convenzioni doganali che includesse Francia, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Austria-Ungheria, Polonia e, eventualmente, Italia, Svezia e Norvegia[10]. Con la determinante differenza che il comunitarismo prussiano (o “socialismo prussiano” per usare un’espressione cara ad Oswald Spengler) è stato oggi sostituito dal più bieco ordoliberismo.

Così, la Germania attuale è stata capace di creare un enorme ed integrato blocco manifatturiero che include tutte le regioni industriali ad essa vicine. Ha approfittato e tratto vantaggi notevoli dai cambi depressi rispetto all’euro vigenti nei Paesi dell’est ed ha scaricato sui di essi e sull’area mediterranea il costo della moneta unica, favorendo al contempo le esportazioni tedesche.

Ben lungi dal volere restituire margini di sovranità ai Paesi europei, l’obiettivo odierno di Washington è semplicemente quello di porre rimedio al problema del “surplus commerciale tedesco” che costituisce un ostacolo di non poco rilievo nel progetto di riaffermazione e salvaguardia della “globalizzazione americana” messo in atto dall’amministrazione Trump attraverso la tradizionale politica del divide et impera.

II

Nella premessa si è accennato ai fatti di Piazza Tian’anmen e al fatto che la resistenza della Repubblica Popolare Cinese nel 1989 pose le basi per la futura costruzione dell’ordine multipolare. Oggi si è perfettamente consapevoli che la ricostruzione dei fatti fornita al tempo dai giornalisti della BBC e della CNN non era poi così veritiera[11]; e le innumerevoli perdite subite dalle forze di sicurezza dimostrerebbero, inoltre, che il carattere della manifestazione non era affatto così pacifico.

Nel discorso che tenne il 9 giugno 1989 agli ufficiali di rango superiore in applicazione delle legge marziale a Pechino, Deng Xiaoping, constatando che un manipolo di malintenzionati si era infiltrato tra la folla, affermò: “non avevamo di fronte le masse popolari ma facinorosi che hanno tentato di sovvertire il nostro Stato […] Il loro obiettivo era quello di instaurare una repubblica borghese, un vassallo dell’Occidente in tutto e per tutto”[12].

Oltre a piangere i propri “martiri” ed a congratularsi con le forze di sicurezza e con l’Esercito per essere riusciti a sedare il “tumulto”, nel medesimo discorso la Guida cinese constatò la necessità di imparare dagli errori del passato e di guardare verso il futuro. “Lo scoppio dell’incidente – affermava Deng Xiaoping – ci dà molto a cui pensare e ci costringe a riflettere a mente lucida sul passato e sul futuro. Forse questo terribile avvenimento ci permetterà di portare a termine le politiche di riforma e apertura al mondo esterno in modo costante e perfino più in fretta, di correggere i nostri errori più rapidamente e di sfruttare meglio i nostri vantaggi […] La cosa importante è non riportare mai la Cina a essere un paese con le porte chiuse”[13].

A trent’anni di distanza dal 1989, la Cina si appresta a diventare la più grande potenza mondiale ed a favorire, con il lancio del progetto della Nuova Via della Seta, l’introduzione del paradigma multipolare nel sistema delle relazioni internazionali. Ed il multipolarismo altro non è che una versione aggiornata di quella divisione del mondo in un “pluriversum” di grandi spazi già pensata a suo tempo dal giurista tedesco Carl Schmitt.

Questa tensione cinese verso la multipolarità avrebbe il suo fondamento filosofico addirittura nell’opera di Mao Tse Tung. Il “Grande Timoniere”, in un componimento poetico simbolicamente intitolato “Kunlun” (la catena montuosa che nella mitologia cinese era sede di numerose divinità), così scrisse:

“Ma io dico al Monte Kunlun;
non vogliamo tutta la tua altezza
non vogliamo tutta la tua neve.
Cosa accadrebbe se sguainassi una spada così lunga da toccare il cielo
e con essa ti spaccassi in tre pezzi?
Ne darei uno all’Europa
uno all’America,
e ne terrei uno per la Cina.
Grande pace regnerebbe sulla terra
e vi sarebbe equamente freddo e caldo su tutto il globo”[14].

Più concretamente, sono stati l’aggressione unilaterale all’Iraq e gli sforzi enormi sostenuti da Paesi come Iran e Venezuela (Stati fatti oggetto delle più volgari aggressioni da parte del sistema economico-culturale-militare del mondo unipolare) ad accelerare il processo di costruzione ideologica del multipolarismo. Esso, di fatto, si pone in contrasto con il dominio occidentale sul globo terrestre: laddove per “Occidente” si intende un ordinamento geofilosofico-spaziale realizzatosi come costruzione concentrica attorno al polo nordamericano, ordinamento che si espande lungo direttrici ideologiche ben definite (democrazia liberale, mercato, diritti umani) ed in cui ad ogni Stato è richiesto di replicare il modello statunitense qualora non voglia incappare in sanzioni, criminalizzazione o esclusione dal sistema.

La dichiarazione congiunta russo-cinese sull’ordine internazionale nel XXI secolo, firmata a Mosca il 1° luglio 2005 da parte del Presidente della Russia Vladimir Putin e del Presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao, esprime perfettamente lo spirito di opposizione al sistema di egemonizzazione economico-culturale occidentale. La dichiarazione, infatti, recita così: “la multiformità di culture e civilizzazioni nel mondo deve divenire un fondamento per le loro reciproche relazioni, e non per conflitti. Non lo ‘scontro di civiltà’, ma la necessità di una collaborazione a livello globale costituisce l’elemento determinante nelle condizioni contemporanee. È necessario rispettare e proteggere la multiformità delle civilizzazioni mondiali e dei modelli di sviluppo. Le differenze nel retaggio storico di tutti i paesi, le loro tradizioni culturali, la struttura sociopolitica, i sistemi di valori ed i percorsi di sviluppo non devono divenire pretesto per l’interferenza negli affari interni di un altro stato. È indispensabile condurre un dialogo fra civiltà ed uno scambio di esperienze sulla base del rispetto e della tolleranza reciproci ed arricchirsi e completarsi a vicenda”.

Il multipolarismo, dunque, prevede l’esistenza di molteplici “poli” o centri che interagiscono sulla base del rispetto reciproco. Ma cosa si intende per polo geopolitico?

Per rispondere correttamente a questa domanda ci si può servire di una terminologia direttamente ereditata dalla geografia sacra.

Ogni grande orientamento geopolitico è infatti in primo luogo un orientamento spirituale. Esistono, tuttavia, anche forme “contraffatte” di spiritualità. Il tradizionalista francese René Guénon, a tal proposito, affermava: “vi sono luoghi particolarmente adatti a servire da supporto all’azione delle influenze spirituali, ed è su ciò che si è sempre basata l’installazione di ‘centri’ tradizionali principali o secondari […] per contro vi sono luoghi che sono non meno favorevoli al manifestarsi di influenze di carattere del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni del dominio sottile”[15].

Se Atene, Roma, Bisanzio o la Mecca potrebbero essere facilmente inserite nelle prima categoria; appare evidente che Londra, Washington e Tel Aviv rientrano “di diritto” nella seconda: nella categoria di quei “poli” che emanano una spiritualità “contraffatta”, quando non la neghino totalmente.

Il “polo”, in ogni caso, rappresenta il punto immobile attorno al quale ruotano e si sviluppano svariate entità periferiche ad esso collegate da un rapporto di interdipendenza e reciprocità. Esso è “centro”. Ed il suo essere “centro” presuppone l’estensione. Utilizzando ancora una volta una terminologia guenoniana si può dire che esso contiene una “virtualità di estensione”. Scrive Guénon: “È il punto che realizza lo spazio, che produce l’estensione mediante quell’atto che, nella condizione temporale, si manifesta come movimento; ma per realizzare lo spazio in questo modo occorre che con qualcuna delle sue modalità il punto sia situato esso stesso in questo spazio, il quale del resto non è nulla senza di esso e sarà riempito per intero dal dispiegamento delle sue virtualità”[16]. In termini geopolitici, dunque, il polo (punto o centro) può essere identificato col concetto di “popolo guida”. Il popolo guida è un “asse” che dà inizio ad un movimento ed intorno al quale si cristallizza la vita[17].

Il concetto di “asse” richiama anche la metafisica confuciana. Essa, nata dalla luce, si esprime essenzialmente nella formula della “virtù irraggiante” ed è una metafisica che si comprende solo praticandola. Il poeta e pensatore Ezra Pound, importando il confucianesimo nell’estremità occidentale del continente eurasiatico, era convinto di fare dono all’Europa di una filosofia capace di costruire e sostenere un Impero. E tale filosofia, nella prospettiva di Pound, che la studiò assiduamente nel periodo di internamento nel campo correzionale di Pisa, aveva non pochi punti in comune con lo stesso pensiero europeo: da Omero e Sofocle a Platone ed Aristotele, fino a Dante e Guicciardini.

Il confucianesimo, di fatto, è incentrato sull’idea di “asse”. “Quell’asse nel mezzo – è scritto nei testi confuciani – è la grande radice dell’universo, l’armonia è il processo dell’universo esteso”[18]. Qui, ritornano i temi della verticalità e dell’estensione contenuti nella precedente citazione guenoniana. In particolare, i due ideogrammi chung e yung, utilizzati nei testi confuciani, rappresentano in modo enfatico un processo in moto, un asse intorno al quale qualche cosa gira.

Pur non essendo stato capace di metterlo in pratica nella realtà, avendo impostato la sua visione imperiale sul mero dominio, anche Adolf Hitler nel Mein Kampf intuì il significato geopolitico del concetti di “asse” e “polo”. “Il significato geopolitico del centro d’un movimento – scrive la guida del nazionalsocialismo tedesco – non può essere sottovalutato. Solo l’esistenza di un luogo da cui si emani l’incantesimo di una Mecca o di una Roma, a lungo andare, è in grado di assicurare a un movimento la forza, la quale si basa sull’unità interiore e sul riconoscimento d’un vertice che tale unità rappresenta”[19].

Esiste oggi in Europa un “centro” o un “popolo guida”, un asse attorno al quale cristallizzare nuovamente la vita che non sia espressione di una contraffazione ideologica? La risposta è no. Può svolgere questo ruolo la Russia in quanto unico Paese sovrano rimasto sul suolo continentale come aveva pensato il già citato Thiriart? Sicuramente non potrà farlo nel breve periodo, considerando la strisciante russofobia che infesta il mondo culturale e politico europeo.

L’Europa, purtroppo, “risplende” della luce riflessa dal polo geopolitico nordamericano, filosoficamente fondato su una forma di messianismo secolarizzato prodotto dalla modernità. E qualora essa voglia ritrovare la propria sovranità, dovrà in primo luogo svincolarsi da tale polo. Solo allora, guardando all’indietro verso le proprie radici (che non sono i valori giudaico-cristiani tanto osannati dagli agitatori politici d’oltreoceano e dai loro epigoni europei), potrà pensare di ricostruire il proprio futuro e di poter occupare un ruolo che non sia quello di semplice vassallo nel futuro ordine multipolare.


NOTE

[1]É sostanzialmente impossibile comprendere la Cina attuale senza conoscere l’opera di Confucio. In particolare, considerando il risultato ottenuto dalla Repubblica Popolare nel sollevare da una condizione di povertà oltre 700 milioni di persone, ritorna alla mente il passo del Ta Hsio (Studio Integrale) che recita: “Alla creazione dell’abbondanza si arriva per una strada maestra. Cioè, che i lavoratori della terra siano in molti, e quelli che mangiano in ozio siano pochi; che l’artigianato sia sveglio, e i consumatori misurati. Le merci allora, penetrando e circolando ovunque, abbonderanno sempre”. Contenuto in Confucio, L’Asse che non vacilla – Studio Integrale, a cura di Ezra Pound, Edizioni Ghibli, Milano 2013.

[2]R. Khomeyni, Lettera a Gorbaciov, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1989.

[3]Ibidem.

[4]Si veda a questo proposito C. Mutti, Il cordone sanitario atlantico, “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”, 4/2017.

[5]K. M. Greenhill, Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy, Cornell University Press, Ithaca and London 2010, p. 13. Si veda anche C. Mutti, Migrazioni o invasioni?, “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”, 4/2016.

[6]Si veda J. Thiriart, L’impero euro-sovietico da Vladivostok a Dublino, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1984.

[7]    F. Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, p. 22.

[8]Si veda D. Kalajic, Serbia, trincea d’Europa, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999.

[9]Si veda a questo proposito C. Mutti, Colpo di Stato a Bucarest: gli accordi di Malta e la fine di Ceausescu, Effepi, Genova 2018. Non è da sottovalutare, nel contesto romeno, l’influenza che lo speculatore “filantropo” George Soros ebbe nei fatti che precedettero e seguirono il colpo di Stato contro Ceausescu.

[10]Si veda Fritz Fischer, Germany’s Aims in the First World War, W. W. Norton, New York 1968.

[11]Questi, nello specifico, erano asserragliati nella hall dell’Hotel Beijing, situato a poche centinaia di metri da Tian’anmen ma dalla quale non si ha alcuna visione della Piazza. Si parlò di carri armati che passavano sopra montagne di cadaveri ma in pochi (o nessuno) riportarono il fatto che proprio a Tian’anmen si consumò, ad opera dei “facinorosi”, uno dei primi attentati (riportati in auge dalla galassia islamista) con un automezzo lanciato a tutta velocità tra la folla.

[12]Deng Xiaoping, Il tumulto di Piazza Tian’anmen, contenuto in “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”, 3/2019.

[13]Ibidem.

[14]Contenuto in Mao Tse Tung, Tutte le poesie, Newton Compton, Roma 1972.

[15]R. Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Ed. Studi Tradizionali, Torino 1966, p. 162.

[16]R. Guénon, Il simbolismo della croce, Adelphi Edizioni, Milano 2012, p. 103.

[17]F. Szàlasi, Grande spazio, spazio vitale, popolo guida, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2017, p. 59.

[18]L’asse che non vacilla -Studio integrale, op. cit. “La parola chung significa quello che non si sposta né da una parte né dall’altra. La parola yung significa ‘invariabile’. Quel che sta nel centro è il processo giusto dell’universo, e quel che non vacilla ne è il principio placido, il suo modo di proseguire calmo e pacato” (Prefazione di Chu Hsi a L’asse che non vacilla).

[19]Adolf Hitler, Mein Kampf (La mia battaglia), Thule Italia, Roma 2016.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).