Viktor Janukovič sarà il quarto presidente ucraino. È questo il verdetto uscito dalle urne al termine del ballottaggio delle elezioni presidenziali del 7 febbraio.

Tuttavia è ancora presto per dire se la vittoria del leader del partito delle Regioni porterà quella stabilità politica auspicata ed attesa, tanto dai suoi concittadini quanto dalla comunità internazionale, Unione Europea e Russia in testa.

Il primo dato che emerge dalle elezioni è quello di un paese ancora fortemente diviso tra Est e Ovest, con una spaccatura che appare difficilmente sanabile nel breve termine. Basti pensare che su 27 regioni in cui è suddivisa l’Ucraina, solo due hanno registrato una preferenza inferiore al 60% per l’uno o l’altro dei candidati, con una sola regione che è risultata effettivamente in bilico (quella di Zakarpats’ka, Transcarpazia, dove la Timošenko ha prevalso con solo il 51,66% dei voti).

Il secondo dato fondamentale è che la vittoria di Janukovič, seppur abbastanza sicura, è stata ben lungi dall’essere quella marcia trionfale che ci si poteva aspettare dopo il primo turno, e il margine definitivo sul candidato rivale, l’ex pasionaria arancione Julia Timošenko, è risultato alla fine essere di soli 4 punti percentuali, 48,95% contro il 45,47%. Un distacco inferiore alla somma dei voti “contro tutti” che si è attestata al 4,36% (in Ucraina è possibile esprimere un voto “contro”).

La situazione che si è venuta così a creare rischia di prolungare ulteriormente il clima di scontro tra le opposte fazioni politiche e di precipitare il paese in una nuova tormentata stagione elettorale. Infatti, nonostante appaia improbabile che la Timošenko riesca a mobilitare, come ha più volte minacciato, una nuova “rivoluzione arancione” sulla base di presunti brogli – tutti gli osservatori internazionali hanno certificato la correttezza del processo elettorale – l’inaspettato “successo” elettorale l’ha già spinta a dichiarare di non volersi assolutamente dimettere dalla carica di primo ministro e passare al’opposizione, come invece intimatole dal nuovo presidente in pectore.

La battaglia, comunque, si sposterà per il momento nella Rada, il Parlamento ucraino, dove si è già avviata la ricerca di una possibile maggioranza trasversale che consenta di evitare il ritorno alle urne. E paradossalmente il grande sconfitto di queste elezioni, il presidente uscente Viktor Juščenko, uscito di scena al primo turno dopo aver raccolto a malapena il 5% delle preferenze, rischia di diventare il vero ago della bilancia dei nuovi equilibri: l’appoggio di almeno una parte del partito di Juščenko è indispensabile per la costruzione di qualsiasi maggioranza.

Accanto al leader di Nostra Ucraina resta poi da vedere come si comporterà Sergeij Tihipko, l’indipendente ex Governatore della banca nazionale e principale aspirante alla poltrona di primo ministro, che finora non ha dato nessuna chiara indicazione sulle sue intenzioni (durante il ballottaggio ha rifiutato l’appoggio ad entrambi i candidati).

Indipendentemente da come si risolverà la partita, rimangono poi molti dubbi sulla effettiva capacità dell’intera classe politica ucraina di poter rispondere alle drammatiche necessità, soprattutto economiche e sociali, del paese.

Se la situazione interna ucraina appare ancora nebulosa e altamente instabile, non si può dire altrettanto per la sua posizione nel campo internazionale.

Il riavvicinamento alla Russia e l’abbandono, più o meno dichiarato, di qualsiasi velleità di entrare nella NATO, sono stati i due elementi centrali dell’intera campagna elettorale, e il successo del loro più fervido sostenitore, il filo-russo Janukovič, non è che la conferma dell’ormai inevitabile riorientamento della politica estera ucraina dopo la delusione del filo-occidentalismo degli ultimi cinque anni. Un cambiamento gravido di conseguenze economiche quanto geopolitiche.

Da un punto di vista economico, i cattivi rapporti con Mosca durante la presidenza di Viktor Juščenko, sempre che di rapporti si potesse parlare, sono stati tra le principali cause delle continue tensioni internazionali sulla questione del gas (le interruzioni di forniture di gas all’Europa a causa dei contrasti russo-ucraini si sono verificate nel Marzo 2005, Marzo 2008, e nuovamente a Gennaio 2009), spingendo la Russia ad impegnarsi con alcuni paesi europei, Italia e Germania su tutti, per sviluppare dei gasdotti alternativi ed evitare futuri problemi: i progetti Nord e South Stream.

È indubbio che il nuovo corso della politica ucraina in senso più filo-russo contribuirà a modificare sensibilmente questo quadro. Se da un lato il riavvicinamento tra Kiev e il Cremlino viene ben visto dall’UE proprio come garanzia per le sue forniture di gas, dall’altro bisognerà però vedere se e come questo stesso riavvicinamento potrà influenzare i progetti del Nord e South Stream, il cui transito di gas, per la Russia, seppur conveniente da un punto di vista politico, è certamente più costoso rispetto a quello attraverso i gasdotti ucraini.

Sullo scacchiere geopolitico la partita è invece più complessa.

La vittoria di Janukovič, con la sua ferrea opposizione alla NATO, rappresenta certamente un duro colpo alla politica e agli interessi statunitensi nell’area ex-sovietica, segnando in particolare un’importante battuta d’arresto per il progetto della NATO dell’est e di fatto isolando la Georgia di Saakašvili dal resto del blocco anti-russo. Tuttavia per il momento quello ucraino pare più un caso isolato che un preludio ad un ribaltamento generale del’influenza americana nell’Europa Orientale, saldamente ancorata alla roccaforte polacca, dove si gioca la partita dello scudo spaziale e del “reset” delle relazioni tra Mosca e Washington.

Infine bisogna considerare i possibili effetti che le elezioni ucraine avranno sull’Unione Europea, e particolarmente sulla sua futura politica di allargamento ad Est e sui suoi rapporti con la Russia.

La questione dei rapporti con l’UE e del possibile ingresso dell’Ucraina in Europa ha costituito uno dei maggiori elementi di raccordo fra i vari candidati alle presidenziali durante la campagna elettorale, ed è stato uno dei principali fattori che ha consentito a Janukovič di ottenere la vittoria, a differenza di quanto accadde nel 2004. Questo improvviso europeismo che ha coinvolto anche la fazione più euroscettica è tanto più significativo se lo si compara con l’intransigente rifiuto dell’altra istituzione simbolo dell’occidentalismo nell’Europa Orientale: l’Alleanza Atlantica.

La netta distinzione, emersa in Ucraina, tra UE e NATO, non solo da parte dei politici ma anche al livello dell’opinione pubblica, testimonia di un importante cambiamento avvenuto nell’ambito della tradizionale equazione occidentalista nell’area ex-sovietica. Finora infatti il processo di integrazione europea e l’adesione alla NATO hanno sempre proseguito su dei binari paralleli e in concerto tra loro: uno implicava l’altro. Indice anche di una generale concordanza (o sudditanza) della politica europea con quella americana.

Il nuovo orientamento ucraino, invece, rappresenta potenzialmente una grande opportunità per l’Unione Europa, a patto che essa accetti di smarcarsi dalla linea statunitense (che coincide col Patto Atlantico), in particolar modo in un momento in cui essa accentua il suo antagonismo con Mosca. Se infatti Janukovič si mostrerà coerente con le sue dichiarazioni a proposito di un’Ucraina non schierata e aprirà un dialogo convinto con l’UE, quest’ultima potrebbe finalmente porsi come mediatore credibile tra russi e americani.

* Andrea Bogi si occupa di Russia ed area post-sovietica per il sito di “Eurasia”


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