Gli effetti della crisi economica mondiale si stanno riversando sul Portogallo con particolare veemenza, provocando conseguenze gravi sia a livello finanziario sia politico, in un contesto nel quale al rischio di bancarotta, si è aggiunta una crisi politica che ha messo in pericolo la fragile stabilità del Paese più occidentale d’Europa. Dopo le dimissioni del governo socialista a seguito della bocciatura parlamentare dell’ultimo piano di risanamento economico, le elezioni anticipate di giugno hanno trasmesso un primo segnale di speranza: la creazione di un governo che può contare sulla maggioranza in Parlamento. Nel frattempo Lisbona, così come Atene e Dublino in precedenza, ha chiesto l’assistenza finanziaria dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Ora spetta al nuovo governo socialdemocratico, eletto nel corso delle consultazioni anticipate, l’arduo compito di gestire l’attuazione del programma connesso agli aiuti, di dare stabilità al Paese, di riconquistare la fiducia dei mercati internazionali, e soprattutto quella dei cittadini portoghesi.

 

Lo status dell’economia portoghese e gli aiuti

Per comprendere la gravità della situazione è necessario specificare brevemente i dati economici di maggiore rilievo, che riportano l’immagine di un’economia messa in ginocchio dalla difficile congiuntura economica mondiale e da una fragilità intrinseca del sistema, resa evidente dalla scarsa produttività, dall’elevato debito pubblico e dalla mancanza di competitività dell’economia portoghese. E in effetti, la crescita dell’economia lusitana ha conosciuto negli ultimi tre anni un rallentamento vertiginoso, tale da raggiungere quota zero nel primo trimestre del 2011, mentre il debito pubblico registrato nel 2010 era pari all’86% del PIL, dunque nettamente oltre il limite del 60% fissato dall’Unione Europea nel Patto di Stabilità e Crescita (PSC). Solo il deficit di bilancio, assestatosi lo scorso anno al 7,3% del PIL, è diminuito rispetto ai valori registrati nel 2009 (9,4%), ma rimane tuttavia superiore alle disposizioni del Patto, che prevede un tetto massimo del 3%. Particolarmente allarmante è anche la situazione del mercato del lavoro, con la disoccupazione che si aggira intorno al 10% soprattutto tra i giovani delle regioni a Nord e a Sud del Paese; mentre il declassamento del rating del Portogallo e la perdita di valore dei titoli di Stato documentano i gravi problemi finanziari, in un momento nel quale, oltretutto, i problemi di politica interna rischiano di approfondire ancor più la sfiducia delle istituzioni e dei mercati finanziari nei confronti del Portogallo. Ad aggravare una crisi già così radicata e diffusa nelle diverse maglie del sistema economico, si aggiunge infine il fatto che anche l’economia spagnola versa in condizioni critiche, circostanza preoccupante dal momento che è proprio Madrid il principale partner commerciale di Lisbona e proprio presso le banche spagnole è depositato circa un terzo dei titoli di Stato portoghesi.

L’assistenza finanziaria richiesta dal premier dimissionario dopo la bocciatura della manovra di risanamento presentata in Parlamento, coincide ora con l’ultima possibilità, a lungo rimandata, di risanare i conti pubblici e rilanciare la crescita del Paese. Gli aiuti ammontano complessivamente a 78 miliardi di Euro, una parte, pari a 26 miliardi, finanziata dal FMI, a cui il Portogallo ha chiesto aiuto già due volte in passato, e la restante quota fornita dall’Unione Europea nell’ambito del Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria, istituito nel maggio 2010 al fine di offrire assistenza agli Stati membri che subiscono gravi perturbazioni finanziarie.

Ascesa e declino di Sócrates

José Sócrates, premier uscente, governava il Portogallo da sei anni: una prima legislatura a partire dal 2005, anno in cui il Partito Socialista conquistò il 45% dei voti alle elezioni legislative; un secondo mandato, non concluso, dopo la conferma elettorale nel 2009. Le linee fondamentali dei governi guidati da Sócrates si rifacevano fondamentalmente a obiettivi quali l’equità sociale, la modernizzazione del Paese, la promozione della crescita, la riduzione dei costi della Pubblica Amministrazione, il tutto unito a un orientamento generale molto vicino a quello adottato in Spagna da Zapatero. Tra le altre, le riforme attuate da Sócrates che più rimarranno incise nella storia del Portogallo sono la legalizzazione dell’aborto nel 2007 e dei matrimoni omosessuali nel 2010: segnali di svolta molto netti per un Paese per certi versi molto conservatore e di grande tradizione cattolica.

Il piano che, respinto dal Parlamento, ha provocato le dimissioni dell’ex capo dell’esecutivo, era l’ultima versione del Programma di Stabilità e Crescita (PEC), elaborato per risollevare l’economia nazionale e varato inizialmente nel 2010 per poi essere modificato per tre volte nel corso dell’ultimo anno, fino a giungere alla sua quarta versione (PEC IV). Inizialmente sostenuta dalle forze di opposizione, la manovra era stata accolta dalle contestazioni dei sindacati, sfociate nello sciopero generale del 24 novembre 2010 e in numerose altre azioni di protesta condotte soprattutto dai lavoratori del settore dei trasporti. Con le misure di austerità contenute nel piano anticrisi, il Partito socialista aveva sperato di dimezzare il deficit di bilancio ed evitare il ricorso ai programmi di assistenza finanziaria previsti nel quadro europeo.

Nella crisi politica seguita alla bocciatura del Programma, oltre alla responsabilità dell’esecutivo socialista, in primis per non aver saputo creare consenso intorno al piano di risanamento, va considerata anche la condotta di quelli che fino a poche settimane fa erano i principali partiti di opposizione. Con questi ultimi ci si riferisce in particolare al Partito Socialdemocratico (PSD) e al Centro Democratico e Sociale – Partito Popolare (CDS-PP), che hanno votato contro il programma PEC IV, giudicandolo ingiusto nei confronti dei cittadini, dopo avere appoggiato le precedenti manovre del governo, di cui quest’ultima era solo una rielaborazione. Alcuni critici hanno attribuito tale scelta a un calcolo politico, piuttosto che a reali motivazioni connesse con la linea seguita dal governo, accusando Passos Coelho (leader del PSD) e Portas (leader del PP) di aver fatto leva su un diffuso sentimento di insoddisfazione nei confronti dell’austerity, aggiungendo alla lista delle difficoltà del Paese una crisi politica che si pone come un ulteriore, ennesimo elemento di destabilizzazione.

 

Il governo Passos Coelho

La vittoria dei partiti di destra ha portato alla costituzione di un governo di coalizione tra il PSD, che ha ottenuto il 39% dei voti, e il CDS-PP, che con l’11,7% delle preferenze conquistate, consente al governo di avere la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento monocamerale portoghese. Ed è proprio questo un primo segnale positivo in un momento nel quale più che mai la stabilità, la coesione e la condivisione degli obiettivi fondamentali sono esigenze irrinunciabili in un Paese che ha bisogno di solide intese parlamentari e di stabilire tra le forze politiche un rapporto di collaborazione costruttivo. Nel perseguire questi scopi, Passos Coelho ha già due circostanze favorevoli dalla sua parte: la maggioranza assoluta in Parlamento su cui può contare il governo e la presenza di un Presidente della Repubblica di orientamento socialdemocratico, e dunque politicamente affine all’esecutivo. Si tratta di vantaggi non di poco conto, di cui Sócrates non godeva, e che possono potenzialmente fare la differenza rispetto alla precedente gestione del governo.

Il nuovo premier, mantenendo le promesse fatte durante la campagna elettorale, ha formato un governo a ranghi ridotti: undici ministri contro i sedici della precedente amministrazione, una scelta, almeno sulla carta, coerente e adeguata al momento storico che il Portogallo sta vivendo, nel quale il taglio dei costi della politica rappresenta un segnale importante. Il Consiglio dei Ministri così costituito annovera tra i suoi membri quattro tecnici indipendenti, ai quali sono stati affidati Ministeri di assoluta rilevanza, tra cui il Ministero delle Finanze, che è stato assegnato a Vítor Gaspar, personalità di spicco nel mondo economico per essere stato consigliere della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea (BCE).

 

Il sistema politico portoghese

Con le recenti consultazioni elettorali, i due principali partiti lusitani si danno un’altra volta il cambio: infatti, sin dal 1976, anno dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Portoghese e dell’inizio della Terza Repubblica, il PS e il PSD dominano il panorama politico nazionale, avvicendandosi alla guida del governo e alla Presidenza della Repubblica. Un’alternanza favorita dal metodo elettorale vigente in Portogallo, il quale essendo proporzionale senza soglia di sbarramento assicura sì la rappresentatività, nel senso di una composizione parlamentare quanto più possibile fedele all’orientamento degli elettori. Allo stesso tempo però, il metodo adottato per tramutare i voti in seggi, denominato “metodo d’Hondt”, ha l’effetto di sovra-rappresentare i grandi partiti, conseguenza che può agevolare il delinearsi di un sistema bipolare.

Al di là delle divergenze che oggi le oppongono, le due principali formazioni politiche portoghesi di fatto condividono una comune estrazione socialdemocratica, che del resto il nome di entrambi denota palesemente, nonché un sostrato comune di valori. Fondati tra il 1973 e il 1974, nel periodo immediatamente successivo alla fine dell’Estado Novo, sia il PS sia il PSD si posero inizialmente come partiti di sinistra, per poi successivamente spostarsi su altre posizioni. Il PS ha assunto poi nel corso degli anni un orientamento di sinistra più moderato e centrista, mentre il PSD, per lo più di natura conservatrice e liberale, vide nel consolidamento dello Stato democratico a seguito della Rivoluzione dei Garofani del 25 aprile 1974, il rafforzarsi dei movimenti marxisti e comunisti e assunse un’identità di centro-destra. Le due forze politiche non si scontrano quanto ai fondamenti della politica estera del Paese e vedono entrambe nell’Unione Europea e nello sviluppo delle relazioni con i Paesi lusofoni i punti di riferimento per rafforzare il peso del Portogallo a livello internazionale.

 

Le sfide del nuovo governo

Il nuovo esecutivo giunge al potere in un contesto di austerità, vincolato al rispetto del programma stilato dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal FMI – la cosiddetta troika -, le cui rigide disposizioni il Portogallo è chiamato a rispettare nel corso dei prossimi anni, al fine di garantire il risanamento dell’economia e il regolare rimborso del debito. Il piano mira sostanzialmente a ridurre il deficit fiscale, fino a giungere al 3% del PIL nel 2013, a stimolare la crescita, stabilizzare il sistema finanziario e ridurre il debito pubblico, attraverso riforme strutturali e interventi quali la privatizzazione di alcune imprese a partecipazione statale, prima fra tutte la compagnia aerea nazionale TAP e le società elettriche EDP e REN.

Passos Coelho è quindi di fatto limitato nella propria di libertà di elaborare strategie e politiche proprie, essendo stato eletto in un momento nel quale i cittadini hanno scelto sostanzialmente quale parte dovesse gestire il programma connesso agli aiuti e dunque guidare il Portogallo attraverso un percorso per molti versi prestabilito, se non altro dal punto di vista delle riforme economiche. La sfida che Passos Coelho dovrà affrontare è proprio quella di riuscire a presentare il programma stabilito dalla troika come un sacrificio ineluttabile non soltanto per superare l’emergenza, ma anche e soprattutto, ragionando in un’ottica di lungo periodo, per modificare le strutture economiche in modo da garantire stabilità e crescita, condizioni centrali prima di tutto per il benessere della popolazione. La riuscita del piano e l’impatto che a lungo termine avrà sui cittadini, in termini di fiducia nella politica, dipenderanno dalla bravura che dimostrerà il governo nel presentare le manovre in maniera comprensibile, chiarendone le conseguenze ed evitando di strumentalizzare a fini politici una questione dalla quale dipende il futuro dell’intero Paese. Non solo, la chiarezza su questi punti avrebbe anche l’effetto di smorzare un’eventuale retorica euroscettica, che consiste nell’imputare alle politiche scelte a Bruxelles e all’introduzione dell’Euro l’origine dei problemi del Paese.

Nonostante il netto successo conseguito, Passos Coelho dovrà fare i conti anche con un fenomeno, quello dell’astensionismo elettorale, che ha raggiunto una percentuale pari al 53,48% durante le elezioni presidenziali di febbraio e del 41,09% alle legislative di giugno. In quest’ultimo caso, l’astensionismo ha superato la percentuale di voti ottenuta dal PSD, formazione più votata: una situazione per descrivere la quale alcuni giornali hanno parlato di vittoria del “partito dell’astensione”. Si tratta di dati particolarmente allarmanti, che  attestano l’approfondirsi della distanza tra rappresentanti e rappresentati, quasi a far pensare a una diffusa sfiducia nelle capacità della politica di far fronte ai problemi concreti della popolazione.

 

L’affermazione delle destre in Europa

Il risultato elettorale portoghese va analizzato inoltre anche alla luce di quanto sta avvenendo nella grande maggioranza degli Stati membri dell’Unione Europea, dove si registra una sempre più netta avanzata dei partiti di destra. A ben vedere, infatti, i Paesi ancora guidati da esecutivi di centro sinistra si contano sulle dita di una mano: Spagna, Grecia, Slovenia, Malta e Cipro. Un così netto cambio di rotta è testimoniato da quanto sta avvenendo in Ungheria, dallo scorso anno guidata da un governo di destra che ha dalla sua parte due terzi dei seggi del Parlamento nazionale, e in Finlandia, dove le recenti consultazioni hanno segnato un successo senza precedenti per il partito dei Veri Finlandesi, antieuropeista di estrema destra, che per altro è stato il maggiore ostacolo all’approvazione degli aiuti comunitari al Portogallo. In entrambi i casi, l’elettorato ha punito i governi precedenti, a dimostrazione del fatto che sia nei Paesi dell’Euro debole, come l’Ungheria, sia nei Paesi stabili dal punto di vista finanziario, come la Finlandia, prevale un atteggiamento di rifiuto nei confronti delle limitazioni stabilite da Bruxelles. Nei primi, il rifiuto si fonda sull’idea secondo la quale le imposizioni che l’Unione Europea pone in materia economica consistano in un’ingerenza nelle questioni nazionali, che impedisce un autonomo sviluppo del Paese e costringe a ricorrere ad aiuti con conseguenti sacrifici per la popolazione. Quanto invece agli Stati virtuosi, il risentimento origina allo stesso modo dagli obblighi derivanti dalla membership comunitaria, in particolare dall’onere di partecipare allo sforzo di salvataggio dei partner in difficoltà. Al tempo della crisi economica, in definitiva, i membri dell’Unione Europea sembrano riscoprire i confini nazionali: chi per difendersi da possibili contagi, chi per tentare di deviare le responsabilità della crisi verso entità esterne. Resta tuttavia il fatto che la riuscita della manovra di risanamento, come dimostra ciò che sta accadendo in Grecia, dove è stata recentemente approvata un’altra tranche di aiuti, non è affatto una certezza. Per scongiurare il rischio di seguire Atene in fondo al baratro, il nuovo governo dovrà dare prova di stabilità e coerenza, una sfida davvero difficile soprattutto dopo che in questi giorni le agenzie di rating hanno declassato ulteriormente il debito del Portogallo. Ciò a cui deve aggrapparsi Lisbona nel momento attuale è soprattutto alla fiducia nelle istituzioni nazionali ed europee e al fatto che, nonostante la crisi politica appena conclusa, i risultati elettorali abbiano  creato le condizioni oggettive per poter rispettare gli impegni presi con Fmi e Unione Europea e per poter dare un nuovo slancio a un Paese che sembra quasi essersi rassegnato al suo destino.

 

* Martina Franco è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)

 


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