La rivoluzione iraniana, la guerra Iran-Iraq, l’elezione di Giovanni Paolo II e l’invasione sovietica dell’Afghanistan

Il triennio 1978-1980 fu ricco di avvenimenti tra di loro interconnessi che avrebbero impresso un nuovo corso alla storia dell’Eurasia e del mondo intero. L’elezione di papa Giovanni Paolo II fu decisiva per il crollo del regime comunista polacco, l’invasione dell’Afghanistan segnerà il declino dell’URSS come potenza militare e l’ascesa del cosiddetto terrorismo islamico internazionale. Le importanti riforme economiche promosse in Cina, negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna a partire dal 1978 daranno il via al processo di globalizzazione. La pace tra l’Egitto ed Israele, la rivoluzione iraniana e lo scoppio del conflitto Iran-Iraq, muteranno gli assetti geopolitici del Vicino Oriente.

Il 19 agosto 1978 un attentato ad un cinema nella città di Abadan, nell’Iran sud-occidentale, provocò diverse centinaia di morti. La strage attribuita alla polizia segreta dello Scià, la SAVAK, suscitò un’ondata di proteste in tutto il paese. L’8 settembre a Teheran una grande manifestazione popolare fu repressa dall’esercito causando anche in questo caso numerose vittime. Quella strage segnò l’inizio della Rivoluzione Iraniana destinata a mutare il volto del paese e dell’intero Vicino Oriente.

L’Iran di fine anni settanta era una monarchia assoluta. Lo Scià Mohammad Reza Pahlavi nel 1963 avviò un vasto programma di riforme economiche e sociali tese a modernizzare la società ed a trasformare il paese in una potenza industriale. Passate alla storia col nome di Rivoluzione Bianca, queste riforme gli valsero l’ostilità del clero sciita timoroso di perdere i suoi privilegi e la sua influenza.

Le riforme non furono accompagnate da un’adeguata apertura democratica; al contrario si assistette ad una involuzione autoritaria del regime. Nel 1975 furono dichiarati illegali tutti i partiti politici. I movimenti clandestini di opposizione furono duramente perseguitati dalla temutissima  SAVAK.

Verso la fine degli anni settanta la tensione sociale nel paese divenne esplosiva. Il processo di industrializzazione non aveva prodotto i risultati auspicati ma al contrario enormi squilibri sociali. I proventi petroliferi, volano per lo sviluppo economico, avevano arricchito solo una ristretta cerchia legata alla corte. Le città erano cresciute in maniera incontrollata per il massiccio afflusso di contadini dalle campagne in cerca di migliori opportunità di lavoro e che vivevano il disagio dello sradicamento.

Sul piano internazionale l’Iran era il principale alleato degli Stati Uniti nel Vicino Oriente. Teheran svolgeva un importante compito di contenimento della penetrazione sovietica nel Golfo. La storica inimicizia con i vicini arabi aveva spinto il paese ad avvicinarsi ad Israele. Ogni anno enormi somme di denaro venivano spese per l’acquisto di armamenti dall’Occidente. Agli anni settanta risale anche l’ambizioso programma nucleare iraniano con il sostegno degli USA e delle potenze europee (Francia, Germania, Italia).

Nella sua fase iniziale la rivoluzione non ebbe quel carattere religioso che andrà assumendo in un secondo momento. Le forze laiche, liberali e di sinistra, sostenute da una ristretta cerchia di intellettuali e studenti dovettero cedere il posto al clero sciita molto più organizzato e capace di mobilitare ampi strati sociali, soprattutto i ceti di più recente urbanizzazione ed i bazari i ricchi mercanti dei bazar. Questo “clero combattente” che occupava i gradini più bassi della gerarchia sciita assunse il controllo della rivolta. La maggioranza dei grandi chierici (ayatollah e grandi ayatollah) della città santa di Qom, centro dello sciismo Duodecimano iraniano, non presero parte alla rivoluzione assumendo una posizione defilata. Col tempo alcuni dei più autorevoli ayatollah assumeranno posizioni sempre più critiche, contestando la stessa Repubblica Islamica e le sue istituzioni. Questo elemento costituirà un fattore di intrinseca debolezza del regime.

È in questo momento che entra in scena la figura dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. In esilio dal 1963, per aver criticato le riforme dallo scià, egli divenne il simbolo intorno al quale si coagulò l’intera opposizione al regime. Lo scià nel disperato tentativo di placare la rivolta nominò primo ministro un noto esponente dell’opposizione liberale più volte arrestato, Shapur Bakhtiar, il quale invitò lo Scià ad allontanarsi per qualche tempo dal paese. Il 17 gennaio 1979 Reza Pahlavi lasciava l’Iran senza farvi più ritorno. Il primo febbraio l’ayatollah Khomeini, dopo un lungo esilio, rientrava in patria accolto da una folla oceanica. La rivoluzione era ormai compiuta; il 30 marzo un referendum sancì la nascita della Repubblica Islamica dell’Iran. Da quel momento la storia del Vicino Oriente non sarebbe stata più la stessa. Gli assetti geopolitici dell’intera area furono travolti.

Gli USA persero il pilastro su cui si basava la loro politica regionale. Ma con la pace israelo-egiziana, firmata nello stesso mese di marzo, l’Egitto andò a sostituire l’Iran diventando il fulcro della nuova politica regionale statunitense per i successivi tre decenni.

I più ostili alla nascita della Repubblica Islamica furono i suoi vicini, in particolare i paesi arabi. Tra gli obiettivi della Repubblica vi era la tutela degli sciiti perseguitati e l’esportazione della rivoluzione in tutto il mondo arabo-islamico. Questi due punti suscitarono l’inquietudine delle monarchie del Golfo, soprattutto in quelle in cui abitavano forti minoranze sciite: Kuwait, Bahrain e la stessa Arabia Saudita, ma anche  Libano e Yemen. I timori di Riyadh erano aggravati dal fatto che la minoranza sciita risiedeva nella parte orientale del paese dove si concentrava il grosso della produzione petrolifera.

Ma La nascita della Repubblica Islamica avrà conseguenze anche nei rapporti con Turchia, Pakistan ed Iraq. Le riforme promosse dalla dinastia Pahlavi avevano sempre avuto come modello di riferimento quelle di Atatürk. Con la nascita della Repubblica Islamica la rivalità turco-iraniana assumerà una dimensione ideologica. Ankara percepiva la Repubblica Islamica come l’antitesi del proprio modello di stato e società. Teheran viceversa accusava la Turchia kemalista di aver “abiurato alla propria identità islamica.”

Per oltre un ventennio i rapporti tra i due vicini saranno caratterizzati da diffidenza ed ostilità reciproca. Solo con l’avvento in Turchia del partito islamico moderato dell’AKP sarebbe iniziata una nuova fase delle relazioni all’insegna del dialogo politico e della cooperazione economica.

In Pakistan la presenza di una nutrita minoranza sciita (il venti per cento circa della popolazione) duramente discriminata non poteva certo restare indifferente alla teocrazia sciita iraniana. Ma è in Afghanistan, a partire dall’invasione sovietica, che sarebbe iniziato lo scontro tra Iran e Pakistan. Teheran avrebbe sostenuto la minoranza sciita degli Hazara, Islamabad l’etnia maggioritaria dei Pashtun. Non è un caso che il momento più critico nelle relazioni irano-pakistane si sia avuto al tempo del regime dei Talebani sostenuto da Islamabad. Di etnia pashtun, gli studenti coranici attuarono massicce repressioni contro la minoranza sciita tanto da far paventare a Teheran la minaccia di un’invasione militare. I tentativi iraniani di estendere la propria influenza sulle aree dell’Afghanistan abitate dagli sciiti saranno una delle cause della cronica instabilità afghana.

Ma è con l’Iraq che le tensioni sfociarono in un sanguinoso conflitto, iniziato nel settembre del 1980 e conclusosi nell’agosto 1988, per lo sfinimento di entrambe le parti.

Diverse cause furono all’origine della guerra. Le rivendicazioni territoriali, soprattutto nella zona dello Shatt al-Arab, erano sempre state motivo di forte tensione.

Lo stesso ayatollah Khomeini, che per molti anni era stato in esilio a Najaf, la principale città santa dello Sciismo, non faceva mistero di voler esportare la rivoluzione in Iraq dove tra il sessanta ed il sessantacinque percento della popolazione era di religione sciita, concentrata per lo più nella parte meridionale del paese là dove vi era il grosso della produzione petrolifera irachena. In Iraq vi erano i più importanti santuari dello Sciismo. Esportare la rivoluzione nell’antica Mesopotamia avrebbe permesso alla teocrazia iraniana di controllare i principali luoghi di culto e le città sante sciite. Mediante il controllo di Najaf sarebbe stato possibile tenere sotto osservazione le grandi scuole teologiche della città (assieme a quelle di Qom le più prestigiose del mondo sciita) che non vedevano di buon occhio il principio del Velayat e faqih alla base della Repubblica Islamica.

Intimorito dai continui proclami di Khomeini di voler esportare la rivoluzione in Iraq, spinto e mal consigliato dalle monarchie del Golfo e dagli USA, Saddam Hussein scatenò l’offensiva militare sicuro di poter conseguire una rapida vittoria approfittando dello stato debolezza interna in cui versava l’Iran dopo la rivoluzione.

Ma già dopo le prime fasi fu evidente che nessuno dei contendenti era in grado poter conseguire una vittoria in tempi brevi. La guerra andò sempre più assumendo un carattere di logoramento con scontri armati che si concludevano con sanguinosi corpo a corpo tra i due eserciti.

Invece che indebolirlo la guerra finì col rafforzare il regime teocratico iraniano. I migliaia di giovani, spesso poco più che adolescenti, inviati al fronte ad immolarsi per la rivoluzione rafforzarono il potere di Khomeini. Lo stesso regime, nonostante i lutti e i danni materiali, era intenzionato a prolungare la guerra il più possibile in modo da far leva sul patriottismo degli iraniani ed avere mano libera nell’eliminare l’opposizione interna.

Con la nascita della Repubblica l’Iran uscì dall’orbita di influenza statunitense. La rottura definitiva delle relazioni tra i due paesi sarà provocata dalla crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana. Il 4 novembre 1979 nel corso di una manifestazione contro gli USA alcune centinaia di studenti penetrarono nell’ambasciata statunitense prendendo in ostaggio i diplomatici; falliti i tentativi di ottenere il rilascio, l’amministrazione Carter tentò di liberare gli ostaggi con un’operazione militare denominata Eagle Claw che si rivelò un fallimento totale tanto da costare allo stesso Carter la rielezione alla presidenza. La vicenda finì per rafforzare la teocrazia. Gli ostaggi furono liberati il 20 gennaio 1981 nello stesso giorno dell’insediamento del repubblicano Ronald Reagan.

Uno dei primi passi in politica estera della Repubblica Islamica fu la rottura delle relazioni con Israele. La  perdita dell’Iran, che significava non poter più contare su un fondamentale alleato regionale in funzione anti araba, spinse Tel Aviv ad intensificare le relazioni con la Turchia.

Per la teocrazia iraniana l’URSS ed il comunismo erano da avversare nella maniera più totale poiché propugnavano l’eliminazione della religione non solo dalla sfera politica e sociale ma addirittura dall’animo umano. L’Unione Sovietica vide notevolmente ridursi i suoi spazi di manovra nel Vicino Oriente. Oltre a dover fare i conti con la più assoluta opposizione della teocrazia iraniana all’ideologia comunista, la pace israelo-egiziana (marzo 1979) decretò l’uscita del Cairo dall’orbita di influenza sovietica.

Teheran appoggiò i mujaheddin afghani, in funzione antisovietica, Inoltre iniziò ad allacciare contatti con i nascenti movimenti islamici in Asia Centrale, dove vi erano i tagiki popolazione iranica di religione sunnita e nel Caucaso dove vi erano gli Azeri popolazione turcofona e di fede sciita.

Il conflitto Iran-Iraq fu artificiosamente prolungato con esiti che si sarebbero rivelati devastanti per l’intera regione e forieri di nuove guerre e tensioni. Gli USA, l’URSS, Israele e le monarchie del Golfo si impegnarono a far si che la guerra si prolungasse il più a lungo possibile. Gli USA ed i suoi alleati europei così come l’URSS ed i paesi del Patto di Varsavia trassero enormi guadagni dalla vendita di armi ad entrambi i contendenti. Mosca, inoltre, voleva distrarre l’Iran dall’Afghanistan. Da parte sua Israele temeva (come poi avvenne) che l’Iran potesse andare in soccorso degli sciiti del Libano meridionale. La nascita di Hezbollah sarebbe stata impossibile senza l’aiuto di Teheran.

Tutti erano intenzionati, in particolare le monarchie del Golfo, a far sì che sia il regime bahatista di Saddam Hussein che la teocrazia sciita di Khomeini si indebolissero il più possibile poiché entrambe ambivano ad affermarsi come potenza egemone nel Vicino Oriente. Né gli USA né l’URSS intendevano permettere che si affermasse una potenza nell’area del Golfo, dove si concentravano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Il rischio di finire sotto Saddam Hussein o peggio sotto la teocrazia sciita di Khomeini, non rientrava certo tra le massime aspirazioni delle monarchie del Golfo.

La rivoluzione iraniana ed il conflitto Iran-Iraq apriranno una nuova stagione di instabilità nel Golfo Persico i cui effetti ad oltre trent’anni di distanza sono ancora visibili.

Il 16 ottobre 1978 veniva eletto papa con il nome di Giovanni Paolo II il cardinale Karol Wojtyla arcivescovo di Cracovia, il primo pontefice non italiano dopo oltre 450 anni ed il primo slavo a salire al soglio di Pietro. Ciò che rendeva ancora più straordinaria l’elezione di questo pontefice era il fatto che egli provenisse da un paese comunista del Patto di Varsavia.

La Polonia di fine anni settanta si configurava come l’anello debole del blocco comunista. L’identificazione della Nazione con la fede Cattolica, risultato dei travagliati eventi storici dei secoli precedenti, davano alla Chiesa polacca una indiscussa autorità morale che la rendeva la principale voce di opposizione al regime comunista.

L’avversione all’ideologia comunista ed all’Unione Sovietica (percepita dai polacchi come l’erede di quella Russia zarista che nel passato aveva tentato di imporre il Cristianesimo Ortodosso e che adesso tentava di imporre “il comunismo ateo,”  sempre con l’intento di cancellare l’identità Cattolica del paese) aveva spinto i polacchi ad identificare la Chiesa Cattolica quale baluardo contro l’oppressione comunista.

L’elezione del cardinale Karol Wojtyla ebbe un impatto enorme sui polacchi in termini di orgoglio nazionale e di conferma della loro fede. Sembrava essersi avverato ciò che il poeta e scrittore romantico Adam Mickiewicz (1798-1855) aveva predetto in una sua famosa opera “Dziady” (gli Avi) ossia di una Polonia dotata di una funzione salvifica, che sarebbe stata costretta a riscattare col suo sacrificio la propria libertà e quella dei popoli europei.

Attraverso il messaggio di Cristo il pontefice intendeva rivolgersi non solo ai cattolici polacchi ma a tutti gli uomini credenti e non oppressi dai “regimi del socialismo reale”: la fede come occasione di riscatto per l’individuo e la società da una condizione di oppressione. Era questo il  messaggio che papa Giovanni Paolo II rivolgeva ai suoi compatrioti ed a tutti i popoli dell’Europa dell’est.

La grande azione diplomatico-religiosa del pontefice ricevette l’appoggio degli Stati Uniti. L’amministrazione Reagan riteneva che la religione potesse essere un valido strumento nella lotta contro il comunismo. Questa convinzione spiega il perché del sostegno offerto ai mujaheddin ed alle organizzazioni islamiche impegnate a lottare contro i sovietici in Afghanistan.

Fu soprattutto in Polonia che l’azione di Giovanni Paolo II darà i suoi maggiori frutti. Nel 1980, in seguito ad imponenti scioperi nei cantieri navali di Danzica, nacque il sindacato cattolico di Solidarność (solidarietà) guidato da Lech Walesa. Suo obiettivo era lo smantellamento del regime del partito unico al governo. Il sostegno del papa fu essenziale per l’azione politica di Solidarność. Quando in Polonia durante un suo discorso il papa pronunciò la parola solidarietà un enorme boato si alzò tra la folla esultante. L’appoggio del papa era evidente e le autorità polacche dovevano tenerne conto nel loro tentativo di repressione di Solidarność.

Il sostegno del pontefice dall’esterno e l’azione di Solidarność dall’interno finirono per stringere in una tenaglia il regime comunista polacco.

Nel 1989 era ormai chiaro che il controllo sui paesi satelliti da parte dell’Unione Sovietica stava per venir meno. La crisi economica, nonostante i tardivi tentativi di riforma avviati dal Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) Mikhail Gorbaciov con la  Perestrojka, ed il riemergere delle identità etnico-religiose a lungo represse, stavano minando gravemente il colosso sovietico dall’interno. Inoltre la sconfitta subita in Afghanistan aveva inferto un colpo durissimo al prestigio politico e militare del paese.

Con l’abbandono della Dottrina Breznev l’URSS rinunciava al diritto di ingerenza negli affari interni dei paesi alleati membri del Patto di Varsavia. La tempesta che nel 1989 travolse e spazzò via i regimi comunisti dal Baltico al Mar Nero ebbe inizio proprio in Polonia dove era attivo il più forte movimento di opposizione ad un regime comunista dell’Europa dell’est. Nuovamente legalizzata, Solidarność nel mese di giugno partecipò alle elezioni parlamentari ottenendo una vittoria schiacciante. Nel mese di settembre in Polonia si insediò il primo governo non comunista dell’Europa orientale.

La crepa era stata aperta; in estate l’Ungheria aprì le frontiere verso Ovest provocando un esodo di migliaia di tedeschi che dalla DDR cercavano di raggiungere la Germania Ovest. Le proteste scoppiate in diverse città portarono nel mese di ottobre alle dimissione di Erich Honecker e nel volgere di pochissimi giorni alla caduta del Muro di Berlino (9 novembre). Il giorno dopo la caduta del Muro, in Bulgaria Todor Zivkov, il più fedele alleato dell’URSS, fu deposto dalla presidenza del Partito Comunista Bulgaro.

In quello stesso mese di novembre la “Rivoluzione di Velluto” in Cecoslovacchia condusse al crollo del regime comunista. Agli inizi di dicembre fu eletto il primo governo non comunista. I due storici oppositori al regime Alexander Dubcek e Vaclav Havel furono nominati rispettivamente Presidente del Parlamento e capo di stato.

L’atto finale, il più tragico, del crollo del comunismo nell’Europa dell’est si ebbe in Romania con la morte violenta del Segretario Generale del Partito Comunista Rumeno Nicolae Ceausescu. Tra il 1990-1991 anche in Albania, Jugoslavia e nella stessa Unione Sovietica i regimi comunisti giunsero al termine della loro parabola storica. Ma mentre in Albania la fine del comunismo non provocò grandi violenze, in Jugoslavia e in Urss la fine del regime provocò la loro disintegrazione politica e lo scoppio di sanguinosi conflitti.

Negli anni ottanta l’Afghanistan divenne uno dei più importanti teatri del confronto strategico tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Il 24 dicembre 1979 con l’ingresso dell’Armata Rossa in territorio afghano, iniziava un conflitto durato nove anni ed il cui esito sarebbe stato drammatico per l’Unione Sovietica.

La guerra in Afghanistan, infatti, accelerò il collasso dell’URSS. I gravissimi danni che la sconfitta causò alla sua economia ed al suo prestigio militare comportarono un disimpegno in politica estera concretizzatosi con l’abbandono della Dottrina Breznev, presupposto per il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale.

Negli ultimi tre decenni l’Afghanistan è diventato un  “buco nero geopolitico” che ha finito per trascinare nella sua instabilità i paesi limitrofi, in primis il Pakistan, ma anche l’intero pianeta.

In realtà i guai a Kabul iniziarono molto prima dell’invasione sovietica, precisamente nel 1973 con la destituzione del re Mohammed Zahir Shah ad opera di suo cugino Mohammed Daud Khan che proclamò la Repubblica.

Nel 1978 i comunisti del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, guidato da Nur Mohammed Taraki, attuarono un colpo di stato e proclamarono la Repubblica Democratica dell’Afghanistan. Taraki promosse una serie di ambiziose riforme volte a modernizzare una società arcaica in cui l’Islam ed i vincoli etnico-tribali condizionavano i singoli e l’intera società. La reazione del clero islamico e dei ceti sociali danneggiati dalle riforme fu di assoluta intransigenza. A Taraki, morto in circostanze misteriose, successe Hafizullah Amin. Ma la nascente insurrezione  costrinse i sovietici, che in un primo tempo avevano chiesto l’intervento dell’ONU, ad inviare proprie truppe.

Gli Stati Uniti, temendo che il paese potesse ricadere nell’orbita sovietica, appoggiarono l’opposizione islamica dei mujaheddin. Anche in questo caso, come stava accadendo in Polonia col Cattolicesimo, l’amministrazione repubblicana di Ronald Reagan ritenne di poter arruolare l’Islam nella sua “crociata” contro il comunismo ateo. Ma se questa scelta si rivelò vincente per ricacciare i sovietici dall’Afghanistan, nel lungo periodo si sarebbe rivelata foriera di guai per l’Afghanistan, per i suoi vicini, per il mondo islamico e per l’Occidente. Sta di fatto che l’utilizzo della religione come strumento di lotta al comunismo a partire dal 1978-1980 avrebbe inferto un colpo micidiale all’Unione Sovietica. Nell’Asia Centrale e nel Caucaso sovietico, la rinascita dell’Islam contribuì alla riscoperta di quelle identità etniche che per lungo tempo erano state represse dal regime. Il riemergere dei nazionalismi etnici, che trovavano alimento anche nella religione, accelererà il crollo dell’URSS.

In Afghanistan i combattenti per la Jihad ricevettero le armi dagli USA (Operazione Cyclone), l’addestramento dai servizi segreti e dall’esercito pakistano ed un robusto indottrinamento religioso dagli iman Wahabiti che in massa affluirono dall’Arabia Saudita e dalle altre “petromonarchie” del Golfo. Decine di migliaia di volontari musulmani giunsero da ogni parte del mondo per ricacciare l’infedele ateo dalla “dar al-Islam.” Fu sulle montagne afghane che i fondamentalisti islamici impararono ad utilizzare armi sofisticate, le tecniche della guerriglia e  strinsero tra di loro rapporti che gettarono le basi di un network islamico planetario.

Al termine del conflitto questi combattenti, addestrati ed indottrinati, ritornarono nei loro paesi di origine dove iniziarono a predicare l’Islam Wahabita e ad opporsi ai “governi empi” dei loro paesi alleati degli Stati Uniti (lo stesso paese che li aveva appoggiati). Molti di questi combattenti gireranno il mondo per difendere la causa islamica: nei Balcani, in Algeria, nel Caucaso, in Asia Centrale. L’Afghanistan degli anni ottanta divenne il terreno di coltura di quel fondamentalismo islamico che solo negli anni novanta avrebbe rivelato tutta la sua potenziale pericolosità. Come un’infezione, esso si propagherà dall’Hindu Kush al resto del mondo islamico con esiti drammatici. Fu tra queste impervie montagne che Al-Qaida mosse i suoi primi passi e trovò rifugio in seguito.

Il primo paese a farne le spese fu il Pakistan. L’espressione geopolitica AFPAK, coniata dall’amministrazione Obama, intende sottolineare come Afghanistan e Pakistan siano due realtà inscindibili nella lotta ai Talebani ed al terrorismo islamico. La stabilizzazione dell’Afghanistan passa mediante una contemporanea stabilizzazione del Pakistan. Ma in realtà è già dal 1979 che si potrebbe parlare di AFPAK da quando il “paese dei puri” divenne la retrovia logistica dei mujaheddin afghani.

Islamabad ha sempre nutrito mire egemoniche sul vicino. Del resto nell’originario progetto di Mohammad Ali Jinnah l’Afghanistan doveva rientrare all’interno del Pakistan. Ma la guerra in Afghanistan avrà conseguenze destabilizzanti per Islamabad. Oltre a svolgere la funzione di retrovia logistica e ad accogliere milioni di rifugiati afghani, con l’ascesa al potere di Muhammad Ziaul Haq (16 dicembre 1978) il Pakistan subirà un processo di islamizzazione, particolarmente evidente nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa (ex North west Frontier Province) al confine con l’Afghanistan e abitata dai Pashtun, la più numerosa etnia afghana da cui provenivano il grosso dei mujaheddin. Soprattutto in questa provincia, la crescita esponenziale delle madrasse sarà fonte di futuri guai. È in queste scuole islamiche che furono indottrinati i mujaheddin; successivamente qui riceveranno la loro istruzione anche i Talebani prima di essere spediti dall’ISI, servizi segreti pakistani, a prendere il controllo dell’ Afghanistan. In queste scuole si è formata quella generazione di Talebani pakistani che punta a trasformare il paese in una repubblica islamica.

Alla luce degli eventi attuali l’Afghanistan ha un’importante lezione storica da offrire. Come era stato per l’imperialismo britannico alla fine del XIX secolo, anche per i sovietici l’Afghanistan segnò l’inizio della loro fine come super potenza. Nell’ultimo secolo e mezzo le montagne dell’Hindu Kush si sono rivelate una “fossa per gli imperi e le loro ideologie.” Lo è stato per britannici e sovietici, ora rischia di esserlo anche per gli statunitensi.

L’imperialismo britannico ricevette un durissimo colpo tra le montagne afghane, la potenza militare sovietica e la stessa ideologia marxista-lieninista ne uscirono malconcie. Gli USA invadendo l’Afghanistan con il proposito di stabilirvi una forte presenza militare hanno ripetuto l’errore commesso a loro tempo da Gran Bretagna ed Unione Sovietica: ossia ritenere di poter controllare queste terre riplasmando a propria immagine e somiglianza strutture socio-economiche impermeabili a qualsiasi influenza esterna ed alla stessa idea di modernità così come viene intesa in Occidente.


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