Oggi siamo spettatori inermi al declino dell’UE. Inermi perché se da un lato la sua costituzione è avvenuta senza una programmazione ponderata sui meccanismi politico-economici necessari ad una sua efficienza longeva, dall’altro siamo noi stessi cittadini ad aver perso quel minimo di sovranità che ci permetteva di essere partecipi alle decisioni macroeconomiche che ci coinvolgono direttamente. La classe politica degli ultimi decenni si è resa partecipe di una destrutturazione istituzionale che, invece di migliorare l’efficienza dell’azienda Stato, ne ha consentito lo smantellamento per una più appetibile ricollocazione nel mercato globale. La Storia ci insegna che l’eccessiva liberalizzazione porta un flusso considerevole di capitali in entrata nel breve periodo – allettanti per le casse statali e di pochi privati – ma che nel medio-lungo periodo si tramuta in un ancor più ingente flusso di capitali in uscita. I risultati sono ben evidenti oggi più che mai: bilancio pubblico in disavanzo, insostenibilità dei parametri economici europei, bilancia dei pagamenti che evidenza un’assenza di autosufficienza produttiva interna, mercato del lavoro che regredisce e di conseguenza una popolazione che invecchia, giustificatamente incapace di creare nuclei familiari nell’incertezza economica.

Come tutto ciò è stato possibile? Semplice: la liberalizzazione dei mercati nazionali per un più ampio mercato europeo e susseguente livello globale, ha rivelato un gap non indifferente con altre realtà produttive. Il sud d’Italia e più in generale il sud Europa ha subito un ridimensionamento del settore primario dell’economia – il quale rappresentava il perno della struttura socio-economica in queste aree – che si è tradotto in una progressiva marginalizzazione di queste aree  in favore delle regioni orientate al settore terziario. E’ in tal modo che, progressivamente, il cuore industriale si è spostato verso l’area del centro Europa – semplificabile con l’area geografica denominata “banana europea” che va da Milano a Londra.

Eccoci al primo step: il centro-nord Europa diventa il cuore dell’economia europea trasformando il sud Europa in una passiva area dalla quale trarre manodopera e materie prime. Conseguenza di ciò è una marginalizzazione progressiva delle aree del Sud ed un incremento del gap economico-sociale tra queste e il resto d’Europa che, a sua volta, rende necessaria una politica assistenzialista inutile ai fini di uno sviluppo economico sostenibile nel tempo.

Ma gli effetti del liberismo del mercato globale non si fermano qui. Al primo step fa seguito la deterritorializzazione del sistema produttivo. La Globalizzazione porta con se la separazione tra territorio ed azienda, consentendo lo sviluppo di multinazionali procacciatrici di territori favorevoli ad una produzione a più basso costo. Difatti il grosso delle aziende italiane e non, è in continuo tour per il mondo alla ricerca di Stati e Regioni compiacenti che per accaparrarsi un flusso di capitale nel breve periodo, offrono una “non tutela” dei lavoratori e forti agevolazioni all’istallazione industriale straniera.

Si delinea così il secondo step: impoverimento produttivo del Vecchio Continente e progressiva riduzione delle opportunità lavorative. Ciò avviene a causa, si fa per dire, di una legislazione ancora propensa a dare un minimo di tutela al  cittadino ed ai lavoratori, ponendosi, di fatto, quale ostacolo alle potenzialità di profitto ricavabile da una più iniqua contrattazione lavorativa. Inoltre “la colpa” delle istituzioni europee è di ostinarsi – anche se con sempre meno vigore – a preservare le aziende nazionali a discapito del subentro di investitori stranieri.

Sin qui si è assistito per lo più ad una “mungitura” del sud in favore del nord – sia in termini europei che in termini globali – ma la Globalizzazione si è spinta ben oltre. La finanza occidentale ha permesso, grazie ad una forte destrutturazione istituzionale dell’Occidente, un’energica “retata” speculativa da parte delle multinazionali finanziarie volta all’accrescimento esponenziale del proprio profitto. Il tutto palesatosi dal 2008 ad oggi, ma fondamentalmente ben programmato nei decenni precedenti. Gli effetti sono stati devastanti e non vedono ancora una fine.

Siamo al terzo step tutt’oggi in corso: destabilizzazione dell’UE che vede vacillare la sua unità politica e ancor prima monetaria; ridimensionamento dell’egemonia statunitense nello scacchiere geopolitico e geoeconomico; affanno economico occidentale nei confronti di altre macro-aree in forte crescita*.

Ora, come per il verificarsi di ogni step descritto, ci si ritrova ad analizzare l’evoluzione socio-economica per trovare l’antidoto o per lo meno la spiegazione teorica all’accaduto. I sostenitori del Villaggio Globale, della liberalizzazione dei mercati e della libera concorrenza possono ben affermare che si tratta di una crisi sistematica, naturale nell’attuale economia e volta a stabilizzare la stessa. Fattore ciclico quindi e per nulla preoccupante. Ma non è difficile capire che si è ben oltre la ciclicità e che siamo dinanzi al palesarsi dell’insostenibilità del sistema sul quale abbiamo fondato il nostro credo socio-economico. La stessa Unione Monetaria Europea, invece di migliorare il nostro mercato interno, ci ha resi inermi all’aggressione finanziaria subita. Ad oggi la stessa Germania – cuore economico ed istituzionale del modello eurocentrico – inizia a mostrare tracce di imperfezione … la finanza globale non sembra risparmiare nessuno ed allo stesso modo la “presunzione” francese si defila sempre più a causa del palesarsi di un debito pubblico poco confortante in un ottica di sostenibilità finanziaria.

Purtroppo l’Unione Europea ha attuato un progressivo disarmo delle sovranità nazionali e delle politiche economiche e monetarie utili, in passato, alle singole Nazioni per affrontare i momenti critici  dell’economia: politica monetaria, controllo del sistema creditizio, possibilità di accrescere o ridurre le barriere in entrata per difendere il sistema produttivo interno.

Per rendere più esplicito il concetto esposto, possiamo paragonare l’attuale Unione Europea ad un uomo senza globuli bianchi nelle vene e con un virus letale (la finanza) in circolo. L’antido oggi offertoci dallo stesso sistema finanziario è rappresentato dalle condizionalità dei vari organi internazionali – FMI, BM ai quali potrebbe aggiungersi un, oggi ancora teorico, Fondo Monetario Europeo (FME) – che nel concreto offrono flussi di capitale in cambio di una più spinta delegittimazione dell’autonomia Nazionale. Tutto ciò chiaramente, nel lungo periodo, tende a debellare una qualsiasi forma di resistenza alla speculazione finanziaria.

E cosa avviene nel resto del Mondo? O meglio cosa avviene nel Non-Occidente?

La finanza occidentale punta, inesorabilmente, a cercare nuovi mercati e nuove aree dalle quali ricavare nuovi profitti. E’ in quest’ottica che possono essere rivisitati i meccanismi socio-politici che hanno interessato le Rivolte Arabe e l’instabilità che caratterizza il Vicino Oriente. Si può ben credere che il cambiamento in atto nella sponda sud del Mediterraneo sia un tentativo celato da parte dell’Occidente, di rendere tale area più propensa all’interscambio (asimmetrico) con l’Occidente. Le dittature e gli estremismi ormai logori e poco al passo coi tempi “democratici” di oggi – da Saddam ad Ahmadinejad , passando per Gheddafi, Mubarak ed Assad – necessitano di un restyling  politico e quindi un favoritismo al cambiamento da parte di USA ed Europa non può che  riproporre gli stessi attori ad un ruolo di principali partner per il dopo Primavera Araba. Ciò renderebbe possibile il rinvigorimento delle casse occidentali con il mino sforzo perché se in alcuni casi è stato reso necessario l’intervento bellico, in altri si tende ad avere un atteggiamento più defilato di mera diplomazia – ad esempio sulla questione iraniana si punta a legittimare le preoccupazioni israeliane ed, in un certo qual modo, giustificare la possibile reazione militare di quest’ultimo (Israele), o ancora, si condanna l’atteggiamento del governo siriano legittimando la pressione popolare al cambiamento.

L’Africa Sub-Shariana paradossalmente è geopoliticamente “fortunata” per una questione di non prossimità alle aree occidentali. In concreto il continente africano è per lo più abbandonato al suo destino di ex-colonia ipersfruttata, ed oggi alle prese con forti conflitti interni scaturenti da una fortissima asimmetria nella ripartizione di ricchezze, un accentuata etnizzazione tribale delle micro-aree regionali ed una progettualità economico-istituzionale inesistente.

Il Sud America, invece, è l’area geografica che vive una vera e propria primavera. Il progressivo distacco delle singole realtà nazionali dal cordone geopolitico che le lega al Nord America, sta dando la possibilità di intravedere un reale sviluppo sostenibile di queste economie.  Ovviamente siamo solo agli inizi di un cammino economico che ha bisogno di rafforzarsi affrontando quelle che rappresentano le principali criticità dell’area: abbattimento della struttura latifondiaria che penalizza il potenziale geoeconomico dell’area; una più equa redistribuzione delle ricchezze per una maggiore unità popolare fondamentale nell’ottenimento di una stabilità economica di lungo periodo; una diversificazione produttiva che permetta la sostenibilità longeva dello sviluppo. Una marcia in più allo sviluppo sudamericano, la può dare sicuramente l’accentuarsi della consapevolezza di unione ed identità regionale che si sta manifestando in quest’area – basti osservare l’allineamento progressivo dei vari Stati Latinoamericani alla rivendicazione della sovranità Argentina sulle Falkland.

L’Est Europa e l’Asia hanno, invece, sempre dimostrato una forte resistenza al proliferare del sistema finanziario occidentale. Emblematica, in tal senso, è l’affermazione della Cina. Storicamente fondata su forti barriere al mercato esterno, la Cina ha implementato l’industria nazionale generando ingenti quantità di risparmio. Oggi, questo risparmio si è tramutato in considerevoli capitali da riversare sul mercato globale rappresentando il carburante del bum economico del Paese Asiatico. Di fatti, un basso profilo negli attriti internazionali – su tutti il conflitto israelo-palestinese – ha permesso a Pechino di instaurare rapporti economici con tutti, dai paesi filo-americani a quelli di matrice anti-atlantica. Strategia che ha reso la Cina il principale partner commerciale dell’Iran e allo stesso tempo partecipe “salvatrice” delle casse pubbliche d’occidente nell’attuale crisi – questo con l’acquisizione dei titoli di stato di USA e di mezza Europa. La strategia adottata da Pechino non sembra affatto dettata da un’idea di speculazione di breve periodo, bensì da una meticolosa programmazione volta a legittimare nel medio-lungo termine una posizione di vertice nelle relazioni geoeconomiche dell’intero Pianeta a discapito dell’attuale, se pur precaria, egemonia statunitense.

In conclusione, più che dinanzi ad uno scontro ideologico, ci ritroviamo al cospetto di un confronto tra modelli economici differenti che interagiscono al fine di prevalere l’uno su l’altro. Allo stato attuale La Globalizzazione è in forte crisi – o forse al suo apice se guardato dal punto di vista del successo della speculazione finanziaria – mentre l’alternativa Filo-Cinese o quella Latinoamericana sembrano dimostrare prospettive di maggiore stabilità ed equilibrio oltre a ridisegnare lo scacchiere geoeconomico globale. Fatto sta che l’Europa risulta chiusa nella morsa di questi modelli economici: vittima passiva dell’economia finanziaria alla quale è legata e vittima inerme dell’investimento asiatico che in concreto ne acquisisce progressivamente la proprietà economica.

Allo stato attuale sembrano quattro gli scenari che si prospettano dinanzi al Vecchio Continente:

–         Le istituzioni finanziarie rimettono in piedi il precario sistema Europa al fine di proseguire la produzione di profitto mediante speculazione. Tale meccanismo, inesorabilmente, genererà crisi sempre più forti e sempre meno sanabili fino al collasso dell’economia continentale nel momento in cui nemmeno la riacquisizione della totale sovranità nazionale potrà risollevare l’economia dei singoli Stati.

–         L’Unione Europea fa un passo indietro, rinunciando in parte alla moneta unica – valida solo come valuta per gli scambi tra Stati europei – e riassegnando ad ogni singola Nazione un’autonomia politico-economica volta a consentire una pronta reazione dei singoli Stati alle intemperie del libero mercato. Ciò permetterebbe una sorta di protezionismo del sistema produttivo interno dall’incalzare di economie più forti, e parallelamente un potenziamento della struttura socio-economica interna utile a generare un sistema economico europeo aggregato più forte nello scenario globale.

–         I flussi di investimento provenienti dall’area del BRICS e in particolar modo da parte della Cina, trasformano l’Europa da fonte di rendita per la finanza dell’economia della Globalizzazione, a fonte di rendita per il sistema filo-cinese. In poche parole l’Europa cambia padrone senza mai essere padrona di se stessa e del suo avvenire – di cui paradossalmente sono convinte invece Germania e Francia.

–         L’Europa ritrova una propria identità regionale mediante una forte riforma strutturale in ambito istituzionale. Con una ripartizione di competenze ed una rilettura dei parametri socio-economici propone un assetto più equilibrato sia internamente che esternamente. Su quest’ultimo aspetto (rapporti esogeni) l’Europa si riposiziona quale principale interlocutore internazionale sfruttando, finalmente, la posizione geografica che occupa – di indubbio potenziale strategico a livello politico ed economico. Un distacco dall’influenza statunitense permette un progressivo rafforzamento interno portandola a ricollocarsi sullo scacchiere mondiale in una posizione di privilegio rispetto ai classici colossi planetari (USA e Russia).

 

*Sino ad oggi siamo stati abituati a sintetizzare tali aree con il termine BRICS ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa quali nazioni in via di sviluppo. Una forzatura terminologica che occorre relativizzare per poter percepire che il novero degli Stati in forte crescita si sta ampliando e coinvolge aree esterne al “nostro Occidente” – ad esempio Argentina e Sud Corea.

 

*William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 


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