Fonte: “CPE

 

E’ ormai palese a chiunque che il ciclo storico che si era iniziato con la liquidazione della classe dirigente che aveva retto le sorti del Paese negli anni del bipolarismo si sta per compiere definitivamente. Svenduta gran parte del patrimonio pubblico, consegnato il Paese a banche e ad istituti finanziari italiani e stranieri (se negli anni Novanta il debito pubblico italiano era ancora nelle mani delle famiglie italiane, nel 2010 queste ultime ne possedevano solo il 9,58%, contro il 44,27% allocato all’estero) (1), americanizzato il sistema educativo, penalizzato in ogni modo lo Stato sociale a vantaggio dello Stato assistenziale (cioè a vantaggio di lobbies e gruppi d’interesse vari), integrati del tutto, una volta abolita la leva, i vertici delle Forze armate nella Nato, persa la sovranità monetaria con la creazione di Eurolandia, senza alcuna reale contropartita, se non quella di contribuire al fallimento politico dell’Unione europea, non rimane che privatizzare le ultime imprese strategiche della Nazione: Eni, Enel e Finmeccanica, in particolare. Il “sonnifero” Berlusconi, sotto questo profilo, ha funzionato benissimo: gli italiani dopo essersi divisi tra sudditi di destra e sudditi di sinistra, potranno finalmente essere “unicamente” sudditi del mercato, mettendo da parte vecchi e nuovi rancori, ed essere tutti debitori, tranne i “soliti noti”, ossia quelli – per capirsi – che sono soliti trarre profitto dall’Italia dell’otto settembre permanente. 

Tuttavia, è innegabile che la cosiddetta “casta” offra la corda a chi la vuole impiccare, così come la offriva il ceto politico di tangentopoli: vere erano le tangenti, veri sono i privilegi ignominiosi della “casta”; ma è vero pure che la terapia proposta dai “soliti noti” è peggio del male (reale) che si dovrebbe curare. Vent’anni di privatizzazioni hanno portato il Paese sull’orlo del baratro e chi avesse tempo potrebbe leggere l’incredibile quantità di sciocchezze pubblicate, negli anni Ottanta e Novanta, dalla grande stampa italiana (in specie dal Corsera e da Repubblica) sui “vizi pubblici” e le “virtù private”, nonché sulle magnifiche e progressive sorti del “libero mercato” angloamericano, per rendersi conto a che cosa in realtà mirano coloro che pretendono di voler risanare il Paese. Allora però a complicare le cose scese in campo il Cavaliere, naturalmente allo scopo di difendere i propri interessi, ma ostacolando così il completo smantellamento del nostro apparato strategico, non fosse altro perché troppo impegnato a prendersi cura del proprio patrimonio e della propria persona, dentro e fuori le aule dei tribunali, tanto che non sembrava infondata l’ipotesi che certi “ambienti” sia cattolici sia del “vecchio” ceto politico, democristiano e socialista, potessero usare il Cavaliere come uno scudo, ovvero (anche) allo scopo di impedire la totale subordinazione dell’Italia ad interessi stranieri. Una ipotesi confermata, secondo alcuni, dagli accordi con Putin e con Gheddafi, in quanto segno di una politica estera tale da poter implementare programmi strategici di medio-lungo periodo, smarcando (benché, per così dire, soltanto “in potenza”) l’Italia da una “alleanza” che, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, si è ridotta, inevitabilmente, ad essere mero rapporto tra Paese dominante e Paese dominato. Nel giro però di pochissimo tempo tutto è finito: con la ignobile partecipazione all’intervento militare della Nato contro la Libia, è evidente che il Cavaliere ormai pensa soltanto a salvarsi tirando i remi in barca (di lusso), dopo aver letteralmente “sputtanato” il Bel Paese, avendo un comportamento con il “gentil sesso” che si addice più ad un fenomeno da baraccone che non ad un Presidente del Consiglio. Danno gravissimo però non tanto questo, al di là di facili battute, quanto piuttosto la perdita “secca” di peso sulla scena internazionale, che, sommata alla politica antinazionale dell’oligarchia atlantista (gli Amato, i Prodi, i Ciampi, i Draghi, i Montezemolo, i De Benedetti, i D’Alema, i Fini, i Casini e tutti gli altri “nostri bravi ragazzi” in doppiopetto a stelle e strisce) ed alla incapacità dei governi del Cavaliere di porre un argine all’indebitamento del Paese, dopo l’entrata in Eurolandia, fa sì che la Penisola sia alla mercé di potenze e potentati economici stranieri e delle loro quinte colonne. Nessuna manovra, come anche gli italiani più sprovveduti o meno attenti hanno intuito, potrà infatti evitare che la speculazione e le agenzie di rating facciano lievitare i tassi d’interesse sul debito, costringendo il Paese a fare ciò che i “mercati” hanno deciso che il Paese debba fare (”perfetta logica” della democrazia di mercato). E il fatto che vi possano essere anche più “soggetti” in competizione tra di loro per spartirsi la torta, o meglio quel che rimane (ma non è poco) della torta tricolore, non solo non smentisce che il “libero mercato” pare una libera volpe (quasi sempre “English speaking”) in un libero pollaio, ma rende ancora più difficile trovare una soluzione, ammesso che vi sia qualcuno che la voglia trovare.

 

D’altra parte, non è solo questione di finanza ed economia, ma di lacune strutturali che, da un lato, non hanno permesso di fare le riforme necessarie (a partire da quella della pubblica amministrazione, vera e propria vacca da mungere per alcuni gruppi sociali, assai ben organizzati, che, come si era già compreso negli anni Settanta, contribuiscono in modo determinante allo “sfascio” del Welfare) per rendere “produttiva” la spesa pubblica e migliorare la qualità dei servizi fondamentali (sanità, scuola etc.), onde rafforzare la coesione sociale e l’etica pubblica, notoriamente quasi del tutto assente nel nostro Paese. Dall’altro, hanno reso pressoché impossibile promuovere un sapere strategico per superare la incapacitante dicotomia sapere umanistico versus sapere tecnico-scientifico, di modo che si è rinunciato a formare le nuove generazioni secondo un punto di vista “nazionalpopolare”, ovvero tenendo conto sia della esigenza di modernizzare il sistema sociale, sia di quella di tutelare e valorizzare il più possibile la propria identità culturale e la propria storia, anche per non perdere l’effettiva capacità di “orientarsi” in un mondo in rapida e continua trasformazione, e non essere costretti a mutare direzione ogni volta che muta il vento della storia, con l’ingrato compito di fare i rappresentanti degli interessi dei padroni d’oltreoceano e/o dei loro “bravi”, come se fossero anche i propri (sotto questo aspetto, le recenti vicende della Libia sono più che istruttive). Ne è derivato un impoverimento politico e culturale, che si vorrebbe compensare con massicce iniezioni di “razionalità tecnomorfa”, quasi che oggettività fosse sinonimo di adeguatezza. Non stupisce allora che perfino il sociologo Luciano Gallino, dopo avere affermato che “se l’industria italiana ebbe negli anni Sessanta e Ottanta un notevole sviluppo e una importante affermazione, lo si deve al fatto che la scuola pubblica, attraverso gli istituti specifici, formava decine di migliaia di tecnici, di periti, di capi”, abbia precisato che oggi però “di sapere tecnologico e tecnico ce n’è già molto nella scuola [mentre ci sarebbe] bisogno di persone che, accanto a una ragionevole dose di specializzazione, [avessero] ampie competenze generali e strategiche per comprendere i grandi fenomeni del mondo in movimento. Ci sarebbe molto più bisogno di quanto non si creda di pensiero critico in tutti campi”. (2) Ma ai disastri combinati negli ultimi due decenni non si può porre rimedio in breve tempo, mentre il tempo del Paese pare essere veramente scaduto.

D’altronde, se si dovesse ritenere che queste considerazioni, in definitiva, non siano pertinenti, giacché i problemi da risolvere sono essenzialmente di natura economica, ci si lasciarebbe sfugggire che è proprio la debolezza strategica del nostro sistema che rende possibile un attacco contro l’Italia, senza correre eccessivi rischi, dacché, nonostante tutto, vi sarebbero ancora molte “carte” da giocare, se alla guida del Paese vi fosse una classe dirigente degna di questo nome ed una opinione pubblica ben informata e capace di valutare con cognizione di causa qual è l’interesse nazionale, senza pregiudizi ideologici, ma anche senza rinunciare a (ri)definire il Politico e l’Economico alla luce di una idea di bene comune intersoggettivamente condivisa. (Al riguardo, non si può non criticare il pregiudizio, tipico del nominalismo, secondo cui esistono solo gli individui. Basta aprire un qualsiasi libro di storia per comprendere, come insegna il filosofo francese Paul Ricoeur, che i singoli Paesi, ma anche entità come il Mediterraneo – si pensi, ad esempio, alle opere di Fernand Braudel – agiscono come “personaggi” di un racconto, sono cioè “entità seconde” – nel senso che non sono “riducibili” agli individui, pur se esistono solo in quanto esistono gli individui. Ed è naturale che per definire, su basi storiche e razionali, l’interesse nazionale si debba tener conto di questo “secondo” o, se si vuole, “emergente” livello di realtà).

Pertanto, occorre riconoscere che sono le condizioni generali del sistema italiano che impediscono a priori quel rinnovamento sociale e politico senza il quale è del tutto illusorio pensare di evitare il declino del Paese, anche se si riuscisse non a risolvere ma perlomeno a “gestire”, in qualche modo, la crisi economica. Di fatto, in politica vale, mutatis mutandis, quel che vale per le istituzioni militari; ossia sono tre i fattori che contano: preparazione tecnica e materiale, azione di comando e preparazione morale. E poiché in Italia difettano tutt’e tre, occorre prendere atto che non v’è alcun punto, se così è lecito esprimersi, su cui poter far leva per una autentica rifondazione della società e dello Stato. Del resto, i primi ad opporre resistenza ad un autentico e radicale rinnovamento sociale e politico sarebbero, con ogni probabilità, proprio i ceti medi (sebbene, paradossalmente, siano i ceti più “tartassati” e più bisognosi di riforme di struttura) dacché – oltre alla tradizionale idiosincrasia per la cultura (solo il 46,8% degli italiani “si accosta” ad un libro almeno una volta l’anno rispetto al 70% dei Paesi dell’Unione europea), alla propensione a premiare i furbi e punire i meritevoli, al pressappochismo ed a scambiare la (vuota) forma per la sostanza (non è il nostro Paese quello dei “dottori” e dell’ordine dei giornalisti?) – nell’arco di qualche decennio si è pure diffuso un modello di consumismo tra i più grossolani e volgari dell’Occidente, che ha ulteroriormente indebolito la coscienza civica, la memoria storica e la maturità intellettuale dei ceti medi italiani (né ciò è forse senza relazione con l’ondata pseudorivoluzionaria del ’68 italiano, dato che non è affatto un caso che gran parte dei sessantottini siano diventati i – peggiori o migliori, a seconda di chi giudica – consiglieri di Mammona). Sicché, è lecito ritenere che anche la parola d’ordine “sovranità” (politica, militare, culturale), per quanto condivisibile, rischi di essere nulla più di un “wishful thinking”, a meno che la storia di questi ultimi anni non generi essa stessa quel “contraccolpo” necessario per un radicale mutamento di paradigma, che non dovrebbe concernere solo l’Italia, bensì la stessa Europa. Non solo perché la questione della sovranità nazionale, volenti o nolenti, passa attraverso le istituzioni della Unione europea, ma perché il sistema italiano, per le ragioni sopraccitate, non può essere (o è assai poco probabile che possa essere) “ri-formato” dall’interno. Nondimeno, la crisi dell’euro – niente affatto di natura contingente ed al tempo stesso causa ed effetto di una trasformazione della Unione europea in una sorta di gigantesco supermercato, di gran lunga più utile alle banche cha non ai popoli europei – lascia pensare che la “vera crisi” sia ancora all’inizio, con quel che ne può conseguire sia per l’Europa che per l’Italia. Crisi di sistema, quindi, non intepretabile secondo un’ottica economicistica, tanto quella dell’Italia quanto quella della Unione europea. Ovviamente, si tratta di crisi indubbiamente diverse, ma non irrelate. Ciò non significa che possano essere gli europei a risolvere i problemi degli italiani – ché sarebbe ridicolo anche solo pensarlo – ma che si dovrebbe prestare attenzione soprattutto al modo in cui si può evolvere la “relazione” tra la crisi italiana e quella dell’Euro(pa), considerando questa stessa relazione in connessione con il passaggio, ancora in atto, da una fase storica tendenzialmente unipolare ad una che sembra essere multipolare, ma la cui configurazione non può non variare al variare della potenza (relativa) degli Usa. In questa prospettiva, certamente complessa, si gioca dunque un finale di partita che non potrebbe avere esito felice per il Paese, rebus sic stantibus. Questa non è una profezia, ma, lo si concederà, una semplice, anche se spiacevole, constatazione. Ciononostante, in politica le regole possono cambiare di punto in bianco – anzi, in un certo senso, sono le regole la vera posta in gioco – e non è azzardato ritenere che tanto più si ridurrà la potenza (relativa) degli Usa, ovverosia quanto minori saranno le possibilità degli Stati Uniti di realizzare il loro disegno di egemonia globale, tanto maggiori saranno le possibilità strategiche e operative di quei giocatori, non tutti di poca importanza, che, nell’attuale fase storica, potrebbero avere interesse a non rispettare più le regole del gioco. Non che si debba essere ottimisti, ché l’ottimismo, si sa, è l’oppio degli imbecilli; ma si dovrebbe evitare di farsi gabbare da chi, in buonafede o in malafede, pretende di vincere una partita che è irrimediabilmente persa. Ed essere invece consapevoli che la condizione necessaria per una soluzione, se non la soluzione, della crisi che attanaglia l’Italia (e non solo l’Italia) consiste, appunto, nel cambiare le regole del gioco, posto che anche l’attuale sistema sociale non è piovuto dal cielo, ma è l’effetto (benché non necessariamente quello voluto) di precise scelte strategiche.

 

Note

1)http://www.bancaditalia.it/statistiche/finpub/pimefp/2011/sb23_11/suppl_23_11.pdf

2)http://diversamentestrutturati.noblogs.org/post/2011/05/02/i-precari-e-linganno-della-flessibilita-luciano-gallino/


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Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.