Il 2 giugno 1992, al largo delle coste di Civitavecchia, venne organizzato a bordo del Royal Yacht Britannia (il panfilo di Sua Maestà la Regina Elisabetta II) un incontro organizzato da alcuni finanzieri londinesi sul futuro economico dell’Italia. Tra gli ospiti italiani vi era l’allora Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi. In quell’occasione, l’ex Direttore Esecutivo della Banca Mondiale tenne un discorso incentrato sulle privatizzazioni, in cui, sulla scia dei “successi” del “thatcherismo”, insistette sull’idea che la vendita del patrimonio statale fosse la migliore soluzione per accrescere le potenzialità produttive di un’Italia che si trovava sull’orlo del collasso politico ed economico. Più o meno nello stesso periodo, infatti, partirono le inchieste di “Mani Pulite” che avrebbero spazzato via la quasi totalità della classe politica della cosiddetta Prima Repubblica. E, a pochi giorni dall’incontro sul Britannia, vennero assassinati, a distanza di qualche settimana l’uno dall’altro, Giovanni Falcone ed il collega Paolo Borsellino. Inoltre, di lì a breve (nel settembre dello stesso anno), la Lira italiana subì un’ondata di attacchi speculativi che consentirono al “filantropo” George Soros di guadagnare 1,1 miliardi di dollari.

Questi eventi non possono essere compresi appieno senza tenere in considerazione il particolare contesto geopolitico nel quale si verificarono. Di fatto, si tratta dell’era del trionfo unipolare nordamericano, in cui alla politica italiana non poteva più essere concesso alcun margine di autonomia strategica (si pensi alla moderata politica filoaraba di molti governi della suddetta Prima Repubblica).

L’8 dicembre 1991 Boris E’lcin, Stanislav Shushkevic e Leonid Kravchuk, riuniti in una dacia al confine tra Russia e Bielorussia, in uno slancio che potrebbe essere facilmente definito controrivoluzionario, optarono per la dissoluzione dell’Unione Sovietica, andando apertamente contro la volontà popolare che nel marzo dello stesso anno aveva votato per il mantenimento della struttura statale esistente.

Pochi anni prima, il blocco socialista dell’Europa Orientale era imploso (dando vita all’espansione della NATO ad Est caldeggiata da Zbignew Brzezinski) e nel febbraio del 1992 venne siglato il Trattato di Maastricht con il quale si diede avvio definitivo alla creazione di un’Unione Europea che nei piani nordamericani non avrebbe mai dovuto raggiungere l’unità politica e divenire un competitore diretto dei loro piani egemonici.

Questi erano gli anni in cui il processo di globalizzazione assunse connotati puramente americanocentrici grazie alla spinta che ad esso venne data a partire dagli anni ’70 dalla Commissione Trilaterale fondata da David Rockfeller e dallo stesso Brzezinski, con l’obiettivo di consentire ad uno specifico gruppo di attori economici (monopolistici e multinazionali) di cogliere i profitti globali per concentrarli nelle mani di alcuni determinati Paesi incaricati di gestire e sfruttare apertamente i mercati dell’economia globale.

In questi stessi anni, le teorie economiche sul “governo globale” erano incentrate su tre derivazioni dirette del neoliberismo e del cosiddetto “Consenso di Washington”: il già citato “thatcherismo”, la “reaganomics” e la successiva “terza via” portata avanti da Bill Clinton e Tony Blair. Tutte, senza alcuna particolare distinzione, sostenevano l’idea della creazione di mercati più grandi a fronte della riduzione del potere politico dello Stato. Tutte vennero introdotte ed instillate più o meno dogmaticamente nei Paesi dell’Occidente a guida nordamericana attraverso il lavoro di gruppi di pressione legati al capitalismo monopolistico internazionale. La loro essenza era dominata dal fondamentalismo del mercato (al quale si potrebbe attribuire un afflato religioso sulla falsariga del fondamentalismo protestante caratteristico dell’Anglosfera), secondo il quale la “mano invisibile” (divina?) del mercato avrebbe prevalso autoregolandosi e costringendo la politica all’impotenza. Così lo Stato, pur continuando a rimanere uno degli attori principali del sistema globale insieme alle organizzazioni internazionali ed alle società multinazionali, dovette iniziare a cedere quote di sovranità alle stesse organizzazioni internazionali ed al mercato globale, costruito in una fitta rete di centri ed istituzioni in cui gli Stati Uniti godevano (e godono) del potere di veto. Ad esempio, le principali proposte politiche della Banca Mondiale devono ottenere almeno l’85% dei voti per essere adottate. Gli Stati Uniti detengono una quota di voto equivalente al 15,85%. Lo stesso vale per il Fondo Monetario Internazionale, dove gli USA detengono un potere di voto del 17,45%. Uno squilibrio che ha consentito (e consente) a Washington di stabilire chi (e con quali modalità) potesse usufruire dei programmi di aiuti in cambio di un’evidente riduzione di sovranità economica nazionale.

Ora, è bene ribadire che il sistema di governo globale è un dato di fatto. Esiste già. Non è un qualcosa in fase di costruzione ed al quale si può porre un freno. Alcuni pensatori cinesi contemporanei, come Jiang Shigong, a questo proposito, hanno parlato di “impero globale” fondato sul concetto egemonico di Pax Americana, in cui Stati come Cina e Russia agiscono come forze riformatrici più che “revisioniste” (come vengono indicate nei documenti prodotti dal Dipartimento della Difesa di Washington). Tuttavia, attualmente esiste una tensione profonda interna allo stesso sistema di governo globale. Lo studioso e diplomatico cinese He Yafe ha indicato tre diverse correnti di pensiero che competono per il comando all’interno del sistema: il nazionalismo, l’internazionalismo ed il globalismo[1].

Nell’ambito del nazionalismo si possono individuare due modelli di sovranità: uno attivo e l’altro passivo. Il modello passivo contraddistingue gli Stati che mantengono una sovranità formale ma che, nella realtà, non possiedono alcun margine di azione autonoma in ambito internazionale (a prescindere dalla retorica utilizzata dai rispettivi governi). Al contrario, il modello attivo è quello che caratterizza le grandi potenze e che in determinati casi può essere esercitato in termini imperialistici o concedendo spazi di manovra subimperialista a terzi (il caso turco in Siria, ad esempio). È il sistema “centro/margine” (Occidente al centro, Paesi in via di sviluppo in posizione periferica) che ha caratterizzato il momento di dominio unipolare degli Stati Uniti. L’internazionalismo, invece, è la corrente che enfatizza la cooperazione internazionale su di un piano multilaterale. Invece il globalismo mira alla progressiva riduzione del ruolo dello Stato in favore di una forza trainante garantita da società multinazionali ed organizzazioni non governative, che tuttavia si dimostrano spesso e volentieri portatrici di interessi particolari sul piano sia geopolitico sia geoeconomico (ad esempio, le compagnie farmaceutiche trasformatesi in strumenti di ricatto politico sui governi o le ONG che si occupano del traffico di esseri umani). In questo senso, l’approccio “nazionalista” e quello “globalista” si presentano come le due facce della stessa medaglia.

Questa tensione è derivata dal progressivo fallimento del sistema costruito intorno ai dogmi neoliberisti sia sul piano interno allo stesso Occidente, sia sul piano geopolitico. A questo proposito, ha scritto lo studioso David Held: “In effetti, spingere indietro i confini dell’azione statale e indebolire le capacità di governo, aumentando la portata delle forze di mercato in una società, ha significato ridurre i servizi che hanno offerto protezione ai vulnerabili. Le difficoltà incontrate dai più poveri e dai meno potenti – nord, sud, est e ovest – sono state aggravate e non migliorate. L’ascesa delle questioni di sicurezza in cima all’agenda politica riflette, in parte, la necessità di contenere i risultati che tali politiche aiutano a provocare. Indebolendo la cultura e le istituzioni del governo e della vita pubblica a livello locale, nazionale e globale, il Consenso di Washington ha eroso la capacità dei Paesi di tutto il mondo di fornire beni pubblici urgentemente necessari. Ha confuso la libertà economica con l’efficacia economica. La libertà economica è sostenuta a spese della giustizia sociale e della sostenibilità ambientale con danni a lungo termine per entrambi[2].

C’è un passaggio che merita di essere sottolineato, soprattutto alla luce del fatto che lo stesso Held ha spesso indicato il suddetto Consenso di Washington e l’agenda di sicurezza di Washington come “forze” che spingono dal “male al peggio”. È il punto in cui si afferma che la centralità attribuita alle questioni di sicurezza riflette la necessità di contenere i risultati provocati da politiche che hanno generato una situazione di crisi economica permanente, l’amplificarsi della conflittualità geopolitica e del degrado ecologico.

Due sono state le “questioni di sicurezza” che hanno contraddistinto i primi due decenni del XXI secolo: il terrorismo cosiddetto “islamico” e la pandemia di Covid19. Sul ruolo geopolitico dei gruppi terroristi di matrice “islamista” molto è stato detto. Qui basterà ricordare la dottrina dell’“arco di crisi” elaborata dal già citato Brzezinski e dagli strateghi nordamericani Robert Gates e Graham E. Fuller. Quest’ultimo nel 1999 dichiarò: “La politica di guidare l’evoluzione dell’Islam e di aiutarlo contro i nostri avversari ha funzionato meravigliosamente bene in Afghanistan contro i Russi. Le stesse dottrine possono ancora essere utilizzate per destabilizzare ciò che resta della Russia e per contrastare l’influenza cinese in Asia Centrale[3].

Più complesso è il discorso per ciò che concerne la crisi pandemica. In questo contesto non si vuole entrare nel merito della discussione sull’origine del virus. Tuttavia, esiste un rapporto del National Intelligence Council (centro strategico delle comunità di intelligence nordamericane), datato dicembre 2004 ed intitolato Mapping the global future – Project 2020, in cui si esprimono i timori statunitensi di vedersi sfuggire la guida del processo di globalizzazione.  In esso è scritto: “by 2020, globalization is likely to take on much more of a non western face […] what could derail globalization?[4] La risposta fornita dal documento è abbastanza prevedibile. Alla pagina 34 si legge che, essendo un conflitto di ampie proporzioni piuttosto improbabile, l’unico evento che potrebbe fermare o rallentare la globalizzazione sarebbe una pandemia (prevista come imminente dagli “esperti”) che potrebbe colpire con forza le metropoli globali e quelle dell’Asia, dalla Cina all’India ed al Pakistan.

A ciò si aggiunga che una dottrina elaborata nel 1967 da un variegato gruppo di studiosi nordamericani (politici, scienziati, economisti), alla quale venne dato il titolo di Report from the iron mountain: on the possibility and desiderability of peace, afferma esplicitamente: “Il sistema militare rende possibile la stabile gestione della società […] Occorre insistere sul bisogno di trovare un nemico che sia convincente sia in qualità che in portata. È più facile, a nostro giudizio, inventare tale minaccia piuttosto che derivarla da condizioni sconosciute[5].

Queste parole suonano alquanto sinistre nel contesto dell’attuale condizione di crisi epidemica (con il contorno di varianti definite come sempre più contagiose), soprattutto alla luce della retorica militare utilizzata dagli apparati propagandistici e dalla classe politica “occidentale” in riferimento alle misure di contenimento del virus. Di fatto, si utilizzano continuamente espressioni del tipo: “il nemico è il virus”; “guerra al virus”; “dare la caccia al virus”. E la stessa gestione della “campagna vaccinale”, in l’Italia (Paese eletto al ruolo di laboratorio dai gruppi di potere atlantisti), è stata affidata ad un “pluridecorato” generale della NATO, decorato, fra l’altro, con la Legion of Merit degli Stati Uniti d’America.

Questa enfasi riposta sulle questioni di sicurezza, a prescindere dalla loro origine artificiale o meno, è la più evidente manifestazione dell’ansia strategica che ha caratterizzato il centro di potere imperiale nel momento in cui ha dovuto confrontarsi con l’improvvisa accelerazione dell’evoluzione del sistema globale verso il multipolarismo. La presa degli Stati Uniti sul mondo è irreversibilmente diminuita e la loro strategia globale si è concentrata sulla creazione di uno stato permanente di crisi come strumento per garantire il proprio sistema egemonico a discapito di forze emergenti che mirano a riequilibrare lo stesso sistema attraverso uno schema di condivisione del potere Ovest-Est.

La geopolitica vaccinale, con il dominio semi-monopolistico del gruppo Pfizer (amministrato da un “good friend” di Joe Biden, l’ebreo “greco” Albert Bourla) sull’Occidente, al pari del colpo di Stato atlantista in Ucraina nel 2014, si è dimostrata uno strumento assai efficace per riaffermare il controllo nordamericano sull’Europa. E lo stesso avvento al potere in Italia (tra il giubilo della quasi totalità della classe politica e del mondo dell’informazione generalista) dell’ex banchiere di Goldman Sachs Mario Draghi (già in ottimi rapporti con l’avanguardia politico-economica dell’atlantismo, il Gruppo Bilderberg creato da CIA ed MI6) deve necessariamente essere interpretato alla luce di questi fatti. Il suo ruolo è sì quello di “curatore fallimentare” di uno Stato in evidente sfacelo socioeconomico ed ormai privo di qualsiasi autonomia strategica. Tuttavia, allo stesso tempo, questo “curatore” deve fare in modo che le rimanenti risorse italiane vengano (s)vendute in modo corretto[6]; e che tale (s)vendita avvenga in modo controllato e concentrando l’attenzione dell’opinione pubblica sull’invasività dell’evento pandemico con tutte le sue sfaccettature: dal certificato verde al corollario di scienziati (o pseudo tali) che dicono tutto ed il contrario di tutto, fino alla sterilissima polemica novax/provax che evita scientemente di rimarcare il portato geopolitico dell’affermazione di un modello di capitalismo della sorveglianza che si presenta come naturale evoluzione del modello occidentale (quello impiantato in Europa dopo il 1945) e non come instaurazione di un qualcosa ad esso estraneo.

Non sorprende che, dal momento del suo insediamento, il governo Draghi (spinto anche dal ministro ultratlantista della Lega Giancarlo Giorgetti) abbia utilizzato lo strumento del Golden Power ben tre volte per evitare l’acquisizione da parte di gruppi cinesi di aziende italiane che operano in specifici settori. L’ultimo caso è quello della Zhejiang Jingsheng Mechanical, alla quale è stato impedito di acquisire il ramo italiano di Applied Materials, azienda che opera nel settore dei semiconduttori. Nel marzo del 2021, sempre nel settore dei microchip, aveva impedito l’acquisizione del 70% di Lpe da parte del gruppo Shenzen Invenland Holding, mentre ad ottobre il Golden Power era stato esercitato per impedire gli sforzi del colosso agrochimico Syngenta per assumere la guida del gruppo agroalimentare romagnolo Verisem[7].

Al contempo, il governo italiano non ha palesato nessuna particolare preoccupazione di fronte al tentativo di acquisizione di TIM da parte del fondo nordamericano KKR & Co. Cofondatore del gruppo è l’ebreo statunitense Henry Kravis, ben inserito nel già citato Gruppo Bilderberg (insieme ai proprietari dell’importante gruppo editoriale italiano GEDI). Non c’è da stupirsi se al KKR fa riferimento anche l’Axel Springer Group, che possiede i giornali tedeschi (apertamente anticinesi) Die Welt e Bild. Inoltre, non è da dimenticare il ruolo che all’interno dello stesso KKR ha avuto l’ex generale e direttore della CIA David Petraeus e la partecipazione del gruppo al programma Timber Sycamore di finanziamento e assistenza logistica dei “ribelli” siriani.

Così come non vi è stato nessun particolare sussulto di orgoglio nel momento in cui Fincantieri, fermata da un patto anglo-australiano che ha fatto da apripista al più celebre (ed allargato agli USA) AUKUS, ha perso una commessa di 23 miliardi per la fornitura di fregate Fremm alla Royal Australian Navy.

Il ruolo di Draghi come agente degli interessi atlantisti in Europa è di lunga data. Quando era guida della BCE, il suo compito fu quello di contrastare la potenza della più grande banca centrale europea, la Bundesbank. L’obiettivo, neanche troppo velato, era quello di porre un freno al “problema” del surplus commerciale tedesco che costituiva un fattore indesiderato di non poco rilievo nel progetto di riaffermazione dell’egemonia nordamericana sull’Europa. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’appoggio statunitense alla creazione di una moneta unica europea venne garantito proprio dalla speranza che costringere la Germania a rinunciare al Marco potesse impedirne un eccessivo rafforzamento. Al contrario, Berlino è stata comunque capace di creare un enorme ed integrato blocco manifatturiero che include tutte le regioni industriali vicine ai confini tedeschi. Ha approfittato e tratto vantaggi notevoli dai cambi depressi rispetto all’Euro vigenti nei Paesi dell’est ed ha scaricato su di essi e sull’area mediterranea il costo della moneta unica, favorendo al contempo le esportazioni tedesche.

In questa operazione di controllo della Germania (sia in termini di eccessivo potere all’interno dell’Europa che in termini di aspirazioni alla costruzione di un rapporto privilegiato con la Russia) deve essere inserito anche il recente Trattato del Quirinale tra Francia e Italia sotto la supervisione del Segretario di Stato USA Antony Blinken. A questo proposito è bene sottolineare il fatto che il ruolo di ago della bilancia tra Germania e Francia era stato storicamente riservato alla Gran Bretagna. Nel corso dei secoli, il Regno Unito si è alleato a seconda della propria convenienza con l’una o l’altra sempre al preciso scopo di impedire una reale unificazione continentale: ciò che le potenze talassocratiche (Regno Unito prima e Stati Uniti poi) hanno sempre considerato come una minaccia esistenziale nei confronti dei rispettivi disegni egemonici.

Oggi, dopo la Brexit (nonostante la Gran Bretagna continui ad esercitare il suo nefasto ruolo in diversi teatri, dalla Polonia all’Ucraina), si è voluto attribuire questo compito all’Italia di Mario Draghi, che, assieme alla Francia, eserciterà anche un ruolo di controllo all’interno del Mediterraneo per fare in modo che l’egemone reale possa concentrare i propri sforzi nel contenimento della Cina (sempre più capace di intervenire anche nel “cortile interno” degli USA, come dimostrato dall’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Taiwan e Nicaragua). Nell’articolo 2 del Trattato si legge: “le Parti s’impegnano a promuovere le cooperazioni e gli scambi sia tra le proprie forze armate, sia sui materiali di difesa e sulle attrezzature, e a sviluppare sinergie ambiziose sul piano delle capacità e su quello operativo ogni qual volta i loro interessi strategici coincidano. Così facendo, esse contribuiscono a salvaguardare la sicurezza comune europea e rafforzare le capacità dell’Europa della Difesa, operando in tal modo anche per il consolidamento del pilastro europeo della NATO[8].

Di fatto, il Trattato del Quirinale altro non è che l’ennesima biforcazione interna alle strutture di potere dell’atlantismo.


NOTE

[1]He Yafe, La Cina e la governance globale, Anteo Edizioni, Cavriago 2019, p. 27.

[2]Reframing global governance: apocalypse soon or reform, contenuto in D. Held – A. McGrew, Globalization theory: approaches and controversies, Cambridge Polity Press (2007), p. 240.

[3]Si veda A. Turi, La destabilizzazione dello Xinjinag attraverso il terrorismo, www.cese-m.eu.

[4]Il documento è scaricabile sul sito www.dni.gov.

[5]Si veda L. Savin, prefazione a M. Ghisetti, Talassocrazia. I fondamenti della geopolitica anglo-statunitense, Anteo Edizioni, Cavriago (Reggio Emilia) 2021, pp. 3-8.

[6]A questo proposito, un documento pubblicato recentemente su Wikileaks ha rivelato come, nel 2008, l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi autorizzò l’acquisto di Banca Antonveneta da parte di MPS grazie ad un aumento di capitale di un miliardo di euro garantito dalla banca di investimenti multinazionali JP Morgan.

[7]Si veda Altolà Cina, c’è lo stop di Draghi. Golden Power sui microchip, www.formiche.net.

[8]Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Francese per una cooperazione bilaterale rafforzata, www.governo.it.

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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).