La forza di un popolo risiede nella sua gioventù.”
(Colmar Von der Goltz)
Ucciderete dieci di noi, mentre noi uccideremo uno di voi, ma alla fine, vi stancherete prima di noi.”
(Ho Chi Minh)

 

La principale risorsa di cui la guerra ha bisogno è il capitale umano. In uno studio presentato nel 2018 al Joint Warfare Center della NATO in Norvegia, il sociologo tedesco Gunnar Heinsohn ha cercato di ribadire con forza questo assunto. Nello specifico, il professore emerito dell’Università di Brema, nel suo lavoro Security implications of demographic trends, ha sottolineato come, in una condizione di conflitto, la capacità di assorbire le perdite giochi un ruolo determinante sull’esito dello stesso. L’esempio più evidente, in questo senso, è sicuramente rappresentato dal confronto tra l’Unione Sovietica ed il Terzo Reich durante la Seconda Guerra Mondiale.

Tuttavia, l’analisi di Heinsohn ha un respiro più ampio, concentrandosi sulle tendenze demografiche che hanno contraddistinto la storia europea e globale degli ultimi secoli. Il sociologo ed economista tedesco, infatti, mette in evidenza come, a cavallo tra XV e XIX, la crescita demografica dell’Europa non era assolutamente inferiore a quella delle altre aree del globo (a seguito dell’epidemia di peste del 1348, la popolazione europea scende da 80 a 50 milioni, salvo poi salire fino a 500 milioni a fine Ottocento)[1]. Più o meno nello stesso periodo di tempo, le potenze europee si rendono capaci di colonizzare larga parte del globo con l’impiego di contingenti militari relativamente ridotti e grazie a pochi milioni di coloni.

La Spagna, ad esempio, con soli 7 milioni di abitanti nel 1493 riesce a costruire un impero esteso su tre diversi continenti raddoppiando, al contempo, la propria popolazione che raggiungerà i 14 milioni nel 1800[2]. A questo proposito risulta interessante notare anche la poderosa crescita demografica di Gran Bretagna e Germania tra l’inizio dell’Ottocento ed i primi del Novecento. La prima passa da 10 milioni a 42 milioni di abitanti (un aumento del 420%); mentre la seconda passa da 22 milioni a 67 milioni con un incremento del 305%[3].

Secondo la tesi di Heinsohn, il successo globale conosciuto dall’Europa in questo arco di tempo è da collegare in primo luogo alle sue capacità di sostenere la guerra e la colonizzazione in termini di “gioventù spendibile”. In questo senso, il teorico del cosiddetto “youth bulge”, attraverso l’analisi incrociata dei dati statistici, cerca di comprendere quali Paesi o (macroaree) abbiano potuto nel corso della storia (e possono oggi) ritenere le perdite umane come un deterrente per la guerra e quali abbiano potuto (e possono oggi) sostenerle o minacciarle.

Heinsohn considera come “età da combattimento” la fascia che va dai 15 ai 29 anni. E tiene in considerazione fattori come la quantità di giovani che, all’interno di questa fascia d’età (anche nella prospettiva della futura crescita demografica del Paese), essendo privi di lavoro e di prospettive future, si rendono automaticamente disponibili alla guerra. Questa particolare classifica vede “trionfare” nettamente il Pakistan, capace di poter sostenere la guerra per anni, seguito dal vicino Afghanistan, dall’Iraq e da alcuni Stati africani in piena esplosione demografica. Gli Stati Uniti sono in una posizione intermedia grazie soprattutto all’immigrazione latino-americana. Mentre l’Europa, oggi, in nessun modo potrebbe sostenere un conflitto lungo e ad ampio tasso di perdite umane.

Tale tendenza si era già manifestata in modo lapalissiano a partire dalla seconda metà del XX secolo nel periodo della decolonizzazione. Nel corso della Guerra d’Indocina, tra il 1946 ed il 1954, il Vietnam poteva contare su una popolazione in “età da combattimento” che si aggirava intorno ai 4 milioni e subì 120.000 morti. Tra il 1955 ed il 1975, a cavallo con il crescente impegno nordamericano nella regione, tale dato supera i 4 milioni e le forze vietnamite perdono oltre 960.000 uomini a fronte dei 58.272 caduti degli Stati Uniti usciti sconfitti dal confronto[4].

Lo stesso discorso si può facilmente applicare ai casi di Afghanistan e Iraq. Basti considerare che l’età media della popolazione afghana tra il 1979 ed il 1989 (gli anni dell’occupazione sovietica) era di 17 anni, contro i 36 dell’URSS.

Oggi, sebbene la forbice sia più ridotta, il medesimo ragionamento può essere preso in considerazione di fronte all’intervento diretto russo all’interno del conflitto ucraino. L’Ucraina, infatti, ha una popolazione di 41 milioni di abitanti che si riduce a 35 senza il Donbass e la Crimea. Ha un’età media di 41 anni ed un tasso di mortalità infantile del 7×1000 (il doppio rispetto al resto dell’Europa)[5]. Per contro, la Russia ha un’età media di 39 anni che si abbassa notevolmente in alcune delle sue repubbliche (la Cecenia, ad esempio, che ha fornito un apporto notevole in termini di truppe impiegate direttamente sul terreno, ha un’età media notevolmente più bassa che si aggira sui 23 anni). Senza considerare il fatto che Mosca non ha avuto alcun bisogno, al momento, di attivare una mobilitazione su larga scala, limitandosi a reclutare volontari o a richiamare poche migliaia di riservisti. Ad ulteriore dimostrazione del fatto che quella che il Cremlino chiama “Operazione Militare Speciale”, nonostante i tentativi occidentali di trasformarla in guerra totale, rimane una “guerra limitata con obiettivi limitati” (più geopolitici che esclusivamente strategici) da raggiungere in un tempo ancora indefinito.

Di fronte a ciò, la capacità di assorbire le perdite da parte di Kiev è estremamente limitata. Altro fattore che rende ogni paragone tra il conflitto attuale e la guerra di logoramento portata avanti dall’Occidente in Afghanistan ai danni dell’URSS (dove questa, a differenza del Donbass, si muoveva in territorio in larga parte ostile) piuttosto improprio. L’Ucraina, semplicemente, a differenza dell’Afghanistan, non ha il “capitale umano” per portare avanti ad oltranza il conflitto. E non lo ha in alcun modo per poter solo sperare di riconquistare i territori perduti che, non a caso, sono anche i più ricchi in termini di risorse minerarie (cosa che i governi postmaidan commissariati dalla NATO avrebbero dovuto tenere in minimo conto prima di sostenere campagne indiscriminate di pulizia etnica nei confronti della popolazione russofona). A ciò si aggiunga che la guerra è già costata a Kiev oltre il 10% del PIL per il solo 2022. Dato che potrebbe salire al 35% in caso di prolungamento oltre l’anno. Cosa che renderebbe l’Ucraina uno Stato fallito, capace di sopravvivere solo ed esclusivamente grazie agli aiuti esteri e ad un’eventuale ricostruzione che, naturalmente, sarà tutta a spese europee. Mentre gli Stati Uniti, tra i principali responsabili della situazione odierna, si impegneranno in modo assai limitato, come già fatto in Bosnia e Kosovo.

Questo punto merita un approfondimento vista la volontà dell’élite politica atlantista europea di compiacere, ancora una volta a discapito dell’economia continentale, i desideri di Washington. Di fatto, il regime sanzionatorio (presentato come il più pesante mai conosciuto nella storia), a differenza di quanto già si vede all’interno dei Paesi UE, non avrà alcun particolare effetto nel breve periodo sulla Russia.  Sicuramente non avrà alcun effetto sul conflitto in corso, visto che la stessa Russia, come già sottolineato, non solo dispone di ampie forze non esposte al combattimento (per quanto stia cercando, attraverso la circolazione degli uomini al fronte, di addestrare più unità possibili alla “guerra reale”, quella che si combatte con carri armati, cannoni e trincee), ma risulta essere anche autosufficiente sul piano del munizionamento e della produzione di sistema d’arma[6], nonostante le risibili quanto fallaci previsioni dei mezzi di informazione generalisti occidentali e dei cultori del giornalismo geopolitico. Questi, infatti, tendono ad ignorare che la Russia è il secondo esportatore d’armi a livello globale e che dispone della capacità di integrare e potenziare, senza ricorrere ad aiuti esterni, quanto impiegato dalle proprie truppe al fronte. Cosa che, al contrario, non può permettersi l’Ucraina, potendo ricorrere quasi esclusivamente all’aiuto occidentale.

A questo proposito, si rende necessario aprire una breve parentesi sul rischio che le armi occidentali inviate a Kiev finiscano nelle mani della criminalità organizzata locale, ben nota per le sue ramificazioni internazionali e per i suoi intensi rapporti con i centri del “gihadismo” nel Caucaso e nell’Asia occidentale. I governi occidentali, infatti, sembrano essere poco interessati a controllare la destinazione dei sistemi d’arma inviati ad una nazione il cui rischio di collasso è sempre più alto (senza considerare il tasso di corruzione più alto d’Europa)[7].

Sorvolando sulla cosiddetta “crisi del grano”, recentemente al centro delle attenzioni dell’opinione pubblica occidentale (è bene ricordare che per anni gli Stati Uniti hanno rubato il grano siriano nella più assoluta indifferenza), merita una considerazione finale l’embargo al petrolio russo stabilito dall’Unione Europea e presentato dalla stessa come una “vittoria” ed una “dimostrazione di unità”. A prescindere dal fatto che la storia recente ha dimostrato l’inutilità delle sanzioni in termini di cambio di regime (i casi di Cuba, Venezuela, Iran, Corea del Nord non hanno insegnato nulla), considerare una “vittoria” l’aver raggiunto un accordo che, nel breve e nel lungo periodo, metterà potenzialmente in grave crisi l’economia europea sembra più una convinta dimostrazione di masochismo che una prova di forza. Ed è altrettanto doveroso sottolineare che tale embargo avrà effetto solo a partire dal gennaio 2023 (via mare) e dal marzo dello stesso anno per le importazioni via terra, con le eccezioni di alcuni Paesi (Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca) poco inclini al suicidio o al ricorso ad inutili giri per aggirare le sanzioni imposte dall’UE.

La decisione, inoltre, ha già prodotto un aumento del costo del greggio con relativo aumento degli introiti russi. E quando l’embargo entrerà in vigore, la Russia potrà fare affidamento su nuovi acquirenti extraeuropei (si veda la crescente influenza russa in diverse aree dell’Africa) che potranno tranquillamente rivendere il greggio russo ai Paesi UE a prezzo maggiorato.


NOTE

[1]Una crescita demografica simile si è avuta nel mondo arabo, con la sola differenza che si è passati da 50 milioni a 400 milioni nell’arco di 70 anni (dal 1948 al 2018).

[2]G. Heinsohn, Security implications of changing demographic trends, www.heinsohn-gunnar.eu.

[3]Ibidem.

[4]Ibidem.

[5]F. Cardini – F. Mini, Ucraina. La guerra e la storia, PaperFirst, Roma 2022, p. 73.

[6]Le sanzioni economiche non incidono sulle operazioni russe, www.analisidifesa.it.

[7]Si veda Flood of weapons to Ukraine raises fear of arms smuggling, www.washingtonpost.com.


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.


 

Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).