Qualcosa di importante sta forse avvenendo dalle parti di Parigi, qualcosa che potrebbe andare al di là di una semplice protesta. Molti osservatori hanno subito sottolineato le motivazioni socio-economiche della rivolta dei “gilets jaunes”, che, nata a fine novembre dalle proteste dei pendolari per l’aumento dei costi del carburante (dovuto ad una eco-tassa sulle automobili più inquinanti definita “carbon tax”), si è poi estesa a un più ampio paniere di rivendicazioni di natura sociale ed ha provocato, sabato 8 dicembre, l’ennesima giornata di scontri (oltre 1300 arresti sul territorio nazionale, con cortei di migliaia di manifestanti, non solo nella capitale, ma anche nelle città di Montpellier, Lione, Tolosa, Nizza, Marsiglia, Lille e Bordeaux)[1]. Ora però qualche ombra sembra farsi strada sulla reale ed effettiva spontaneità del movimento di protesta, sempre più organizzato e operativo da settimane.

È bene tuttavia chiarirsi. Che la situazione della cosiddetta classe media sia, in Francia come nel resto dell’Europa comunitaria, di estrema sofferenza ormai da anni, perché soggetta alle stringenti normative di bilancio imposte dai vincoli a loro volta imposti da trattati dal chiaro taglio liberista e sostanzialmente antipopolare, è un dato reale più che noto. Che tali normative siano probabilmente state applicate senza tenere conto delle asimmetrie esistenti a livello di tessuto sociale e produttivo tra i Paesi membri e che producano a loro volta normative e conseguenze estremamente sgradevoli per la vita quotidiana dei cittadini europei, è cosa altrettanto risaputa e ormai acquisita da tempo all’interno del dibattito pubblico. Il grido di dolore del popolo francese è un grido comune ad altri popoli d’Europa e sostanzialmente il medesimo che, soltanto pochi anni or sono, in Italia aveva trovato espressione nel movimento dei “Forconi”, l’unione di diverse sigle, originariamente rappresentanti il solo mondo agricolo, che il 9 dicembre del 2013 diede il via a manifestazioni di protesta su larga scala contro le misure di austerità introdotte dai governi Monti e Letta nel biennio precedente.

A differenza di quanto però avvenne in quell’occasione, quando si trattò di una vicenda sostanzialmente di respiro nazionale che si chiuse in breve tempo anche e probabilmente in virtù dello scarso coordinamento dei manifestanti, a sorprendere sono da un lato la tempistica e, dall’altro, l’attenzione che al caso dei “gilet gialli” è stata rivolta dall’estero e, in particolare, dagli Stati Uniti. Al punto che lo stesso presidente americano, Donald Trump, in spregio a qualsiasi “etichetta” diplomatica, ha ritenuto opportuno esprimersi su Twitter a loro sostegno, chiamando in causa gli accordi sul clima di Parigi, che gli Stati Uniti hanno ripudiato e che avrebbero prodotto la tassa ecologica originariamente al centro del contendere. Tanto che il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, ha dovuto invitare lo stesso Trump a non immischiarsi nelle questioni di politica interna francese. “Io dico a Donald Trump – ha affermato il capo del Quai d’Orsay in un’intervista – ma anche il presidente Macron glielo dice: ‘noi non ci immischiamo nei dibattiti americani, lui ci lasci vivere la nostra vita di nazione’. Noi da parte nostra non facciamo considerazioni sulla politica interna americana e ci piacerebbe che fosse reciproco”[2].

Il battibecco via social fra Trump e l’esecutivo francese segue curiosamente e di pari passo quello inerente alla proposta, fatta dall’inquilino dell’Eliseo Emmanuel Macron, di una difesa comune europea, proposta che ha preso vigore mediatico in maniera particolare in seguito alla visita di Macron a Berlino dello scorso 18 novembre. Non a caso, proprio in quell’occasione Trump aveva espresso il proprio disappunto sulle esternazioni del collega francese, invitandolo (sempre tramite Twitter) a pagare la quota richiesta dall’appartenenza alla NATO, oppure di tacere.

Polemiche che arrivano in un momento delicato per Macron, dato che il presidente ha dovuto di fatto, cedendo alle richieste dei gilet jaunes, ritirare l’ecotassa sui carburanti all’origine delle proteste. Eppure, nonostante questo, i manifestanti hanno respinto le sue richieste d’incontro e alcuni esponenti del movimento hanno avanzato invece a Macron la curiosa richiesta di sostituire l’attuale primo ministro, Edouard Philippe, con Pierre De Villiers, il generale già Capo di Stato Maggiore dimessosi lo scorso anno dopo essersi scontrato frontalmente proprio con il presidente Macron, da lui accusato di non voler incrementare la spesa militare fino al 2% del PIL, come richiesto, peraltro, anche dagli Stati Uniti. Incremento invece evidentemente considerato, a discapito delle pubbliche dichiarazioni, non prioritario dall’Eliseo, soprattutto in vista di una possibile futura progressiva integrazione tra le difese europee[3].

Un militare (peraltro di lunga esperienza sia in missioni di guerra che in operazioni antiterrorismo, anche in seguito agli attentati del 13 novembre del 2015) al Governo di Francia: una richiesta cui Macron, secondo alcuni osservatori, potrebbe essere costretto a cedere a causa della forza d’impatto delle proteste, che stupiscono per capacità organizzativa quasi paramilitare nell’attuazione di tattiche di guerriglia urbana e per efficacia comunicativo-simbolica (il gilet giallo come emblema degli automobilisti e dei pendolari massacrati dal fisco, l’utilizzo e la diffusione capillare sui media e sui social network di video e immagini illustranti la brutalità della repressione da parte della gendarmeria, le foto dei cecchini della polizia appostati sui tetti di Parigi che hanno fatto il giro del web).

Tanto che gli 007 francesi, come ha riportato anche “Le Figaro”, hanno parlato apertamente del rischio di un golpe[4]. Del rischio, cioè, che elementi eversivi possano infiltrare il movimento per finalità diverse da quelle più che legittime che lo hanno originato. Le metodologie, del resto, sembrano ricalcare specularmente le attività di PR, Digital PR e storytelling utilizzate per le cosiddette “rivoluzioni colorate” e per le “primavere arabe”.

C’è, al proposito, da sottolineare una curiosa contemporaneità tra le critiche all’esercito europeo di Trump, le manifestazioni parigine e la visita che il segretario di Stato americano, il già direttore della CIA Mike Pompeo, ha fatto in Germania, dichiarando a un noto circolo atlantista, il German Marshall Fund, che gli Stati Uniti sono pronti a sostenere e guidare la nascita di un “nuovo ordine mondiale liberale” che si contrapponga al globalismo[5]. Globalismo che, nella narrativa della presidenza Trump, si identifica soprattutto con l’establishment europeo. Un discorso fatto nella Germania di Angela Merkel, quella Merkel che insieme a Macron sta sostenendo una linea politica di maggiore autonomia da parte dell’Europa comunitaria nei confronti dell’alleato d’oltreoceano.

Ora, posto che un ordine mondiale liberale contrapposto al globalismo rappresenterebbe un sostanziale ossimoro concettuale (come può il sistema che ha generato il globalismo, cioè il liberalismo mercatista americano, combatterlo?) è evidente che con questo si intende la volontà statunitense di superare il multilateralismo nelle relazioni internazionali per indirizzarsi su un duro e puro unilateralismo americano, che conservi saldamente gli USA nel ruolo di gendarmi del mondo, scongiurando così la transizione verso un mondo multipolare, transizione per la quale la costruzione di un’Europa forte sarebbe essenziale.

La coincidenza di questi fatti, e della crescente ostilità americana nei confronti dell’ex pupillo dei potenti Macron, con la rivolta francese lascia senza dubbio un po’ di inquietudine per la possibilità che le proteste vengano effettivamente cavalcate da chi trama contro un’Europa più forte e politicamente più coesa. Potrebbe essere forse un ulteriore e definitivo segnale di come la declinante (quanto meno sul piano economico) superpotenza americana stia tentando di usare a proprio vantaggio il più ampio fenomeno populista-sovranista in Europa, conducendone le rivendicazioni su un binario morto.

Così, la giusta e difficoltosa presa di coscienza, da parte dei popoli europei, del fallimento dell’illusione di un ordine mondiale liberale dai risvolti positivi ed emancipatori, rischia ora di essere spenta dall’illusione di un “nuovo ordine mondiale liberale” basato sul populismo trumpista, svuotando di significato le parole chiave delle proteste e delle rivendicazioni dei popoli europei. Un pericolo mortale non solo per la reale sovranità della Francia, ma, in generale, dell’intero continente.


NOTE

[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/12/08/gilet-gialli-125mila-in-piazza-in-tutta-la-francia-1-385-fermi-e-70-feriti-negli-scontri-polizia-spara-proiettili-di-gomma-e-ferisce-reporter/4821658/amp/

[2] http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2018/12/09/gilet-gialliparigitrump-non-intervenga_ccd0e5ba-dcbd-40c0-abeb-f177185fb56e.html

[3] https://www.maurizioblondet.it/gillet-gialli-rifiutano-lincontro-con-il-governo-francese-e-chiedono-la-nomina-del-generale-de-villiers-che-fu-licenziato-da-macron-a-capo-del-governo/

[4] https://www.liberoquotidiano.it/news/esteri/13408184/emmanuel-macron-golpe-gilet-gialli-militare-pierre-de-villiers-premier-edouard-philippe-sostituito.amp

[5] http://m.dagospia.com/maglie-il-discorso-bomba-di-mike-pompeo-censurato-dai-giornali-italiani-trump-189974


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Giornalista pubblicista, ha scritto per diverse testate, occupandosi prevalentemente di politica estera. Ha all'attivo due saggi pubblicati dal Circolo Proudhon. E' autore dell'articolo "Tra Soros e Bannon", apparso su Eurasia 4-2018.