Il progetto del governo cinese di realizzare una rete ferroviaria ad alta velocità, che permetta di collegare l’Estremo Oriente con l’Asia centrale e l’Europa, si inserisce perfettamente nello scontro fra le grandi potenze teso all’accaparramento delle risorse energetiche caspiche e caucasiche. Il piano, la cui implementazione è prevista entro il 2025, previo consenso dei paesi coinvolti, propone una rivisitazione in chiave contemporanea dell’antico Orient Express, nel tentativo di unire l’Occidente con l’Oriente, in un’acerrima competizione con la Transiberiana, la storica ed imponente rete ferroviaria russa che attraversa l’Eurasia e funge da ponte di collegamento fra Siberia e Russia europea. I treni superveloci non sono destinati al solo trasporto di passeggeri. Le motivazioni fondanti sono, in realtà, la nascita di nuovi poli industriali, la velocizzazione dei traffici di merci e la riduzione dei costi di trasporto ma soprattutto una maggiore facilitazione nel processo di approvvigionamento delle primizie energetiche. La strategia di Pechino è semplice e al contempo ben congegnata. Beijing sta cercando di allargare la partecipazione e la collaborazione al maggior numero di paesi, in Asia centrale e meridionale, nonché nel Sud est asiatico. La Repubblica popolare ha deciso di adottare lo sperimentato “metodo africano”, dotando di ferrovie e treni tecnologicamente avanzati i ricchi governi dei paesi produttori della regione centro-asiatica, ricevendo in cambio materie prime, quali petrolio e gas naturale, indispensabili al nutrimento del gigante asiatico. Il piano naturalmente è foriero di profonde minacce al monopolio energetico che Gazprom detiene nell’area, un monopolio che sta faticosamente cercando di difendere contro gli attacchi, segnatamente geoeconomici e geopolitici, di matrice cinese ed americana, che si esplicano in progetti di gasdotti e oleodotti alternativi a quelli russi.

Gli interessi cinesi in Asia centrale e meridionale

L’agenda politica mandarina rivela, nei confronti dell’area centro-asiatica, due importanti priorità:

  1. garantire l’integrità fisica della Repubblica popolare e la sicurezza dei confini nazionali, promuovendo la stabilità regionale.
  2. Usufruire delle ingenti risorse energetiche delle ex-repubbliche sovietiche centro-asiatiche, intessendo profittevoli e duraturi legami economici con le stesse.

Nel corso della guerra fredda, la Cina di Mao non riuscì a ritagliarsi una propria sfera di influenza in Asia centrale e meridionale, territorio sottoposto ad una soffocante reggenza di stampo sovietico. La situazione mutò sensibilmente dall’inizio degli anni ottanta, quando la classe dirigente mandarina adottò un nuovo approccio nelle relazioni internazionali: il cosiddetto “Mulin Youhao”, relazioni di buon vicinato. Da quel momento, numerosi furono gli sforzi di Pechino di intavolare un dialogo con gli stati vicini, inizialmente con la Russia, con la Mongolia, con l’India, con le due Coree e successivamente anche con Indonesia e Singapore. E quando, nel 1991, l’implosione dell’Unione Sovietica decretò la fine dell’equilibrio bipolare, che per tanti anni aveva fatto da contrafforte alla traballante impalcatura diplomatica che reggeva l’ordine internazionale, si verificò un terremoto geopolitico in Asia centrale, che generò una sorta di buco nero di cui la dirigenza comunista cinese subito cercò di approfittare. Difatti, Pechino iniziò a conchiudere rimarchevoli accordi di carattere commerciale, politico e militare con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Nel corso degli anni novanta, il volume degli scambi fra Repubblica popolare e Asia centrale aveva raggiunto i 465 milioni di dollari nel 1992 e i 7.7 miliardi nel 20041. In particolare, in seguito all’accordo raggiunto nel 1998 con il Kazakistan sulla disputa riguardante i confini nazionali, Pechino incentivò una maggiore cooperazione bilaterale di carattere economico, soprattutto fra l’ex repubblica sovietica e la regione dello Xinjiang, turcofona e sensibilmente più aperta ai traffici con le realtà politiche centro-asiatiche.

I rapporti economici che Beijing ha intessuto con i paesi dell’area sono stati facilitati dalla complementarità delle loro economie. Con il “metodo africano”, la classe dirigente mandarina ha calato sul tavolo di gioco un ottimo poker strategico che le consente di soddisfare gli obiettivi che ha sempre coltivato nella regione. In primo luogo accaparrarsi il gas naturale e il petrolio che trabocca da questi territori. Il governo cinese ha infatti investito ingenti risorse tese alla costruzione di infrastrutture che permettano la trivellazione, la produzione e la raffinazione degli idrocarburi caspici e caucasici. Attraverso poi un sapiente gioco di condutture multimodali, queste materie prime giungono in Cina, bypassando la Russia a sud, per saziare le necessità nutritive del gigante mandarino. La cooperazione economica regionale e la differenziazione delle rotte per l’esportazione delle risorse costituiscono un ottimo strumento per combattere il monopolio energetico russo cha ha da tempo assurto alla funzione di leverage della politica estera del Cremlino. Attraverso questa chiave di lettura bisogna interpretare il progetto del TAPI (trans-Afghan pipeline) che, supportato dalla Cina e dall’Asian Development Bank, auspica il trasporto degli idrocarburi turkmeni verso Pechino, passando sul suolo afgano, pakistano e indiano. A questo bisogna aggiungere i diversi accordi energetici bilaterali che la China National Petroleum Corporation ha stipulato con i vari paesi produttori2. Inoltre, la costruzione di strade e ferrovie che rendono più veloci e meno costosi i collegamenti fra Cina e vicini centro-asiatici, ha permesso la letterale inondazione dei prodotti agricoli e manufatti cinesi nei mercati uzbeki, turkmeni, kazaki, afgani, pakistani. Naturalmente, l’integrazione economica non è fine a se stessa, ma costituisce un preludio ad una più profonda e feconda integrazione di carattere politico e militare.

La sicurezza e la stabilità regionale sono infatti un’altra considerevole priorità per il dragone cinese. Pechino, impegnato nel garantire l’integrità e la coesione nazionale, ha promosso una maggiore collaborazione, su un piano multilaterale, con i paesi della regione, per contrastare la diffusione dei fenomeni del separatismo, terrorismo ed estremismo. In particolare, la preoccupazione precipua del governo cinese è impedire che le forze separatiste e i movimenti estremisti dilaghino a macchia d’olio nell’area del Turkestan e dello Xinjiang. La diffusione poi del fondamentalismo islamico in Asia centrale e meridionale contribuisce a dipingere un quadro angoscioso, presciente di un’irreversibile crisi che mostra reali potenzialità di minacciare quella stabilità regionale che costituisce la pregiudiziale fondamentale per l’ottemperamento degli obiettivi dei decisori cinesi. Sotto questa lente d’ingrandimento bisogna quindi leggere l’accordo che ha permesso la costituzione della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) che, realizzando una maggiore cooperazione di carattere economico e militare, cerca di combattere il cancro che travaglia la regione: il radicalismo islamico e il terrorismo3. Se scostiamo il velo di Maya della politica, notiamo come la lotta al terrorismo e la necessità di garantire la stabilità regionale non sono una necessità etica da soddisfare in maniera incondizionata per il “quieto vivere” generale, ma costituiscono delle condizioni che il governo di Pechino non può eludere nel tentativo di imporre il proprio primato nella regione. Difatti, in seguito all’11 settembre, la bushiana lotta al terrore, che ha visto le truppe americane insediarsi stabilmente in Uzbekistan, in Kirghizistan, in Tagikistan, in Afghanistan, ha spinto la classe dirigente cinese ad attribuire una connotazione marcatamente anti americana alle politiche attuate dalla OCS. Per imporre la propria influenza economica e politica nella regione, la Cina ha dovuto e dovrà necessariamente contrastare le pretese che Washington nutre nei confronti dell’area e quell’antico dominio esclusivo, di sapore zarista e sovietico, che Mosca ha sempre rivendicato nei confronti del territorio.

* Marco Luigi Cimminella, laureando in Relazioni internazionali e diplomatiche (Università l’Orientale di Napoli), collabora con “Eurasia”

Note

1- Central Asia – Caucasus Institute Silk Road Studies Program – A Joint Transatlantic Research and Policy Center
Johns Hopkins University, The New Silk Roads
Transport and Trade in Greater Central Asia, Edited by S. Frederick Starr.

2007 Central Asia-Caucasus Institute & Silk Road Studies Program

Niklas Swanström, Nicklas Norling, Zhang Li, China, pagg. 389-420.

http://www.silkroadstudies.org/new/docs/publications/GCA/GCAPUB-12.pdf

2- John Foster, A pipeline through a troubled land: Afghanistan, Canada, and the new great Energy game, Foreign Policy Series, volume 3 n°1, June 19, 2008, Canadian Centre for Policy Alternatives (CCPA).

http://www.policyalternatives.ca/sites/default/files/uploads/publications/National_Office_Pubs/2008/A_Pipeline_Through_a_Troubled_Land.pdf

3- Pensiamo al movimento talebano in Afghanistan e al Movimento islamico del Uzbekistan


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