“Per conseguenza è un precetto o regola generale della ragione che ogni uomo debba sforzarsi alla pace, per quanto abbia speranza di ottenerla, e quando non possa ottenerla, cerchi e usi tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura, che è, cercare la pace e conseguirla. La seconda, la somma del diritto di natura, che è difendersi con tutti i mezzi possibili.”

(Thomas Hobbes, Leviatano)

 

Nella sua personale interpretazione della più famosa opera di Thomas Hobbes, Carl Schmitt sottolinea come la figura del Leviatano evochi in primo luogo “un simbolo mitico pieno di reconditi significati[1]. Questo mito, secondo il grande giurista tedesco, deve essere inteso in primo luogo come una lotta secolare di immagini. Infatti, nel libro di Giobbe, accanto alla figura del Leviatano (l’animale marino più forte e indomabile) viene raffigurato con pari evidenza e ricchezza di particolari un altro animale: il terrestre Behemoth.

Dopo un rapido sguardo alle interpretazioni cristiane di questo “mito” (ad esempio, in base all’Apocalisse di Giovanni, nel celebre Liber Floridus del XII sec. l’Anticristo viene raffigurato in trono sul Leviatano mentre un demone cavalca Behemoth), Schmitt si concentra sull’esegesi ebraica, dove entrambe le bestie divengono simboli delle potenze mondane e pagane ostili agli ebrei. “Il Leviatano – afferma Schmitt – rappresenta la bestie sulle mille montagne (Salmi 50,10) e cioè i popoli pagani[2]. In questo senso, la storia del mondo viene presentata come un combattimento dei popoli pagani gli uni contro gli altri. In particolare la lotta si svolge tra il Leviatano – le potenze marittime – e Behemoth – le potenze terrestri. Behemoth cerca di squarciare il Leviatano con le corna, mentre il Leviatano ottura con le pinne bocca e narici di Behemoth uccidendolo. Cosa che, prosegue Schmitt, rappresenta “una bella immagine dello strangolamento di una potenza terrestre con un blocco navale[3] (il riferimento, naturalmente, è al blocco navale con cui i Britannici strangolarono l’economia tedesca nel corso della Prima Guerra Mondiale). In tutto ciò, gli ebrei stanno a guardare come i popoli della terra si uccidono a vicenda: “per loro, questi reciproci macelli e sgozzamenti sono legali e kosher. Perciò essi si cibano della carne dei popoli uccisi e ne traggono vita[4].

Riferendo all’attualità l’interpretazione schmittiana di questo tema biblico, non risulta particolarmente difficile identificare in Behemoth e Leviatano rispettivamente Russia ed Europa, ed in coloro che “si cibano della carne dei popoli uccisi e ne traggono vita” gli Stati Uniti.

In due articoli apparsi sul sito informatico di “Eurasia” dal titolo Il nemico dell’Europa e Modelli geopolitici a confronto si è cercato di spiegare in che modo gli USA, attraverso due guerre mondiali nell’arco di trent’anni (non a caso lo storico Eric Hobsbawm ha parlato di “seconda guerra dei trent’anni” ed Ernst Nolte di “guerra civile europea”), siano riusciti a scalzare la Gran Bretagna dal ruolo di potenza globale logorandola in una lotta senza quartiere con la Germania. La “Grande Guerra” si presta particolarmente a questo schema interpretativo, visto che gli Stati Uniti intervennero solo dopo essersi trasformati da Paese debitore a Paese creditore e dopo essersi assicurati che i contendenti europei sarebbero usciti dal conflitto, a prescindere dall’esito, in condizioni economiche disastrose. E non pare fuori luogo utilizzare il medesimo schema interpretativo di fronte all’odierna crisi nell’Europa orientale, visto che, oggi come nel 1914, gli Stati Uniti risultano essere il più grande Paese debitore al mondo. 

Tuttavia, un simile approccio non può prescindere da alcuni adeguati approfondimenti. Si è scelto di iniziare questa analisi utilizzando una citazione di Thomas Hobbes per il semplice motivo che il filosofo inglese riconosce che lo Stato è in primo luogo un sistema di sicurezza atto a garantire la sicurezza al proprio popolo e ad evitare il ritorno allo stato di natura: alla lotta di tutti contro tutti.

Hobbes afferma espressamente che è dovere di ogni uomo sforzarsi per la pace. Ma quando questa non può essere ottenuta, è suo diritto utilizzare i vantaggi della guerra. Il pensatore di Malmesbury, ad onor del vero, dice anche qualcos’altro. Nello specifico afferma la necessità del rispetto dei patti, perché: “senza tale garanzia i patti sono vani e solo vuote parole, e rimanendo il diritto di tutti gli uomini a tutte le cose, si è sempre nella condizione di guerra […] Ma quando un patto è fatto, allora infrangerlo è ingiusto e la definizione di ingiustizia non è altro che il non adempimento del patto[5]. E ancora: “Perciò chi infrange il patto che ha fatto, e di conseguenza dichiara che pensa di poter fare così con ragione, non può essere ricevuto in una società che si riunisce per la pace e la difesa, se non per errore di coloro che lo ricevono, né, una volta ricevuto, rimanere senza che quelli vedano il pericolo del loro errore[6].

Qual è l’utilità di queste citazioni di fronte all’attualità del conflitto in Ucraina? È bene andare con ordine. Nel 1987 Stati Uniti ed Unione Sovietica siglarono l’INF – Intermediate-range Nuclear Force Treaty che regolava il posizionamento dei missili balistici a medio e corto raggio sul suolo europeo. Più o meno nello stesso periodo, Washington diede garanzie a Mosca sulla non espansione della NATO ad est.

Nel 2014, l’Ucraina era governata da Viktor Yanukovic, la cui colpa principale (più della diffusa corruzione) era quella di aver opzionato il possibile ingresso del Paese nell’Unione Economica Eurasiatica. Infatti, nella sua visione, la Repubblica ex-sovietica avrebbe dovuto rappresentare un ponte tra l’est e l’ovest e non una cesura geografica tra la Russia ed il resto dell’Europa. In un’intervista rilasciata alla CNN poche settimane dopo il colpo di Stato a Kiev, lo speculatore (“filantropo”) George Soros dichiarò apertamente di aver contribuito a rovesciare il “regime filorusso” per creare le condizioni atte a favorire lo sviluppo di una democrazia di tipo occidentale. Non solo, il governo ucraino postgolpista venne selezionato con una metodologia aziendale. Nello specifico, la selezione venne fatta da due società di “cacciatori di teste”, Pedersen & Partners e Korn Ferry, che scelsero 24 persone da una lista di 185 candidati tra gli stranieri che vivevano in Ucraina (non a caso nel governo post-golpe erano presenti un americano, un lituano ed un georgiano) e tra gli Ucraini che vivevano in Canada e negli Stati Uniti. L’intero processo – e ciò non deve stupire – fu finanziato dallo stesso Soros attraverso la fondazione e rete di consulenza politica Renaissance[7].

Non meno inquietante è stato il processo di selezione dell’attuale presidente ucraino, che la propaganda atlantista, in uno slancio a metà tra umorismo e blasfemia, ha paragonato a Salvador Allende. Volodymir Zelens’kyi, attore e comico di origini ebraiche dalle doti indiscutibili (vista la sua capacità di ipnotizzare un pubblico occidentale già inebetito da due anni di retorica pandemica militarista), prima di dedicarsi alla politica era sotto contratto con la televisione privata del potente oligarca Igor Kolomoisky. Anch’egli di origini ebraiche, già presidente della Comunità Ebraica Unita d’Ucraina e del Consiglio Europeo delle Comunità Ebraiche, Kolomoisky è noto anche per aver finanziato i gruppi paramilitari che per otto anni hanno fatto strage di civili in Donbass e per aver posto taglie di 10.000 dollari sulle teste dei miliziani separatisti. (Va da sé che si tratta degli stessi gruppi che hanno assassinato il giornalista italiano Andy Rocchelli nel silenzio assoluto dei nostri mezzi di informazione, ben più interessati a difendere i diritti calpestati di uno studente egiziano che si occupa gender studies).

Ora, tornando all’affermazione hobbesiana secondo la quale “la definizione di ingiustizia non è altro che il non adempimento del patto”, non si può non ricordare che, oltre ad aver acconsentito ad una larga espansione della NATO verso oriente, nel 2018 (sotto l’amministrazione Trump) gli Stati Uniti hanno optato per il ritiro unilaterale dall’INF, sancendo di fatto la possibilità di portare i loro missili ai confini della Russia. Come avrebbe dovuto reagire la seconda potenza militare al mondo di fronte ad un atto simile? È bene partire dagli aspetti diplomatici.

Il 17 dicembre 2021 il Ministero degli Affari Esteri della Federazione russa ha pubblicato la bozza dell’accordo sulle garanzie di sicurezza presentate a NATO e Stati Uniti. Queste includevano: a) escludere una ulteriore espansione della NATO ad est (Ucraina compresa); b) non schierare truppe aggiuntive; c) abbandonare le attività militari della NATO in Ucraina, Europa orientale, Caucaso e Asia centrale; d) non schierare missili a medio e corto raggio in aree da cui possono essere colpiti altri territori; e) impegnarsi a non creare condizioni che possano essere percepite come minacce; f) creare una linea calda per i contatti di emergenza[8].

Oltre a ciò, Mosca ha richiesto espressamente che venisse ritirata la dichiarazione di Bucarest in cui la NATO stabilì il principio della “porta aperta” rispetto all’adesione di Ucraina e Georgia all’alleanza. Naturalmente, Washington e NATO hanno rigettato in toto le richieste russe.

È fondamentale sottolineare questo fatto, perché la libertà invocata oggi dal presidente ucraino nei suoi “accorati” appelli non è altro che la “libertà” dei suoi protettori di mettere sul suolo ucraino missili che possono raggiungere Mosca in pochi minuti, distruggendola prima ancora che questa abbia la possibilità di rispondere. E la retorica belligerante utilizzata dai governi collaborazionisti europei (Italia in primis) sta difendendo questa idea piuttosto bislacca di libertà, in base alla quale (lo ripetiamo) alla seconda potenza militare al mondo (nonché principale fornitore energetico della stessa Europa) non è garantito il diritto alla sicurezza. Per questa idea malsana di libertà (Italia ancora una volta in primis, nonostante la presenza di oltre 70 testate nucleari statunitensi che la rendono obiettivo diretto in caso di eventuale rappresaglia) si è scelto di inviare armi a Kiev (che finiranno nelle mani di gruppi paramilitari più interessati a dare la caccia ai propri concittadini filorussi che non a fare la guerra ai Russi) e di sottoporre a regime sanzionatorio solo un quarto del sistema bancario russo. In nome di questa idea di libertà, prodotto di quella manipolazione ideologico-geografica che corrisponde al nome di Occidente, si è optato (con grande gioia di Washington) per il suicidio economico-finanziario dell’Europa. E sempre in base a questa inquietante idea di libertà si è scelto di scatenare una “caccia alle streghe” in cui si chiede l’abiura della propria Patria ad artisti di fama internazionale; in cui vengono cancellati i corsi su Dostoevskji, salvo poi ripristinarli in presenza del “contraddittorio” di un autore ucraino (come se la par condicio si potesse applicare alla letteratura); in cui ogni voce discordante rispetto alla vulgata ufficiale viene tacitata e tacciata di filoputinismo; ed in cui gli ultimi trent’anni di aggressioni NATO (tra cui settantotto giorni di bombardamenti sulla Serbia) ed i precedenti otto anni di guerra in Ucraina vengono dimenticati.

C’è un termine per definire tutto ciò: guerra ideologica. La guerra ideologica è quella in cui, per riproporre una definizione di Schmitt, il nemico viene demonizzato e criminalizzato. Dunque, diviene meritevole di annichilimento. La guerra ideologica non conosce limiti e si fonda sul sovvertimento della realtà. È la guerra immaginaria di pseudointellettuali, giornalisti e analisti geopolitici in preda alla sovraeccitazione bellica. È la guerra in cui si creano i falsi miti: l’eroica resistenza dei soldati ucraini sull’Isola dei Serpenti (arresi senza sparare un colpo), il fantasma di Kiev che abbatte sei caccia russi (mai esistito), la resistenza ucraina che gira i cartelli stradali per confondere l’avanzata russa (nell’era della guerra tecnologica). La guerra immaginaria è quella in cui la Russia viene descritta come Paese isolato quando invece rafforza la sua cooperazione con Cina e Pakistan (entrambe potenze nucleari) ed in cui UE ed Anglosfera vengono presentate come il “mondo intero”. 


NOTE

[1]C. Schmitt, Sul Leviatano, Il Mulino, Bologna 2011, p. 39.

[2]Ibidem, p. 45.

[3]Ibidem.

[4]Ibidem.

[5]T. Hobbes, Leviatano, BUR, Milano 2011, p. 149.

[6]Ibidem, p. 155.

[7]Se Soros e la finanza scelgono il governo dell’Ucraina, www.ilsole24ore.com.

[8]Russia: rivelate le garanzie di sicurezza richieste alla NATO, www.sicurezzainternazionale.luiss.it.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).