Yannick Sauveur, Jean Thiriart, il geopolitico militante, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2021, pp. 173, € 18.00.

 

Si potrebbe affermare, senza timore di venire smentiti, che questa biografia del “geopolitico militante” (teorico dell’unificazione reale dell’Europa) abbia in qualche modo fatto da apripista all’attuale rinnovato interesse per il pensiero thiriartiano: pubblicata in francese nel 2016, oggi vede la luce nella traduzione di Claudio Mutti per le Edizioni all’insegna del Veltro, che in Italia sono indubbiamente all’avanguardia nel campo degli studi thiriartiani. Infatti, oltre a questa biografia firmata da Yannick Sauveur (ricca di aneddoti ed immagini che ritraggono anche alcuni momenti privati della vita di Thiriart), nel 2020 la casa editrice parmense ha pubblicato un notevole studio di Lorenzo Disogra dal titolo emblematico L’Europa come rivoluzione e prima ancora, nel 2018, L’impero euro-sovietico da Vladivostok a Dublino, un’opera postuma in cui Thiriart cerca di perfezionare definitivamente la sua visione geopolitica. A questi libri si potrebbero aggiungere molti testi (inediti o comunque difficilmente reperibili) pubblicati nell’ultimo decennio su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, nonché altri lavori che indagano da diverse prospettive il pensiero thiriartiano. Tra questi meritano menzione gli studi dello storico Matteo Luca Andriola, l’opera di Alfredo Villano Da Evola a Mao. La destra radicale dal neofascismo ai nazimaoisti (Luni Editrice 2017), ed una nuova raccolta di contributi di diversi studiosi che vedrà prossimamente la luce per AGA Editrice.

Ora, è quasi naturale domandarsi il perché di questo rinnovato interesse per un pensiero che storicamente è stato più denigrato che studiato e che, soprattutto negli ambienti di “destra” (in particolar modo negli ultimi trent’anni di prona adesione all’atlantismo), ha raccolto quasi esclusivamente indifferenza e disprezzo. La ragione di fondo la spiega in termini semplici lo stesso Sauveur nell’introduzione alla biografia: Thiriart “ha avuto il torto di avere ragione troppo presto”. Ovvero, ha avuto il torto di avere ragione in un momento in cui nessuno era ancora pronto ad un simile approccio brutalmente pragmatico quanto realista, ed in un momento in cui la vittoria di Washington nella Guerra Fredda sembrava aver condannato il mondo alla “fine della storia”. La colpa del pensiero thiriartiano è stata quella di aver avuto uno spessore storico in un momento in cui qualsivoglia visione di lungo periodo per l’Europa non poteva prescindere dalla supina accettazione del sistema liberal-capitalistico globale a guida nordamericana.

Il disprezzo dei “destrorsi” deriva dal semplice fatto che Thiriart non ha mai smesso di definirli come “piccoli imbecilli” autocondannatisi all’irrilevanza politica dalle illusioni nazionaliste e dalle nostalgie per un passato concluso quanto irripetibile. In questo senso, il teorico belga si rifaceva alla ben nota affermazione di José Ortega y Gasset secondo la quale “essere di destra o essere di sinistra equivale a scegliere una delle innumerevoli maniere che si offrono all’uomo per essere un imbecille”. Thiriart, infatti, era ben consapevole che confinare il nazionalismo a destra e l’azione sociale rivoluzionaria a sinistra non avrebbe fatto altro che favorire il sistema oppressivo e “demolercio” instaurato in Europa dopo il 1945: l’anno in cui il “Vecchio Continente”, dopo tre decenni di guerra civile, ha perso definitivamente la propria classe dirigente, ma non quella “possidente”, che ha creduto bene di schierarsi rapidamente dalla parte di un occupante che le ha garantito protezione e fortuna. Una classe che, insieme con quella dei collaborazionisti politici, ha svenduto spudoratamente al colonizzatore tutto ciò che si poteva vendere, compresa la morale elementare della vita quotidiana. Così la disoccupazione dilagante è stata accompagnata dal culto dell’immigrazione, dalle giustificazioni per l’uso di droghe (non a caso prodotte nelle aree in cui gli stessi USA hanno portato la guerra) e dall’elogio sperticato delle deviazioni sessuali che trova la sua più evidente manifestazione nei “pride” finanziati dalla Coca Cola.

Quello di Thiriart è un pensiero puramente europeo, teso verso liberazione dell’Europa. La tensione verso l’unificazione reale del Vecchio Continente è presente in tutto il suo percorso intellettuale: dalla collaborazione con l’AGRA – Amis du Grand Reich Allemand (movimento che in qualche modo rappresentava la sinistra nazionalsocialista in contrapposizione alla destra del REX di Léon Degrelle) alla Jeune Europe, fino alla svolta “euro-sovietica” degli ultimi anni. La stessa parentesi del sostegno all’OAS in Algeria o dell’opposizione alla decolonizzazione del Congo Belga è da leggersi in questo senso. Thiriart, infatti, era ben consapevole, prima di molti altri, che il processo di decolonizzazione si sarebbe presto trasformato in una nuova forma di colonizzazione: una lezione imparata dai processi storici. La Dottrina Monroe del 1823, manifesto dell’isolazionismo nordamericano, ad esempio, non fu altro che il tentativo di Washington di sostituirsi all’Europa nello sfruttamento coloniale dell’America centrale e meridionale. Lo stesso discorso si può facilmente applicare al Congo nella seconda metà del XX secolo (basti pensare all’ambiguo ruolo della CIA nella costruzione dell’“indipendenza” dello Stato africano).

Diverso è stato il contesto algerino. Qui il sostegno all’OAS (non si può dimenticare a questo proposito l’elogio che Carl Schmitt fa del “partigiano” Raoul Salan) deve essere interpretato alla luce del fatto che Thiriart ha sempre ritenuto l’Africa del Nord (e più in generale tutta l’Africa musulmana) come parte integrante dell’Europa. La liberazione del Mediterraneo dalla presenza nordamericana, di fatto, non può prescindere dalla stretta collaborazione tra i popoli rivieraschi di questo “lago interno”, mentre il confine meridionale dell’Europa è rappresentato dalla linea del Sahara (una vera “riva” geopolitica, un confine difficilmente superabile). Anzi, tale confine potrebbe essere spostato addirittura a Città del Capo, unificando definitivamente l’“isola mondo” (la massa eurasiatico-africana) ed eliminando la nefasta influenza svolta al suo interno da alcune regioni periferiche.

L’avventura dell’“ordine militante” Jeune Europe si inscrive in questo contesto. Il nome dell’organizzazione merita un breve approfondimento. I primi rimandi sono ai movimenti creati da Giuseppe Mazzini negli anni ‘30 dell’Ottocento che hanno ispirato (non poco) anche il panarabismo ed i teorici del Ba’ath siriano (in particolar modo Michel ‘Aflaq). Tuttavia, si nota anche una certa influenza del libro Jeune Europe di René Dupois ed Alexandre Marc del 1933. Le idee di Marc sono abbastanza interessanti. Questi, infatti, era convinto che esistessero due Europe: una vecchia e marcia legata al parlamentarismo, ed una “Europa nuova” guidata Mussolini, Hitler e Stalin (il terzo, non a caso, fu con Federico II uno dei personaggi storici preferiti di Jean Thiriart). Le idee di Marc erano a loro volta influenzate dal Fronte Nero di Otto Strasser, che riteneva la rivoluzione non solo un semplice cambiamento radicale nelle istituzioni politiche ed economiche, ma anche un atto antropologico di transizione verso l’homo novus.

Nell’esperienza di Jeune Europe si ritrovano in nuce le impostazioni ideologiche che Thiriart porterà a maturazione definitiva negli anni ‘80. Nel periodo dell’attivismo politico e militante di Jeune Europe Thiriart inizia a sviluppare i concetti di “imperialismo di integrazione” (da opporsi ad “imperialismo di dominio”) e di “nazione-fusione” ed “onnicittadinanza” (una costruzione politica in cui ogni cittadino, in ogni luogo, può ambire a qualsiasi magistratura). Si tratta di una concezione alternativa e contrapposta a quella della “nazione-addizione” (l’Europa come assemblaggio di piccole patrie che si autogovernano, vale a dire l’Europa di coloro che non vogliono farla ma non osano dirlo, ovvero l’Europa sottoposta ad una condizione di cattività geopolitica da parte nordamericana). A questo periodo risalgono le teorie sull’“impero di 400 milioni di uomini da Brest a Bucarest”: un’entità impostata su di un nazionalismo dinamico europeo e sulla “neutralità armata”, né con Washington né con Mosca. Tuttavia, mentre Thiriart non ritiene possibile alcuna associazione con gli Stati Uniti, lo stesso discorso non vale né per l’URSS né tanto meno per la Cina. Un’alleanza tra Cina ed Europa in chiave antiamericana è infatti altamente auspicabile. La Cina, profetizza Thiriart, nel XXI secolo (come effettivamente sta avvenendo ora) non potrà mai tollerare la presenza USA nel Mare Cinese Meridionale. Di conseguenza, essa è l’alleato ideale per l’Europa.

L’impostazione “terzaforzista” (né con Washington né con Mosca) viene superata negli anni ‘80 con le teorie sulla formazione dell’“impero euro-sovietico”, che Thiriart presentò anche nel corso del suo viaggio a Mosca del 1992 (nel corso del quale incontrò, tra gli altri, anche il “fumoso” Dugin) in un momento in cui l’Unione Sovietica era già implosa.

In questo periodo, ben descritto nell’opera di Sauveur, Thiriart si convince della necessità di dare vita ad un comunismo nazional-europeo moderno: un “comunismo estetico” proveniente dall’alto, da una élite lucida capace di sostituire l’homo absurdus con l’homo novus. Thiriart era convinto che il comunismo sovietico fosse “semplicemente idiota” e che tale “idiozia” fosse la causa del suo fallimento. Ad esso si dovrebbe sostituire una forma di comunismo spartano (prussianizzato): o meglio, un comunitarismo capace di fornire una costruzione stabile della società umana che superi le crisi cicliche dell’ipercapitalismo e della finanza senza patria. Non credendo alla spontaneità rivoluzionaria delle masse (il cui interesse per la politica o la geopolitica ha spesso carattere esclusivamente morboso, anche in virtù dell’imposizione di un modello di società che premia l’edonismo esasperato e la meschinità totale), l’unica soluzione era da ricercare in un’azione proveniente dall’alto: nella liberazione delle masse per mezzo dell’educazione (eliminando la quinta colonna americana in Europa) e nell’unificazione dello spazio continentale attraverso linee marcatamente antiamericane ed antisioniste, e ciò grazie all’opera di un “nuovo Stalin” capace di compiere su scala europea un’azione simile a quella svolta nell’antichità da Filippo II di Macedonia in Grecia.

Un pensiero che solo fino a qualche anno fa veniva denigrato e disprezzato assume oggi maggiore vigore con le immagini del disastroso epilogo dell’aggressione “occidentale” all’Afghanistan. Un evento che ha ulteriormente dimostrato, qualora ve ne fosse ancora bisogno, la subalternità dei Paesi europei all’interno dell’Alleanza Atlantica e il carattere marcatamente antieuropeo della stessa.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).