Già nel 2009, il giornalista e saggista anglo-pakistano Tariq Ali, nel suo libro The duel. Pakistan on the flying path of the American Power (Simon & Schuster 2009), affermò che se la coalizione a guida nordamericana avesse voluto realmente vincere la guerra in Afghanistan avrebbe dovuto schierare sul campo oltre un milione di uomini e mettere in conto almeno un pari numero di vittime totali o leggermente inferiore. Al contrario, la coalizione ha optato per il ricorso al bombardamento (per mezzo di droni) delle aree tribali di Pakistan e Afghanistan. Una scelta che ha ulteriormente esasperato gli animi di una popolazione (in larga parte di etnia pashtun) il cui diritto consuetudinario (noto come Pashtunwali) ha tra i suoi concetti fondanti quelli di “turah” (coraggio) e di “badal”: il ricorso naturale alle armi (alla vendetta di sangue) nel momento in cui un membro della famiglia (o della comunità) viene ucciso.

Di fatto, la strategia messa in atto dalla coalizione “occidentale” non ha fatto altro che ingrossare per anni le fila della resistenza. Tanto che la stessa coalizione non ha mai realmente controllato il Paese, fatta esclusione per alcune aree dei principali centri urbani. Di conseguenza, non dovrebbe sorprendere più di tanto la facilità e rapidità con la quale le forze della resistenza hanno preso possesso dell’Afghanistan nel momento in cui gli Stati Uniti hanno annunciato il loro ritiro definitivo. Tuttavia, le ragioni di quello che viene definito (forse troppo precipitosamente) come un “fallimento dell’Occidente” meritano un’analisi ben più approfondita che esuli dai semipatetici stereotipi presentati dai mezzi di comunicazione della parte del mondo sottoposta all’egemonia culturale atlantista.

In primo luogo è bene ricordare, come ha affermato lo stesso presidente statunitense Joseph R. Biden in uno dei suoi rari momenti di lucidità, che l’obiettivo degli USA non era quello di costruire uno Stato in Afghanistan. (Lo è ancora di meno ora che gli Stati Uniti devono affrontare i gravi problemi strutturali del proprio sistema interno.) L’obiettivo di Washington, infatti, era quello di insinuarsi nel centro del continente eurasiatico per impedire una sua rapida interconnessione. Come riporta Marco Ghisetti nel suo notevole studio sul pensiero geopolitico della talassocrazia, la prima preoccupazione degli strateghi nordamericani è sempre stata quella che il potenziale industriale del rimland (la fascia costiera del “supercontinente assiale”) si alleasse con le risorse dell’heartland (il cuore della terra)[1]. A questo proposito, Zbigniew Brzezinski enfatizzò a più riprese il pericolo di un’Eurasia interconnessa e della formazione di una coalizione antiegemonica unità più che dall’ideologia dalle insofferenze complementari nei confronti proprio degli Stati Uniti. Prima di lui, Henry Kissinger ebbe anche la sincerità di dichiarare esplicitamente che per tutta la prima metà del XX secolo gli USA combatterono guerre per evitare il dominio sull’Europa di una sola potenza: mentre per tutta la seconda metà del secolo hanno combattuto per evitare il dominio in Asia di una potenza o di una coalizione tra potenze. Questi, infatti, dopo aver raggiunto l’egemonia sul proprio emisfero, si sono impegnati aggressivamente per fare in modo di impedire ad altri di fare lo stesso nelle rispettive macroregioni e per assecondare militarmente un espansionismo commerciale che necessitava di un’estensione globale per evitare la sua stessa implosione.

Solo nel 2018, il colonnello Wilkerson (già capo staff dell’ex Segretario di Stato Colin Powell) ammise candidamente che gli Stati Uniti erano in Afghanistan per controllare da vicino ogni tipo di sforzo cinese inteso a favorire la suddetta interconnessione e per lanciare eventuali operazioni di destabilizzazione nello Xinjiang attraverso il Movimento Islamico del Turkestan Orientale (non a caso depennato dalla lista delle organizzazioni terroristiche sotto l’amministrazione Trump).

In precedenza si è fatto espressamente riferimento alle “risorse dell’heartland”. Quali sono queste risorse (in larga parte non sfruttate) nel caso specifico dell’Afghanistan?

Una ricerca del 2006 portata avanti dall’US Geological Survey (anche sulla base di precedenti analisi compiute dai Sovietici negli anni ’80) ha stabilito che nel suolo afghano si trovano 60 milioni di tonnellate di rame, 2.2 milioni di tonnellate di ferro, 1.4 milioni di tonnellate di terre rare, a cui si aggiungono oro, zinco, litio, uranio e mercurio[2]. Dunque, appare evidente che l’importanza geopolitica dell’Afghanistan non deriva esclusivamente dalla sua posizione geografica. E questo comporta inevitabilmente una domanda: come mai l’“Occidente” non ha spinto per lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo afghano?

La risposta è sempre la stessa e si collega in qualche modo a quello che potremmo definire come “dilemma occidentale”. Tale “dilemma” è indissolubilmente legato al rapporto con la Cina ed alla strategia delle “porte aperte”. Per decenni gli strateghi statunitensi hanno ritenuto che una Cina aperta al commercio rappresentasse un enorme vantaggio per il sistema globale a guida nordamericana, purché questa non venisse rafforzata da vantaggi materiali e da uno sviluppo tecnologico che avrebbe potuto fare concorrenza al dominio nordamericano nel settore. L’errore di calcolo si è reso evidente nel momento in cui Pechino, al pari di Mosca, ha iniziato ad agire come “forza revisionista” all’interno del suddetto sistema globale ed in vista di un suo eventuale superamento verso un ordine multipolare. Così, l’ascesa cinese ed il suo accoppiamento con l’economia nordamericana sono state tollerate nell’errata convinzione che la superiorità tecnologica degli Stati Uniti avrebbe potuto assicurare l’egemonia sistemica ancora per lungo tempo.

Oggi, dopo la crisi finanziaria del 2008 (contrastata attraverso cure palliative senza soluzioni di lungo periodo) e l’accelerazione di precise dinamiche geopolitiche messa in atto dalla crisi pandemica, l’“Occidente” a guida nordamericana si ritrova in una condizione in cui non può fare a meno della Cina (USA ed Europa dipendono rispettivamente all’80% ed all’98% dalla Cina per la fornitura delle terre rare fondamentali per la “transizione verde” che si sta cercando di imporre al capitalismo occidentale) ma in cui la stessa Cina progetta (entro il 2035) il disaccoppiamento dall’economia statunitense. In questo contesto, il problema per i gruppi di potere occidentali non è la dipendenza dall’economia della Cina in quanto tale; ma il fatto che la Cina, in virtù di una strategia lungimirante (non priva di precisi connotati ideologici) e impostata sul lungo periodo, sta rimodellando l’ordine internazionale in termini opposti rispetto ai paradigmi della globalizzazione neoliberista. Per Pechino, infatti, gli attori principali delle relazioni internazionali non sono le multinazionali, ma i governi. Il dialogo e la cooperazione si costruiscono ad un livello di parità tra le istituzioni politiche dei rispettivi Paesi ed in nessun caso presuppongono la richiesta di riforme politico-economiche di stampo neoliberista come condizione per l’accesso ad eventuali prestiti (soluzione naturalmente allettante per i Paesi in via di sviluppo). Questo è uno dei motivi per cui lo speculatore George Soros non perde occasione per indicare il presidente cinese Xi Jinping come il principale nemico del modello di società occidentale.

Tornando all’Afghanistan e parafrasando nuovamente le affermazioni di Biden, l’obiettivo dell’“Occidente” non era quello di costruire uno Stato, ma quello di mantenere il Paese in una condizione di “Stato fallito” (portare stabilità a Kabul significherebbe infatti rafforzare la Nuova Via della Seta e lo sfruttamento delle risorse minerarie afghane da parte della Cina) o “narco-Stato” (in stile Kosovo). In vent’anni di occupazione militare, la coalizione occidentale ha semplicemente ingrossato le tasche dei signori della guerra e della droga locali. Inoltre, ha palesemente fallito (forse consapevolmente) nella costruzione di poli industriali regionali (la più grande miniera di rame al mondo, situata nella regione del Logar, ad esempio, è sotto direzione cinese). Basti pensare al rovinoso fallimento dell’operazione Eagle’s Summit per riavviare la diga di Kajaki nel 2008, citata addirittura nei manuali militari britannici come la più brillante azione condotta dall’esercito di Sua Maestà dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il capo dell’operazione, nonostante la sua inutilità, la definì addirittura come “l’inizio della fine della guerra”[3]. E sempre nei vent’anni di occupazione militare occidentale, la produzione di oppio è aumentata in modo esponenziale (alla produzione si è addirittura aggiunta la raffinazione direttamente in loco): dai 70.000 ettari coltivati nel 2001 si è passati ai 300.000 del 2017[4]. Ad oggi, il 90% della produzione mondiale di eroina arriva dall’Afghanistan: un primato strappato all’Indocina (altra regione sottoposta ad aggressione nordamericana a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso).

La questione della produzione di oppio merita un breve approfondimento, viste le altisonanti quanto confuse esternazioni di intellettuali e analisti di orientamento atlantista. L’oppio, in Afghanistan, è stato utilizzato da tutti indistintamente per fare soldi e finanziare l’economia di guerra. L’hanno utilizzato i mujahedin nel corso del gihad antisovietico (compreso l’osannato Ahmad Shah Massoud); l’hanno sfruttato i Talebani per arricchirsi attraverso i pedaggi per il suo trasporto; l’hanno ampiamente utilizzato le famiglie criminali messe al potere dalla coalizione occidentale a Kabul. Gli stessi progetti di eradicazione delle piantagioni d’oppio in alcune determinate aree del Paese hanno spesso coinciso con la volontà di una di queste famiglie di colpire la concorrenza. Quarant’anni di guerra ininterrotta, inoltre, hanno posto i contadini in una sorta di circolo vizioso che li vede costretti a coltivare il papavero per mere ragioni di sopravvivenza e per sfuggire dal rischio della povertà assoluta. Così, la coalizione occidentale ha preferito favorire la produzione di oppio piuttosto che vedere le masse contadine ingrossare ulteriormente le fila della resistenza.

A questo punto si rende anche doveroso smentire un altro stereotipo: quello che descrive i Talebani come narcotrafficanti. Come afferma il ricercatore Nico Piro, questi potrebbero essere considerati più che altro come dei “facilitatori” di tale traffico[5].

Di fatto, larga parte delle fortune talebane dipende ed è dipesa dal controllo sul territorio e sulle principali vie di comunicazione prima e dopo l’occupazione occidentale del Paese. Le più importanti fonti di autofinanziamento per il movimento talebano, prima ancora che l’ISI (il servizio segreto pakistano) optasse per l’aperto sostegno, sono state i pagamenti dei pedaggi affinché questo aprisse le vie dell’Afghanistan al contrabbando da e verso l’Asia centrale, o verso i porti del Pakistan. Il sostegno pakistano ai Talebani, oltre che a ragioni di natura squisitamente geopolitica (la stabilizzazione anti-indiana dell’Afghanistan in modo da vedersi garantita una profondità strategica che non è consentita dalla conformazione geografica “allungata” del Pakistan), ha avuto anche motivazioni squisitamente economiche. Nelle intenzioni dei vertici politico-militari pakistani, l’ISI avrebbe dovuto in qualche modo sostituirsi nella protezione dei Talebani ai gruppi criminali legati al contrabbando con sede a Quetta e Peshawar, la cui egemonia ha storicamente determinato enormi perdite finanziarie per Islamabad (soprattutto in termini di entrate doganali). Scrive il giornalista pakistano Ahmed Rashid a questo proposito: “L’economia sommersa in Pakistan è salita dai 15 miliardi di rupie del 1973 ai 1115 del 1996 […] Nel corso dello stesso periodo, l’evasione fiscale – compresa l’evasione dei diritti doganali – da 1.5 miliardi di rupie raggiunse il picco di 152 miliardi”[6].

Ora, sul ruolo dell’ISI nel sostegno al movimento talebano è opportuno fare ulteriore chiarezza. Innanzitutto è importante sottolineare che i servizi pakistani sono storicamente divisi in due correnti: una filostatunitense ed una filocinese. Nel settembre 2001, gli Stati Uniti imposero al Pakistan di Musharraf l’interruzione di ogni sostegno finanziario e militare ai Talebani afghani. Di fatto, gli USA cercarono di imporre ad Islamabad il rovesciamento totale della propria strategia geopolitica di lungo periodo, pena il rischio di un attacco nordamericano allo stesso Pakistan. Se è vero che Musharraf capitolò rapidamente pur di proteggere il programma nucleare pakistano e per non agevolare le campagne di diffamazione dell’India che già da tempo definiva il Pakistan come Paese sostenitore del terrorismo, è altrettanto vero che, nonostante le purghe degli elementi filotalebani, l’ISI continuò per vie traverse a sostenere il movimento degli studenti coranici. A parziale difesa di questi ultimi va anche detto che essi si resero disponibili ad estradare Osama Bin Laden purché venissero presentate prove evidenti del suo coinvolgimento negli attentati dell’11 settembre e che egli, nel caso, venisse giudicato dal tribunale di un Paese islamico.

Oggi, dopo oltre vent’anni di umiliazioni (nel corso dei quali è stato anche posto alla guida del Paese il fantoccio filoindiano Hamid Karzai), la vittoria dei Talebani rappresenta un reale successo in primo luogo per il Pakistan. Come ha affermato il vicedirettore di “Eurasia” Stefano Vernole, “il progetto pakistano prevede che in cambio della loro rinuncia a sostenere il terrorismo, una coalizione internazionale sostenga i talebani consentendogli, con investimenti e riconoscimento, di restare alla guida del Paese. Della coalizione, oltre a Russia e Cina, con cui Islamabad ha stretto solidi rapporti, dovrebbe far parte anche l’Iran, a cui i talebani avrebbero promesso di rispettare i diritti dei fedeli sciiti in Afghanistan”[7].

Non sorprende che questo potenziale successo in nuce del Pakistan stia già venendo compromesso dai gruppi talebani pakistani (alleati dell’ISIS, a differenza dei Talebani afghani, e sostenuti dai servizi indiani) che hanno recentemente intensificato le loro azioni di sabotaggio contro il corridoio strategico sino-pakistano e le delegazioni cinesi nello stesso Pakistan.

Sul potenziale riconoscimento di un governo a guida talebana da parte dell’Iran, inoltre, è opportuno ricordare che, nonostante i rapporti estremamente complessi tra Teheran e Kabul ai tempi del primo emirato alla fine degli anni ’90 (a causa della persecuzione dell’etnia hazara a maggioranza sciita), il gen. Qassem Soleimani riconobbe che il consenso di cui i Talebani godevano in larghi strati della popolazione afghana avrebbe reso inevitabile un dialogo con tale forza nel lungo periodo. 

Dunque, resta da capire lungo quali linee si possa costruire tale dialogo. Indubbiamente, i Talebani odierni hanno raggiunto una maturità diplomatica sconosciuta al movimento guidato vent’anni fa dal Mullah Omar. In questo contesto, nella precisa consapevolezza che gli Stati Uniti, nonostante il disordinato ritiro (pensato e deciso sia da Obama che da Trump per concentrarsi su teatri considerati più importanti come quello del Mare Cinese Meridionale), difficilmente lasceranno l’Asia centrale (uomini legati alla CIA sono ben inseriti nello stesso movimento talebano così come nei gruppi che ad esso si oppongono, dal sedicente “Stato Islamico” all’Alleanza del Nord), il ruolo di Russia, Cina, Iran e Pakistan non può che essere quello di favorire suddetto dialogo per fare in modo che il Paese non ricada nella spirale della violenza e della destabilizzazione: di fatto, ciò per cui si sta lavorando a Washington.


NOTE

[1]Si veda, M. Ghisetti, Talassocrazia. I fondamenti della geopolitica anglo-statunitense, Anteo Edizioni, Cavriago 2021.

[2]New USGS report and maps highlight Afghanistan’s mineral potential, www.newsecuritybeat.org.

[3]Si veda M. Morigi, Afghanistan. Storia, geopolitica, patrimonio, Anteo Edizioni, Cavriago 2021, pp. 100-101.

[4]N. Piro, La narrazione dell’oppio afghano è sbagliata, proviamo a riscriverla, www.nicopiro.it.

[5]Si veda N. Piro, Corrispondenze afghane. Storie e persone in una guerra dimenticata, Poets & Sailors, San Giovanni Valdarno (AR) 2019.

[6]A. Rashid, Talebani. Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale, Feltrinelli, Milano 2001, p. 223.

[7]S. Vernole, Il Pakistan e il “grande gioco” afghano, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” 3/2021.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).