1 – Gli USA e la conquista dell’Europa

I rapporti tra l’Europa nel suo complesso e gli Stati Uniti sono, sino alla fine del XIX secolo, di reciproca indifferenza. E’ a partire dai primi anni del XX secolo che le relazioni cominciano a cambiare. Infatti, è con l’affermarsi delle teorie propagate dal think tank costituito in seno al gruppo inglese del Round Table e con il progressivo spostamento degli interessi finanziari britannici negli Usa che si manifesta l’interesse espansionistico delle lobbies anglo-americane a danno del Vecchio Continente e a delinearsi quindi una strategia che possiamo già definire mondialista.

Il primo intervento degli Usa nelle questioni europee è costituito dalla loro partecipazione alla Grande Guerra. Al termine del conflitto, i nordamericani si affermano, con energia, alla Conferenza di Parigi: infatti alcuni dei principi esposti, in quell’occasione, dal presidente Wilson (i famosi 14 punti) saranno alla base del Trattato di Versailles. La diplomazia americana, nonostante alcune perplessità del Senato statunitense, contribuisce così di fatto alla ridefinizione della futura Europa ed inoltre, assieme a inglesi e francesi, alla pianificazione delle politiche neocolonialiste nelle aree geografiche già appartenenti al defunto Impero della Sublime Porta.

E’ dunque alla fine della Prima Guerra mondiale che i governi di Washington abbandonano de facto la loro tradizionale politica isolazionista per praticarne un’altra, interventista ed espansionista. Questa nuova politica si orienta principalmente contro l’Europa; il suo retroterra teorico è costituito dalle ricerche e dagli studi economico-politici del Council on Foreign Relations (una creatura del Round Table) sulla interdipendenza economica tra le nazioni. Tali studi si contrapporranno con forza alle teorie dell’autosufficienza continentale proposte, e parzialmente attuate, dai regimi totalitari di Roma, Berlino e Mosca.

Con la sconfitta delle Potenze dell’Asse, gli Usa si aprono definitivamente la via verso la conquista militare ed economica del Vecchio Continente. Questa volta i governi di Washington hanno maggior libertà d’azione, non essendo più subalterni agli inquilini di Downing Street: è infatti dal 14 agosto del 1941, quando Churchill e Roosevelt firmano la Carta dell’Atlantico, che gli Usa hanno preso la guida del costituendo sistema atlantico.

Dal 1945, il disegno egemonico statunitense si impone economicamente, in Europa, attraverso il Piano Marshall, e si sviluppa politicamente, durante i 45 anni della Guerra Fredda, mantenendo in un vero e proprio stato di vassallaggio i maggiori paesi dell’Europa occidentale, pilotandone i governi nazionali e contrastando ogni loro tentativo volto a uscire dalla soffocante logica di Jalta. Saranno infatti ostacolate le politiche di apertura verso Mosca e quelle volte ad assicurare l’indipendenza energetica o quella militare ai principali paesi dell’Europa “libera”. Ricordiamo en passant: la Ostpolitik di W. Brandt, la force de frappe del Generale De Gaulle ed i tentativi di Enrico Mattei per affrancare l’Italia dal cartello dei petrolieri anglo-americani.

Gli Stati Uniti perseguono tale strategia con esiti positivi grazie anche al fondamentale appoggio fornito loro dalla Gran Bretagna, unico paese europeo “culturalmente” e geopoliticamente a loro affine.

2 – Gli USA e la conquista dell’Eurasia

Con il crollo del muro di Berlino e con il collasso dell’Unione Sovietica, gli Usa diventano l’iperpotenza che oggi noi tutti conosciamo.

L’Europa occidentale secondo i think tank americani assume ora il ruolo di una “testa di ponte” gettata sul cuore del continente euroasiatico. Il teorico principale di tale strategia è l’ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente J. Carter, Z. Brzezinski. Nel suo saggio, La grande scacchiera (Milano, 1998), anticipato nell’articolo “A Geostrategy for Eurasia”, apparso sulla rivista del Council on Foreign Relations, “Foreign Affairs” (76, 5), afferma esplicitamente che l’Europa occidentale è semplicemente “la testa di ponte essenziale dell’America sul continente euroasiatico” e molto realisticamente sottolinea che “enorme è la posta geostrategica americana in Europa. Diversamente dai rapporti fra Stati Uniti e Giappone, all’interno dell’Alleanza atlantica l’influenza politica e la potenza militare americane incidono direttamente sul continente euroasiatico. In questa fase delle relazioni euroamericane, che vede gli alleati europei tuttora dipendenti, in larga misura, dal sistema di sicurezza americano, l’allargamento dell’Europa si traduce automaticamente in un’espansione della sfera d’influenza diretta degli Stati Uniti. In assenza di stretti legami transatlantici, per contro, il primato dell’America in Eurasia svanirebbe in men che non si dica. E ciò comprometterebbe seriamente la possibilità di estendere più in profondo l’influenza americana in Eurasia” (pag. 83).

Il controllo del continente euroasiatico è dunque il vero scopo della politica espansionista americana. Una volta assegnato all’Europa occidentale il ruolo geostrategico di testa di ponte, l’obiettivo primario degli Usa è quello di contenere ed influenzare sul piano militare e politico la Federazione Russa, mediante partnership create ad hoc con i paesi dell’ex-blocco sovietico e persino con un accordo diretto come il recente trattato Nato-Russia.

La disintegrazione dei Balcani, voluta dal Vaticano, dalla Germania ed attuata da Washington e Londra, la questione del Kosovo e Metohija, il sostegno all’UCK, la demonizzazione di Milosevic, come anche l’appoggio dato dagli Usa ai terroristi secessionisti del Daghestan e della Cecenia, come un tempo venne dato a Bin Laden e compagni contro i sovietici nella guerra afghana, appartengono alla strategia mondialista degli anglo-americani. In questa stessa strategia rientra dunque anche la creazione della cosiddetta ”dorsale verde”. Infatti i fenomeni secessionisti, come quello del Kosovo e Metohija, del Daghestan o della Cecenia, prima richiamati, che esplodono apparentemente in nome del principio di autodeterminazione dei popoli o di una specificità religiosa, nella generalità dei casi (a causa della loro posizione geostrategica) sono pretesti, che hanno dato e danno un senso alla cosiddetta ingerenza umanitaria ed al presidio militare dei governi di Washington e di Londra e pongono inoltre le premesse per la definizione di un nuovo diritto internazionale, una sorta di un parodistico Jus planetario, che sancirebbe la sovranità dello pseudo-impero americano.

Il controllo del continente euroasiatico impone alle amministrazioni di Washington la ridefinizione degli assetti geopolitici nel Vicino Oriente (rientra in questo piano la normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Israele) ed in Oriente.

Per quanto concerne l’area del Vicino Oriente, il riequilibrio geopolitico deve tener conto delle privilegiate relazioni che esistono tra il governo israeliano e gli Usa, e risolvere dapprima l’annosa questione dell’Iraq, ed in seguito quella dell’Iran.

Per l’area orientale invece i think tank del Pentagono già prevedono, per il 2017 (il 2012 secondo Edward N. Luttwak), il risveglio del Drago cinese. Il prossimo nemico dell’Occidente sarà dunque, verosimilmente, la Cina.

2.1 Il nemico principale e la trappola del falso obiettivo
Per chi propugna una politica di liberazione continentale, gli anglo-americani sono e rimangono quindi il nemico principale.

Un nemico principale che adotta strategie diversificate, che strumentalizza situazioni critiche irrisolte da anni, che tende a provocare fossati tra popoli di diversa cultura e civiltà. Che basa la sua strategia pseudo-imperiale sulla teoria dello scontro delle civiltà, una caricaturale ripresa dell’antica prassi romana del “divide et impera”.

Teorizzatore dello scontro delle civiltà è Samuel P. Huntington, già membro del National Security Council e attualmente in forza al Weatherhead Center for International Affairs della Harvard University. In realtà quello che l’autore del fortunato saggio, The clash of civilizations and the remaking of world order, teorizza più che uno scontro di civiltà è uno scontro tribale. C’è chi ha subito il fascino delle teorie di Huntington e invece di considerarle per quello che sono, vale a dire la giustificazione della aggressiva politica anglo-americana verso le aree geografiche ove risiedono popolazioni non occidentali, le reinterpreta alla luce di un fenomeno sociale interno all’Europa, non politico quindi, come l’immigrazione. E’ il caso di Del Valle, Faye e Steuckers. Costoro prospettano uno scenario geopolitico ove lo sviluppo di un espansionismo islamico attenterebbe al continente europeo. Ne sarebbero coinvolti principalmente i paesi dell’Europa occidentale e, dopo l’11 settembre, gli stessi Stati Uniti. Sarebbe dunque auspicabile….un’alleanza euro-americana contro i popoli islamici, una alleanza che ricorda quella euro-atlantica contro l’orso sovietico.

Tale scenario assegna all’Europa un ruolo di vassallaggio ben peggiore di quello che subiamo attualmente, in quanto le conseguenze immediate sarebbero lo scontro diretto con popolazioni a noi geograficamente vicinissime e con le quali abbiamo sempre mantenuto rapporti di amicizia, nonostante il passato colonialista di alcuni paesi europei come la Francia e l’Italia.

Come si può notare, la soluzione euro-americana, proposta da autori come Del Valle, è strettamente connessa alla strategia USA per la conquista dell’Eurasia: giustifica infatti, da parte “europea”, ulteriormente la funzione di testa di ponte che gli strateghi statunitensi hanno assegnato ai paesi dell’Europa occidentale e ribadisce gli “stretti legami transatlantici” (Brzezinski) necessari e finora insostituibili alla politica di predominio mondiale vagheggiata dalla iperpotenza d’oltreoceano.

L’Europa, se cadesse in questa trappola, commetterebbe un vero e proprio suicidio, in quanto andrebbe a spezzare quel continuum geopolitico di cui è parte costituente e che le ha assicurato, da sempre, la sua stessa esistenza, culturale, politica ed economica.

Dal punto di vista atlantico uno scontro permanente tra le nazioni europee e il mondo islamico ridurrebbe la forza economica dell’Europa a sicuro vantaggio degli Usa che, data la fragilità intrinseca del Vecchio Continente, si potranno imporre come defensores Europae, analogamente a come fecero, oltre cinquanta anni fa, quando si imposero come liberators nella crociata contro il nazi-fascismo.

2.2 – Propaganda di guerra, immigrazione e islamofobia
Il problema dell’immigrazione esiste e pone molteplici questioni: sociali, di convivenza, di cultura.

Ma dobbiamo essere consapevoli che è un fenomeno naturale e ricorrente nella storia dei popoli, originato da diverse cause, generalmente socio-economiche, più raramente politiche. Con una differenza però rispetto al passato. Infatti, bisogna considerare che questo fenomeno, nell’ultimo decennio, ha assunto proporzioni gigantesche a causa dello sviluppo industriale del nord del pianeta e dell’accelerato processo di globalizzazione dei mercati. Esso equivale oggi ad un vero e proprio “urbanesimo planetario”. Le nazioni ove tale fenomeno è più rilevante e desta maggiori preoccupazioni sono quelle dell’Europa occidentale, che, dal 1989 (crollo del muro di Berlino), attraversano una fase di transizione, non solo politica e geopolitica, ma anche economica e sociale. L’immigrazione, nel quadro delle strategie messe in atto dai governi degli Usa e dagli organismi internazionali che fanno capo alle Nazioni Unite, in particolare il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, diviene un non trascurabile elemento aggiuntivo alla destabilizzazione delle politiche economico-sociali dei paesi dell’Europa occidentale, traducendosi infatti in una forza lavoro a basso costo e costituendo un blocco sociale allogeno, con le correlate critiche conseguenze di coesistenza con gli autoctoni.

A ciò occorre aggiungere anche la scarsa attenzione che i governi europei hanno riservato al fenomeno considerato. La superficialità dei governi europei in materia di immigrazione ha favorito e favorisce i flussi migratori, aumentandone il grado d’intensità e di pervasività, fino a determinare, da un lato, episodi incontrollabili di intolleranza – finora limitati e sporadici, e comunque confinati nell’ambito di epidermica reazione a fenomeni di microcriminalità -, e, dall’altro, la crescita macroscopica di organizzazioni criminali transnazionali di stampo mafioso a base etnica, che compromettono, drammaticamente, il controllo di ampi spazi territoriali (nazionali ed extranazionale, come nel caso dell’area adriatica) da parte delle normali forze di polizia ed alimentano, con i loro illeciti ricavati, quote sempre più crescenti e costitutive della finanza internazionale, che, poiché pecunia non olet, le tollera e pertanto le legittima.

L’attenzione di autori come Faye, Del Valle e Steuckers si focalizza però esclusivamente sull’immigrazione arabo-musulmana, in quanto essa costituirebbe, insieme agli europei “convertiti” all’Islam, una sorta di avamposto o quinta colonna del presunto espansionismo islamico. Ora la realtà è ben diversa. Innanzitutto gli immigrati, di qualunque razza e di qualunque fede, hanno un problema primario: quello della sopravvivenza e dell’integrazione nel paese in cui sono emigrati. Problemi elementari dunque, generalmente dettati dalla miseria da cui fuggono. Queste necessità primarie possono certamente spingere l’immigrato nel circuito della criminalità, come anche farlo diventare un terrorista. Ma da qui a dire che gli immigrati siano dei criminali o dei terroristi ce ne corre; essi, più realisticamente, sono dei disperati, come gli immigrati di tutti i tempi. E come gli immigrati di tutti i tempi sono attratti dal “benessere” e dalle società ricche.

Gli immigrati dunque non costituiscono un pericolo politico-militare come pretendono le ricostruzioni di Del Valle, ma un fattore di perturbazione sociale, cui la politica democratico-occidentalista risponde imponendo il processo dell’ “integrazione culturale”. Un processo che si situa dunque nella logica “illiberale” e democraticamente totalitaria della soppressione delle differenze culturali ed etniche.

Tahir de la Nive ricorda molto opportunamente che gli stessi ambienti culturali e politici cui appartengono o appartenevano i Faye, i Del Valle e gli Steuckers avevano ipotizzato delle soluzioni al dramma dell’immigrazione ed ai suoi effetti. Scrive infatti il nostro autore: «le problème de l’immigration qui prenait de l’ampleur dans l’ensemble de l’Europe était abordé en conséquence et à la formule Avec les immigrés contre l ’Immigration correspondait un projet empreint à la fois de réalisme et de justice :celui d’une coopération entre une Europe enfin libre de ses choix et les pays du Tiers-Monde, afin d’œuvrer à leur développement dans le respect mutuel et la coprospérité, et non de la façon capitaliste et néo-colonialiste, pour ne pas dire néo- esclavagiste, actuelle. Rétablir l’équilibre Nord-Sud, créer dans les pays en voie de développement des conditions d’existence honorable pour leurs peuples, c’était dans un premier temps freiner l’immigration, puis poser les conditions d’une politique de retour. Il n’était pas question d’exclure mais de libérer ;de xénophobie mais de fraternité entre les peuples. En premier lieu, de rendre à chacun le droit primordial de prospérer sur son sol et selon sa culture.»

Ma perché ci si sofferma di più sull’immigrazione araba, e non su quella, ad esempio filippina o cinese o nigeriana? Si criminalizza, in definitiva, esclusivamente l’immigrazione araba. Evidentemente lo scopo è quello di creare una psicosi tra gli europei, di creare un odio contro gli arabi, immigrati e non.

Gli arabo-musulmani devono essere considerati i nemici, in quanto attualmente essi sono i nemici degli Usa e di Israele, e quindi dell’Occidente. Si cerca insomma di promuovere una diffidenza tra i cittadini europei nei confronti degli arabi e della loro cultura (l’islamofobia che denuncia Tahir de la Nive) nel quadro della creazione di quelle opportune premesse psicologiche ed ideologiche che serviranno per aprire un fossato tra civiltà limitrofe, con lo scopo non dichiarato di attuare una frattura geopolitica tra le due sponde del Mar Mediterraneo. Quello di spezzare l’unità geopolitica assicurata da questo mare interno, l’antico Mare Nostrum dei Romani, è il vecchio sogno di tutte le potenze marittime che hanno avuto a che fare con il continente europeo: da Cartagine alla Gran Bretagna agli attuali Stati Uniti.

L’intenzione geopolitica degli atlantisti è dunque molto chiara: è quella di separare il nord Africa dall’Europa meridionale al fine di indebolire, politicamente, economicamente e militarmente la propaggine sudoccidentale della massa euroasiatica, tagliando a quest’ultima la via d’accesso verso l’Africa e l’Oriente, per assicurare agli USA le risorse che si trovano in queste due aree geografiche.

E’ questa una azione speculare e parallela a quella che viene attuata ormai da alcuni anni nella zona caucasica, ove risiedono proprio popolazioni a prevalente cultura islamica.

Tre sono attualmente i fronti che gli Usa hanno aperto contro la massa euroasiatica: Balcani, Mar Mediterraneo, fascia caucasica.

L’attuale islamofobia, la sua propagazione nel mondo occidentale, assume dunque un’efficace funzione propagandistica proprio nel contesto dell’aggressione anglo-americana all’Eurasia.

2.3 – La costruzione dell’identità occidentale
Gli europei occidentali vengono indotti, con la scusa del terrorismo islamico e delle tensioni connesse all’immigrazione selvaggia, non solo ad odiare gli arabi nordafricani, per creare le premesse di cui dicevamo più sopra, ma anche gli islamici e il loro collante culturale e religioso, l’Islam. Il fine è quello di “costruire” una compatta identità “occidentale” a spese dell’Islam, in modo da utilizzare gli europei occidentali nelle azioni militari – pianificate per il controllo della massa euroasiatica – lungo tutta quella fascia che dalla regione caucasica si allunga verso il Mediterraneo.

Una fascia territoriale che è ricca di risorse energetiche (gas e petrolio) e soprattutto è geostrategicamente importante, sia dal punto di vista militare che commerciale. Questa vasta zona costituisce infatti un vero e proprio spazio vitale per tutta l’Eurasia, in particolare per l’Europa occidentale e la Russia. E’ questa un’area geografica i cui abitanti, lo ricordiamo, sono popolazioni a prevalente cultura islamica.

3 La libertà dell’Europa tra Zivilisation e nuova Kultur

Creare dunque fratture in Eurasia è lo scopo militare dei neocartaginesi di Washington e di Londra. Nel loro “delirio di onnipotenza” oggi gli atlantisti prestano la loro attenzione alle popolazioni islamiche: domani sarà la volta della Cina ed allora si parlerà dapprima della mafia cinese, poi delle pericolose organizzazioni nazional-religiose cinesi ed infine di non sappiamo ancora quale “fondamentalismo confuciano” e terrorismo “giallo”.

Oggi per chi ha a cuore la libertà dei popoli, la salvaguardia e lo sviluppo delle specificità razziali, culturali e spirituali, che il mercato globale e la “deriva occidentalista” della cultura europea tendono a conculcare, irridere e strumentalizzare, il nemico è l’Occidente.

Oggi, la liberazione del nostro continente ed il risveglio delle sue più autentiche identità e delle sue più profonde vocazioni passa per l’alleanza con gli strati migliori e validi del mondo islamico.

Oggi, solo mediante una intesa, paritaria ed onesta, con le popolazioni islamiche è possibile costruire una Europa libera ed unita.

L’alleanza con il mondo islamico, come pure altre eventuali alleanze (col mondo ortodosso, indù, buddista) richieste dalle attuali esigenze politiche, economiche e militari, non deve essere tuttavia concepita ed adottata in termini meramente pragmatici.

L’intesa con l’Islam deve essere realizzata principalmente in termini metapolitici, poiché l’attuale fase dell’occidentalizzazione dell’Europa e del mondo intero richiede la mobilitazione di tutte le energie disponibili. E la Kultur islamica, in quanto custode di un’eredità derivante dalla stessa tradizione primordiale, può fornire un contributo determinante per la rinascita dell’Europa, cioè per l’affermazione di una nuova Kultur europea dopo il lungo inverno della Zivilisation occidentale

Traduzione italiana del saggio di Tiberio Graziani pubblicato in appendice a Les Croisés de l’Oncle Sam, di Tahir de la Nive (ed. Avatar, 2002; avataréditions)


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