Ai “numerosissimi termini politici, (…) nomi di correnti politiche o ideologiche, modi di concepire la vita politica e termini tipici del linguaggio parlamentare”[1] che si sono trasferiti dal lessico francese a quello italiano, a partire dagli anni della Rivoluzione Francese, si è venuto recentemente ad aggiungere un prestito linguistico di nuovo conio: sovranismo. La Treccani, che ha accolto il neologismo nel 2017 (il Larousse aveva registrato souverainisme un paio d’anni prima), ne fornisce la seguente definizione: “Posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione”.

Questa definizione induce a porre almeno due domande fondamentali. La prima: che cosa si deve intendere per “sovranità” nel caso di un popolo o di uno Stato? La seconda: quali sono le condizioni che consentono ad un popolo o ad uno Stato di preservare o di riacquisire la sovranità?

Per sovranità si intende correntemente la qualità giuridica pertinente allo Stato considerato come potere originario e indipendente da qualunque altro potere, cosicché uno Stato può dirsi sovrano solo se è indipendente rispetto agli altri Stati ed è in grado di determinare la propria politica estera in maniera autonoma.

Quanto alle condizioni oggettive che al di là dei formalismi giuridici permettono ad uno Stato di essere realmente sovrano, ce n’è una che non può essere elusa, perché concerne il “livello critico in materia di dimensioni d’uno Stato”: si tratta della “soglia critica quantitativa”[2] necessaria affinché lo Stato disponga della potenza sufficiente ad agire in maniera autonoma nelle relazioni internazionali, le quali sono sostanzialmente regolate da rapporti di forza. Orbene, tale “soglia critica quantitativa” non corrisponde più, nell’epoca attuale, alla ridotta dimensione dello Stato nazionale, ma alla dimensione di un “grande spazio”.

In un mondo che come l’attuale è dominato da due tendenze contrapposte – quella perseguita dagli Stati Uniti, favorevoli alla frammentazione dei grandi spazi[3], e quella che invece mira alle integrazioni continentali – un piccolo Stato nazionale è dunque condannato a svolgere un ruolo subalterno, se non trova il modo di integrarsi in una più ampia unità territoriale.

Perciò non è un caso che a favorire l’illusione sovranista siano gli strateghi dell’imperialismo statunitense, i quali hanno individuato nel sovranismo, variante aggiornata del piccolo nazionalismo, uno strumento ideologico idoneo a destabilizzare ulteriormente l’Europa e ad allontanare da essa qualunque prospettiva di unità, perfino quella che è rappresentata dalla miserabile costruzione denominata Unione Europea.

Ciò che in Europa preoccupa il potere statunitense, al di là delle laceranti controversie tra le fazioni in cui esso è diviso, è il “problema tedesco”[4], costituito dall’eccedenza commerciale della Germania e dagli accordi che quest’ultima ha stabilito con la Russia e con la Cina. D’altra parte la diffusa insofferenza nei confronti della Germania, causata dalla politica di austerità imposta da Berlino, agevola il disegno del potere statunitense, che intende utilizzare come proprie pedine le forze politiche euroscettiche, populiste e sovraniste.

Il compito di coordinare tali pedine sulla scacchiera europea è stato assunto dallo stratega ufficioso di Donald Trump: l’uomo d’affari, produttore cinematografico e giornalista Steve Bannon.

Per Bannon, che riprende in buona parte le teorie del Clash of Civilizations di Samuel P. Huntington, la necessità fondamentale dell’Occidente “giudaico-cristiano” consiste nel preservare la propria identità opponendosi alle minacce rappresentate dalla Cina e dal “fascismo islamico”, contro il quale egli invoca una “guerra globale”[5]. In vista di questo obiettivo, Bannon ha progettato una sorta di Internazionale, denominata The Movement, che dovrebbe “portare tutti i populisti sotto lo stesso tetto: dall’Europa agli Stati Uniti al Sud America, Israele, India, Pakistan, Giappone”[6].

In Europa, la centrale operativa di The Movement ha sede a Bruxelles ed è diretta dall’avvocato Mischaël Modrikamen, presidente della Comunità israelitica liberale del Belgio. Nel suo statuto ufficiale, The Movement dichiara di voler sostenere “la legalità, la libera impresa, la sovranità nazionale, l’efficienza dei confini nazionali, la consultazione popolare, la lotta contro l’Islam radicale e la difesa di Israele quale Stato sovrano sul suo territorio storico”[7].

Il primo successo rivendicato da Bannon è la formazione del governo giallo-verde italiano. “Ho semplicemente esortato Salvini e i suoi – ha dichiarato Bannon – a provare a fare questo governo. Determinante è quello che hanno fatto gli italiani. Io ho solo dato consigli che poi sono stati ascoltati. Avete dato un colpo al cuore della bestia dell’Europa, delle capitali straniere, dei media di opposizione stranieri”[8]. È facile intuire che Bannon abbia tratto un particolare motivo di sollievo dall’estromissione di Luca Giansanti, ex ambasciatore a Teheran, inizialmente candidato a ricoprire la carica di Ministro degli Esteri nel governo giallo-verde. Giansanti infatti aveva manifestato l’intenzione di ricostruire il dialogo con la Russia e con l’Iran nelle grandi questioni internazionali.

Lo scopo successivo di Bannon e Modrikamen è quello di dar vita ad un “supergruppo” che riunisca tutte le forze politiche sovraniste e populiste attive in Europa e riesca ad ottenere la maggioranza dei seggi nel Parlamento di Strasburgo. Fiducioso nell’esito favorevole delle prossime elezioni europee, Bannon ha promesso al “Corriere della Sera”: “Ci sarà un terremoto. Ancora non immaginate cosa possono fare insieme Cinque stelle e Lega. (…) Presto avrete una confederazione di Stati liberi, non questa Unione Europea”.

Il successo del fronte populista, commenta un’agenzia giornalistica controllata dall’ENI, “gioverebbe in primo luogo a Trump, che ha recentemente definito l’Europa un nemico degli Stati Uniti. Indebolendo le istituzioni europee, per il presidente americano sarebbe molto più facile ergersi a interlocutore principale dell’Occidente nelle relazioni internazionali”[9].

Fra gli esponenti dei governi europei, il primo a dichiarare la propria adesione a The Movement è stato Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio dei Ministri di un governo che, oltre al sostegno militante di Bannon, ha ricevuto anche il benestare dell’ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg. Da parte sua, Salvini aveva manifestato in maniera esplicita, già prima delle elezioni del 4 marzo 2018, la propria posizione in materia di politica estera, compiendo due viaggi dal significato inequivocabile: uno negli Stati Uniti e uno nella Palestina occupata dal regime sionista.

In seguito, in un’intervista concessa al “Washington Post”, il ministro italiano ha dichiarato con un deciso e sintetico “Yes” la propria solidarietà nei confronti di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu. “Sono andato ad un comizio di Trump in Pennsylvania durante la campagna elettorale, – ha detto Salvini – ed apprezzo che egli cerchi di mantenere quanto ha promesso agli elettori, come ha fatto riconoscendo Gerusalemme quale capitale d’Israele”. “Lei è a favore di questo?” domanda l’intervistatrice. “Sì”, risponde il ministro[10].

L’offensiva di Steve Bannon nella politica italiana è stata immediatamente seguita dallo speculare intervento di un suo connazionale, finanziatore a sua volta della campagna elettorale di Hillary Clinton: George Soros. Dopo avere elargito i propri consigli all’Europa, il noto “filantropo” ha parlato dalla tribuna del Festival dell’Economia di Trento, dicendosi “molto preoccupato” per il fatto che i due partiti che sostengono il nuovo esecutivo hanno chiesto l’abolizione delle sanzioni contro la Russia. Preoccupazione eccessiva quella del “filantropo”, perché il governo giallo-verde, con la massima nonchalance, ha dato il proprio beneplacito all’Unione Europea quando si è trattato di prorogare di altri sei mesi le sanzioni antirusse.

Comunque sia, la simultanea ingerenza dei due grandi manipolatori statunitensi negli affari politici italiani costituisce un simbolo eloquente della tragica situazione in cui si trovano attualmente l’Italia e con essa l’Europa intera, chiamate a scegliere tra la gang di Hymie Weiss e quella di Al Capone.


NOTE

[1] Paolo Zolli, Le parole straniere, Zanichelli, Bologna 1976, pp. 33-34.[2] Jean Thiriart, L’Impero Euro-sovietico da Vladivostok a Dublino, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2018, pp. 114-115.

[3] Cfr. François Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008.

[4] The German problem. Why its surplus is damaging the world economy: questo il titolo di copertina di “The Economist”, 8-14 luglio 2017.

[5] “Anyone seeking to trace the pathogenesis of the Islamophobia that would grip Bannon thirty years hence can follow it back to Tehran and his time in the Middle East. The hostage crisis, he came to believe, was just the first hint of a hostility that could grow into something that would one day threaten the West – something that, he would finally conclude thirty-five years later, urgently necessitated ‘a global war against Islamic fascism’” (Joshua Green, Devil’s bargain. Steve Bannon, Donald Trump, and the storming of the Presidency, Scribe Publications, London 2017, p. 58). Al fatto che l’islamofobia di Bannon si accentui in senso antiraniano non è probabilmente estranea la collaborazione della Bannon & Co. Con un noto uomo d’affari saudita: il principe Al-Walid bin Talal. (Cfr. J. Green, op. cit., p. 78).

[6] Marco Ventura, L’intervista. Steve Bannon. “Serve un super-gruppo dei populisti in Europa”, “Il Messaggero”, 10 settembre 2018.

[7] Alastair Macdonald, Belgian lawyer launches Trump-inspired anti-EU movement www.reuters.com, July 24, 2018.

[8] Luca Romano, Bannon e il governo M5s-Lega “Un colpo per la bestia Europa”www.ilgiornale.it, 3-06-2018.

[9]AGI, Bannon lancia l’internazionale populista europea. Si chiamerà “The Movement”, www.agi.it, 22-07- 2018.

[10] “A. I went to a Trump rally in Pennsylvania during the campaign, and I appreciate his following through on what he promised voters, as he did with recognizing Jerusalem as the capital of Israel. Q. Are you in favor of that? A. Yes.” (Lally Weymouth, ‘Italy has done a lot — maybe too much’, www.washingtonpost.com, 19-07-2018.


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).