Il testo seguente è l’introduzione a Potere globale. Il Ritorno della Russia sulla Scena Internazionale di Alessandro Lattanzio, recentemente edito da Fuoco Edizioni.

Nel corso degli ultimi due decenni, la Russia è stata il luogo ove si sono manifestati due eventi geopolitici talmente importanti da condizionare in profondità sia la politica internazionale dell’intero Pianeta sia, sul piano teorico e speculativo, i consueti paradigmi interpretativi utilizzati dagli analisti di questioni geopolitiche e geostrategiche. Ci riferiamo, ovviamente, alla caduta dell’Unione Sovietica ed alla riconfigurazione geopolitica dell’area russa quale elemento costitutivo del nuovo assetto mondiale postunipolare.

Occorre subito segnalare che la ricostruzione-riconfigurazione dello spazio geopolitico russo, avviata da Putin e ora proseguita da Medvedev, ha la peculiarità di essere iniziata in un tempo tutto sommato breve – dopo neanche dieci anni dalla dissoluzione ufficiale della potenza sovietica – se si tiene conto dei lunghi archi temporali tipici dei cicli geopolitici e, soprattutto, del contesto economico, politico e sociale, nonché psicologico, entro il quale la ricostruzione è venuta maturandosi. Tutti ricordiamo il profondo stato di prostrazione in cui era caduta Mosca agli inizi degli anni novanta, e il timore, avanzato dagli osservatori, dai politici e dagli esponenti del mondo finanziario, commerciale ed industriale riguardo al terremoto che il vuoto, prodotto dalla caduta verticale del sistema sovietico, avrebbe potuto produrre su scala mondiale.

Il crollo dell’URSS, come noto, ha permesso il dilagare della potenza d’Oltreoceano nello spazio centroeuropeo, vicinorientale e centroasiatico per tutti gli anni novanta. Tra le tappe più significative della marcia degli USA verso oriente, ricordiamo: la prima guerra del Golfo (1990-1991), l’aggressione alla Serbia (1999) nel quadro della programmata disintegrazione della Confederazione jugoslava, l’occupazione dell’Afghanistan (2002), la devastazione dell’Iraq (2003).

Parallelamente alle azioni belliche, Washington ha condotto l’allargamento della propria sfera d’influenza sul Vecchio Continente mediante l’inclusione nella NATO dei Paesi dell’Europa centrale, membri dell’ex Patto di Varsavia. L’allargamento della NATO inizia, come noto, con l’inclusione di fatto della Germania dell’Est il 3 ottobre 1990, dopo la riunificazione delle due entità germaniche, prosegue il 12 marzo 1999 con quella della Polonia, dell’Ungheria, della Repubblica ceca, e, il 29 marzo 2004, con l’inclusione della Slovacchia, della Romania, della Bulgaria e della Slovenia. All’ex nemico sovietico non viene risparmiato neanche un simbolico, ma geostrategicamente rilevante, colpo: il 29 marzo 2004 entrano nella NATO persino tre ex-Repubbliche Sovietiche, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. Recentemente, il 1 aprile 2009, sono entrate nella NATO anche la Croazia e l’Albania.

L’Europa, per la prima volta nella sua storia, è completamente ostaggio di una alleanza egemonica extracontinentale. Il rientro nel Comando militare integrato della NATO (aprile 2009) della Francia di Sarkozy costituisce, in ordine di tempo, l’ultimo atto di subordinazione europeo agli interessi di Washington.

L’erosione dell’ “estero vicino” ex sovietico da parte degli USA viene perseguita, nel corso degli anni 2000, anche attraverso la conquista delle cosiddette “società civili” dei paesi che lo compongono. A tale scopo, assistiamo alla messa in atto della strategia delle “rivoluzioni colorate”, il cui fine è insediare governi filo occidentali in Serbia (5 ottobre 2000), in Georgia (“Rivoluzione delle Rose, 2003-2004), in Ucraina (“Rivoluzione arancione”, 2004), in Kirghizistan (“Rivoluzione dei Tulipani”, 2005). La conquista delle società civili di alcuni paesi, come la Georgia e l’Ucraina, teorizzata da think tank come l’Albert Einstein Institution sulla base delle indicazioni fornite dagli studi del suo fondatore, lo statunitense Gene Sharp, pare sia stata finanziata dal noto filantropo e speculatore George Soros, mentore dell’attuale presidente Obama.

Per un lungo decennio è sembrato che a dettare le regole della politica e dell’economia mondiali fosse il solo sistema occidentale guidato dagli USA. Per tutti gli anni novanta, infatti, gli Stati Uniti, l’hyperpuissance, come ebbe a definirli, con motivata preoccupazione, un ministro degli esteri francese, Hubert Védrine, o la “nazione necessaria”, secondo la nota espressione, messianica ed arrogante ad un tempo, del segretario di stato Madeleine Albright e del suo presidente Clinton, hanno imposto il proprio approccio unilaterale in quasi tutte le iniziative politiche, economiche e militari del Pianeta.

Ma con l’arrivo di Putin alla presidenza della Federazione russa il quadro internazionale comincia a cambiare.

Il primo episodio che può essere valutato come l’inizio della riaffermazione della nuova Russia nell’agone internazionale è forse quello collegato alle tensioni che emergono in seno al sistema occidentale, in margine all’aggressione militare degli USA all’Iraq di Saddam Hussein. Nel 2003, Parigi e Berlino si oppongono ai voleri di Washington: Mosca gioca di sponda, e, per un istante, l’asse Parigi-Berlino-Mosca- – sembra essere una realistica alternativa all’unipolarismo statunitense. Da parte russa, la tensione provocata in campo occidentale è un primo chiaro successo del nuovo corso avviato in politica estera dal giovane ex agente del KGB. La Russia, dopo lo smacco subito in Serbia, inizia a reagire.

Nel volgere di meno di un decennio, la Russia ha riconfermato il suo ruolo di stato pivot dell’intero spazio eurasiatico. Ciò è stato possibile, certamente, grazie a due rilevanti fattori geoeconomici: le concomitanti crescite economiche della Cina e dell’India. I peculiari sviluppi socio-economici di questi due Paesi asiatici si sono integrati coerentemente nelle strategie dei rispettivi governi, desiderosi di espandere congiuntamente la sfera di influenza sino-indiana in Eurasia. Beijing e Nuova Delhi, consapevoli di poter concorrere alla realizzazione di un futuro sistema multipolare, e di contare successivamente su una Russia forte, quale pilastro fondamentale di ogni intesa eurasiatica, si sono ben guardate, nel periodo più buio della recente storia russa, (l’era el’ciniana), dall’umiliare Mosca.

La piena e veloce riaffermazione della Russia nello scacchiere mondiale, si deve, però, alle molteplici iniziative messe in campo da Vladimir Putin. L’ex primo ministro di El’cin nel corso di due mandati presidenziali riesce, sul fronte interno, a riportare sotto il controllo dello stato russo le industrie strategiche del paese, debellare la criminalità organizzata, contenere con fermezza il secessionismo ceceno e daghestano, infondere fiducia alla popolazione; mentre sul fronte esterno, inizia a tessere una rete di relazioni internazionali con le repubbliche centroasiatiche, inclini a seguire la sirena statunitense, e, soprattutto, riannoda i legami con la Cina popolare.
Mosca non trascura neanche il versante delle molteplici identità culturali e religiose delle popolazioni della massa eurasiatica.
Infatti, nell’ambito di una logica eurasiatica, sensibile all’incontro tra le variegate civiltà del Continente, e in netta opposizione alla strategia islamofoba degli anglostatunitensi, Putin presenta alla Conferenza islamica di Kuala Lampur del 2003 la Russia come “difensore storico dell’Islam”. Tale significativa dichiarazione, che tiene certamente conto del fatto che l’Islam è la seconda religione della Federazione russa (nonché la sola in espansione in area russa), è il primo passo ufficiale che porterà la Russia a divenire membro osservatore dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC). Il tentativo statunitense di provocare ed alimentare, a partire dalle tensioni identitarie locali, “archi di crisi” lungo frontiere etnico-religiose, viene pertanto tenuto sotto controllo dalla lungimiranza di Mosca.

Sul piano geostrategico il Cremlino, consapevole delle mire statunitensi nell’Asia Centrale, rafforza l’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (SCO) della quale è membro anche la Cina popolare. Lo scopo è la stabilizzazione dell’intera area considerata altamente insicura dagli strateghi di Washington che la definiscono come il ventre molle dell’Eurasia. La dirigenza russa, inoltre, contribuisce, nel 2002, all’istituzione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva dei paesi della Confederazione degli Stati Indipendenti (CSTO).
Le due organizzazioni eurasiatiche dimostrano al mondo intero – e principalmente agli USA – che i problemi in materia di sicurezza e di difesa dell’area sono ben assicurati dai paesi interessati e che, pertanto, non c’è alcun bisogno di supervisori o aiuti provenienti dall’Occidente, tanto meno di presidi della NATO.
Grazie al risveglio dell’Orso russo, la marcia degli USA in Asia Centrale sembra, per il momento, terminata.
Un nuovo ciclo geopolitico si profila all’orizzonte.

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