A mesi dal ritiro statunitense da Kabul, dove sta andando l’Asia Centrale? Quali paesi guadagnano influenza sulla regione in generale e sull’Afghanistan in particolare? Le potenze asiatiche sono ormai le uniche a sembrare di volersi occupare del paese (pur rimanendo assai diffidenti rispetto all’ipotesi di un loro coinvolgimento diretto). Sotto questo punto di vista Washington ha raggiunto il proprio scopo, potendosi dedicare con mano libera all’Indopacifico.

L’Afghanistan visto dai suoi vicini

Proviamo, metodologicamente, a ragionare in termini geografici, costruendo una serie di cerchi concentrici attorno all’Afghanistan. Il primo cerchio, quello dei paesi immediatamente coinvolti nei nuovi scenari apertisi in Afghanistan dopo il ritiro americano, sono proprio i paesi confinanti: Pakistan, Iran, Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan. I paesi in questione hanno una serie di problemi che li accomunano: sono stati resi tendenzialmente deboli da una serie di problematiche economiche. L’Iran per le sanzioni imposte dagli USA, il Turkmenistan e l’Uzbekistan per la loro economia caratterizzata dalla monocoltura delle materie prime, il Tagikistan per l’assenza delle medesime (se escludiamo acqua ed energia idroelettrica) e di una vera e propria struttura economica autonoma, il Pakistan per le proprie congenite povertà, instabilità, carenza di infrastrutture e di investimenti, alto debito pubblico e scarse riserve valutarie. Tutti questi paesi sono anche accomunati da alcune caratteristiche in politica estera: un certo grado di diffidenza nei confronti di Washington – da quella silente di Tashkent a quella attiva di Islamabad a quella conflittuale di Teheran – e un certo grado di conseguente apertura al dialogo con Mosca e Pechino: dall’alleanza de facto del Pakistan con la Cina o del Tagikistan con la Russia, al sempre più flebile terzaforzismo di Teheran, via via più aperto ad una stabile amicizia con le due grandi capitali[1]. Vi è un terzo fattore che accomuna questi attori: l’ostilità per l’estremismo fondamentalista e settario (ed una conseguente diffidenza verso il nuovo governo dei talebani) che va dalla ricerca di un vigile modus vivendi, come nel caso iraniano, turkmeno o uzbeko, al vero e proprio rifiuto, almeno ufficiale, di ogni dialogo con Kabul, come nel caso tagiko. Un caso particolare è costituito dal Pakistan, paese esportatore di un estremismo utilizzabile contro il rivale indiano, contro l’avversario sovietico, contro l’ingombrante pseudoalleato statunitense. Il Pakistan ha creato i talebani, li ha sostenuti con ogni mezzo e continua a sostenerli. Privo di qualsiasi profondità geografica, in caso di conflitto con l’India il Pakistan avrebbe in un Afghanistan amico la propria retrovia ideale; perciò esso continuerà a cercare di garantirsi l’amicizia dei talebani. Tutti questi fattori hanno dato il “la” ad una febbrile fase di dialoghi bilaterali, nei quali si distinguono l’attivismo di Teheran, la riapertura dei canali dell’Uzbekistan con i propri vicini, e l’ambiguità enigmatica e difficilmente decifrabile del Pakistan, l’unico paese ad avere un forte elemento di distonia rispetto agli altri di questa “cintura periafghana”. Nessuno di questi paesi ha la forza economica o le capacità militari per intervenire direttamente in Afghanistan. Finché i talebani potranno garantire che il radicalismo sunnita non metta eccessivamente piede fuori dalle montagne afghane – e che gli Stati Uniti non vi rimettano piede dentro, nessuno ha un incentivo ad intervenire. Ciò ovviamente non significa che ciascuno non provi a coltivare interlocutori privilegiati alle pendici dell’Hindukush, siano questi i Tagiki per Dushanbe, gli Hazara sciiti per Teheran o i talebani per Islamabad; questi mesi hanno però dimostrato che l’obiettivo degli stati della cintura periafghana consiste nel mantenere lo status quo, al massimo della stabilità possibile. Interessante effetto laterale del recente cambio di regime a Kabul è stato l’intensificarsi della cooperazione e del dialogo tra i paesi periafghani[2], sino al recente passato non nuovi a rivalità e tensioni confinarie.

L’Afghanistan visto da Mosca, da Pechino, da Nuova Delhi e da Ankara: massimo della stabilità al minimo del coinvolgimento diretto.

Gli attori più ricchi, potenti e militarmente capaci non confinano direttamente con l’Afghanistan (nessuno, ad eccezione della Repubblica Popolare Cinese, che con Kabul condivide una brevissima linea di confine proprio nella instabile regione del Sinkiang). Gli interessi di Mosca e di Pechino sono i medesimi dei paesi della cintura periafghana: massimo della stabilità al minimo del coinvolgimento diretto. Si è ipotizzato sui media occidentali di una Repubblica Popolare Cinese e di una Federazione Russa pronte a inserirsi in Afghanistan un minuto dopo il ritiro degli Stati Uniti, ciascun paese con i mezzi a lui più congeniali: le baionette per Mosca, gli investimenti ed i commerci per Pechino. Al di là di contatti diplomatici con i talebani[3] attualmente al governo del paese, a quanto ci è dato sapere non una baionetta russa ha valicato il confine tagiko, non un dollaro è giunto a Kabul da Pechino. Nessuno dei due paesi ha risorse da sprecare. Mosca è sin troppo occupata ad addestrare da mesi le truppe kazake, tagike, uzbeke, indiane e pakistane – financo quelle mongole – nelle operazioni antiterrorismo, nonché a mantenere e semmai espandere le proprie basi in Asia Centrale. Pechino è sin troppo occupata a difendere il corridoio sino-pachistano da insorti baluci[4] e islamisti[5], probabilmente visti con occhio benevolo dal rivale indiano e dagli USA, per andare a creare dal nulla costosi tasselli della Via della Seta in un paese privo di infrastrutture. L’Afghanistan sarà anche ricchissimo di materie prime, ma la Cina può già procurarsele altrove in modo sicuro e meno costoso. I retroscenisti hanno immaginato per mesi un intervento militare di Ankara in Afghanistan, ma anche Erdogan sembra avere sin qui compreso che non ha motivo per inserirsi nelle dinamiche afghane. Non che la Turchia, come di consueto in asse col Qatar, non provi ad inserire i talebani nel circuito della variegata famiglia dei movimenti affini ai Fratelli Musulmani. Lo hanno fatto, lo fanno e lo faranno con contatti diplomatici e con profferte economiche, per guadagnare influenza nel cuore dell’Asia – influenza da rigiocarsi con Pechino e Mosca; ma nessun soldato turco sta combattendo in Afghanistan, contro l’Isis o contro chiunque altro. Anche per la Turchia vale la generica tendenza che vale per la Russia: inserirsi negli spazi lasciati sguarniti dall’Occidente, ma solo laddove convenga.

L’unico fattore che ha la possibilità di rompere l’equilibrio dell’equazione è il “fattore India”, o meglio il fattore “rivalità India-Pakistan”. Il Pakistan è l’unico paese della cintura periafghana ad avere a Kabul interessi vitali. L’India ha nel Pakistan il proprio nemico esistenziale, e ha tutto l’interesse a scacciarlo da Kabul, oltre che infastidire la Cina contribuendo all’instabilità ai confini di quest’ultima. È quindi la rivalità indo-pakistana e indo-cinese il potenziale evento di rottura nell’equilibrio afghano, e gli eventi di questi mesi sembrano essere andati esattamente in questa direzione: se vi sono stati interventi stranieri in Afghanistan dopo il ritiro americano, questi sono stati compiuti dalle due potenze nucleari del subcontinente indiano. L’India sembra aver armato la breve insurrezione tagika nel Panshir con il sostegno di Dushanbe, il Pakistan parrebbe essere intervenuto con droni ed intelligence per aiutare i talebani a domarla. Ancora una volta, “verum est factum” e “hypotheses non fingo”: le potenze intervenute in Afghanistan sono quelle che, da manuale della geopolitica, percepiscono come di lì provengano minacce esistenziali – o risorse vitali. Questo al netto delle speculazioni su singole iniziative diplomatiche, come il mantenimento dell’ambasciata russa a Kabul o la visita cinese alla base aerea di Bagram[6], episodi di normale amministrazione diplomatica. (Uno stanziamento cinese limitato ad una testa di ponte afghana non potrebbe certo sconvolgere il quadro strategico che stiamo delineando). Se anche i Cinesi aprissero una base di appoggio aereo in Afghanistan, nulla cambierebbe nella sostanza della loro politica: mantenere il massimo della stabilità al minimo dell’impegno. Non è oggi la cintura periafghana, o le sole grandi capitali asiatiche o euroasiatiche che dobbiamo scrutare per capire il futuro dell’area. Come la rivalità tra Pakistan e India e tra Cina ed India suggeriscono, per cogliere tutta la complessità dobbiamo allargare l’inquadratura e includere l’area “indopacifica”.

Mr Brzezinski addio, bentornato Mr Spykman?

Il potere degli imperi è fatto, per una quota non trascurabile, di immagine e narrazione: in una parola, di prestigio, essendo il prestigio una delle componenti di quello che Nye ebbe a definire “soft power”. Il prestigio, l’immagine e la narrazione degli USA come “poliziotto” e “nume tutelare” dell’ordine globale escono dalla ritirata afghana innegabilmente compromessi. Quanto questo danno sia grave e quale influenza eserciterà sul reale peso geopolitico degli Stati Uniti è troppo presto però per dirlo; per parafrasare Mark Twain, le notizie sulla morte degli USA ci sembrano grossolanamente esagerate. Gli Stati Uniti hanno già raggiunto ben due obiettivi. Innanzitutto, hanno costretto le potenze regionali ad occuparsi dell’Afghanistan al loro posto. È possibile (ed auspicabile per il futuro del martoriato popolo afghano) che queste ci riescano meglio degli stessi americani; in ogni caso rischia di essere costoso, in termini di tempo, sforzo politico, rischi e risorse, anche solo circondare l’Afghanistan con un adeguato cordone sanitario che impedisca l’uscita di terroristi ed oppiacei. Gli Stati Uniti hanno poi liberato proprie risorse militari, politiche ed economiche per dedicarsi al teatro che interessa davvero loro: quello del cosiddetto “Indopacifico”.

È sui mari – e sulle terre insulari e peninsulari – dell’Indopacifico che prenderà forma il vero contenimento della Repubblica Popolare Cinese. Gli USA hanno compreso che la marcia verso il cuore dell’Asia è costosa e impegnativa. Sfidare l’URSS ed i suoi alleati nel “Grande Medio Oriente”, colpendo i Sovietici col “gihad” afghano, opponendosi ai governi nazionali arabi e contenendo la Repubblica Islamica dell’Iran ha rintuzzato le capacità di proiezione globale di queste potenze, ma non ha affatto impedito alla Russia di risorgere dalle proprie ceneri e all’Iran di resistere. Meno ancora ha impedito alla Repubblica Popolare Cinese di diventare una potenza economica globale. Occorre cambiare strategia e tornare ad un contenimento dell’Asia dalle sue coste: in una parola, dal “Rimland”. Facciamo un passo indietro sulla definizione stessa di “Indopacifico” riferita al teatro geopolitico dei due oceani. Essa indica chiaramente che gli USA vedono il mare dell’Asia – e non “i mari” – come un teatro unico, in cui attivare il contenimento anticinese coinvolgendo l’India, l’Australia[7], il Giappone e la Gran Bretagna: i quattro paesi che, oltre ovviamente a Taiwan, sono più sensibili ai richiami di Washington contro Pechino.

In quest’ottica, l’Asia Centrale è un puro diversivo, una trappola tesa contro Cinesi, Russi e Iraniani. Perché contenere la Cina sui mari? Perché i mari sono il punto debole della Cina e quello forte degli USA. È dai mari che la Repubblica Popolare riceve risorse ed è tramite i mari che esporta manufatti. Per risorse ricevute ovviamente non ci riferiamo solo alle materie prime, ma anche ai flussi finanziari verso i porti di Hong Kong e Shanghai. È sui mari che la Cina dimostra di non essere ancora una potenza militare, nemmeno su scala regionale. Il fortino anticinese di Taiwan impedisce alla Cina di avere il controllo totale dei propri mari vicini, dai quali la sua flotta di alto mare – di recente costruzione ma di livello tecnologico non ancora adeguato e di insufficiente esperienza in combattimento – fatica ad uscire. La Repubblica Popolare è costretta a ricorrere alla costruzione di isole artificiali come basi avanzate al di fuori della “Prima Catena di Isole”, l’area marittima controllata dal Giappone da Tsushima fino alle Ryukyu e alle Senkaku, quindi da Taiwan e per finire dal Vietnam. Non maggiore sicurezza dà alla Cina la decisione di volgersi a infrastrutture terrestri, costosissime da realizzare attraversando le immensità dell’Asia, ora gelide, ora desertiche, ora montuose e remote, funestate da separatismi e radicalismi. La Repubblica Popolare Cinese sta vivendo una crisi demografica senza precedenti[8], il che potrebbe portarla a diventare vecchia prima di essere ricca. La Cina è sotto assedio principalmente dal mare – da Sud e da Est – ma il teatro terrestre – da Ovest – non è certo quello sul quale può sentirsi tranquilla. Spykman, il geopolitico che teorizzò il contenimento dell’Eurasia dal mare, non si è preso una definitiva rivincita su Brzezinski, il geopolitico che teorizzò l’assalto al cuore dell’Eurasia: semplicemente, gli Stati Uniti mettono a frutto gli insegnamenti ora dell’uno, ora dell’altro (e questo valga per chi ancora immagina la geopolitica come disciplina rigida e deterministica). Ancora una volta, la risorsa che gli attori eurasiatici devono mettere in campo per resistere all’assedio è una sempre più stretta alleanza, una sempre maggiore collaborazione[9].


NOTE

[1] Specie dopo l’adesione ufficiale della Repubblica Islamica alla Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, si veda Giuseppe Gagliano, SCO. l’Iran sarà tra i membri: un’operazione per contenere gli USA www.notiziegeopolitiche.net, 21 Settembre 2021

[2] Giuliano Bifolchi, How Afghanistan is influencing the Turkmenistan-Uzbekistan cooperation, www.specialeurasia.com, 6 Ottobre 2021

[3] Del resto, se gli Stati Uniti hanno dialogato e negoziato con i talebani ai più alti livelli, non si capisce perché non dovrebbero o potrebbero farlo paesi ben più vicini.

[4] Michel Rubin, Could Washington Support Balochistan Independence? nationalinterest.org, 12 Settembre 2021

[5] Giorgio Cuscito, Karachi per la Cina, rubrica Il mondo oggi, www.limesonline.com, 6 Ottobre 2021

[6] Gianandrea Gaiani, La corsa alle basi in Afghanistan e dintorni, www.analisidifesa.it, 5 Ottobre 2021

[7] L’accordo denominato “AUKUS” tra gli USA e i loro satelliti Regno Unito ed Australia non arriva casualmente proprio all’indomani del ritiro americano tra Kabul. Serve a segnalare ai paesi indopacifici che gli USA soni disposti a fare sul serio nel contenimento anticinese, anche condividendo tecnologie nucleari sofisticate e accettando il rischio di alzare la tensione nel teatro, contribuendo ad una corsa agli armamenti.

[8] Mario Seminerio, Contrordine, cinesi: moltiplicatevi, phastidio.net, 5 Ottobre 2021

[9] Bradley Jardine, Edward Lemon, In post-American central Asia, Russia and China are tightening their grip, warontherocks.com, 7 Ottobre 2021


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.


 

Amedeo Maddaluno collabora stabilmente dal 2013 con “Eurasia” - nella versione sia elettronica sia cartacea - focalizzando i propri contributi e la propria attività di ricerca sulle aree geopolitiche del Vicino Oriente, dello spazio post-sovietico e dello spazio anglosassone (britannico e statunitense), aree del mondo nelle quali ha avuto l'opportunità di lavorare e risiedere o viaggiare. Si interessa di tematiche militari, strategiche e macroeonomiche (si è aureato in economia nel 2011 con una tesi di Storia della Finanza presso l'Università Bocconi di Milano). Ha all'attivo tre libri di argomento geopolitico - l'ultimo dei quali, “Geopolitica. Storia di un'ideologia”, è uscito nel 2019 per i tipi di GoWare - ed è membro della redazione del sito Osservatorio Globalizzazione, centro studi strategici diretto dal professor Aldo Giannuli della Statale di Milano.