Dense fog in the Channel: Continent isolated
(“The Times”, 3 novembre 1939)

 

Il territorio di alcuni paesi è nettamente delimitato da un confine che si conviene di chiamare naturale, in quanto “coincide con un vistoso elemento della geografia fisica o ad esso si appoggia: linea di costa marittima, catena o sistema montuoso, gruppo di colline e rilievi, deserto, fiume, lago, paludi, foreste”[1]. Tale è ad esempio il caso dell’Italia, i cui confini naturali furono indicati con precisione già da Dante (“Sì com’a Pola, presso del Carnaro – ch’Italia chiude e suoi termini bagna”)[2] e da Petrarca (“il bel paese – ch’Appennin parte, e ’l mar circonda e l’Alpe”)[3].

Per restare in Europa, ben diverso è il caso della Germania, alla quale la geografia non ha assegnato alcuna cornice naturale definita e netta. Tuttavia, come ha potuto obiettare a buon diritto un geopolitico tedesco, la Germania “è il termine necessario della penisola europea e la sua presenza non è percettibile se non in questa totale coesione europea. Anche se, presa isolatamente, essa è priva di forma, la Germania stringe la penisola come un tutto e la collega all’estensione del continente eurasiatico. L’Europa non può fare a meno della Germania, così come la mano non può fare a meno delle dita. Nonostante sia di per sé informe, la Germania conferisce la forma definitiva all’insieme europeo”[4].

Diametralmente opposta è la condizione dell’isola britannica, che Carl Schmitt ha paragonato ad una roccaforte galleggiante, se non ad una nave pirata che si stacca dalla terra e salpa alla conquista degli oceani. Optando per un’esistenza puramente marittima, sradicata e “deterrestrizzata”, decidendosi “contro lo Stato, per il mare aperto!”[5], l’Inghilterra cambiò radicalmente il proprio rapporto col resto del mondo e in particolare con l’Europa. “Tutti i parametri e le proporzioni della politica inglese divennero incomparabili e incompatibili con quelli di ogni altro paese europeo. L’Inghilterra diventò la regina del mare, e sul suo dominio marittimo sull’intero globo edificò un impero britannico sparpagliato in tutti i continenti. (…) Ciò che per gli altri popoli era terra e patria appariva a esso come mero entroterra. Il termine ‘continentale’ assunse il significato secondario di ‘arretrato’, mentre la popolazione del continente diventò backward people[6].

Concepita essenzialmente come un conflitto fra la Germania e l’Inghilterra, la prima guerra mondiale fu vissuta, da quell’agguerrita schiera di intellettuali tedeschi che agli “immortali principi” del 1789 volle contrapporre le “idee del 1914”, come un evento che trascendeva i limiti di un ordinario scontro armato fra potenze rivali, al punto che ad essa venne attribuito il significato metafisico di una “realizzazione dell’assoluto nella sfera dell’immanenza”[7]. Per Werner Sombart, ad esempio, la prima guerra mondiale fu una sorta di guerra di religione, un Kulturkrieg combattuto fra due opposte visioni del mondo. “In questa grande guerra – scriveva infatti il sociologo – sono tra loro in lotta per il predominio la concezione mercantile del mondo e la concezione eroica del mondo. Ma i loro portatori, i due popoli che rappresentano in modo netto la contrapposizione, sono gli Inglesi e i Tedeschi. E soltanto se concepita come guerra anglo-tedesca, la guerra mondiale del 1914 ritrova il suo più profondo significato storico-universale”[8].

La contrapposizione di Inglesi e Tedeschi, che aveva ispirato Händler und Helden di Sombart e gli opuscoli di guerra di Max Scheler, di Georg Simmel, di Friedrich Meinecke, di Ernst Troeltsch e di altri scrittori tedeschi[9], venne ulteriormente sviluppata da Oswald Spengler, il quale vide rappresentate dall’Inghilterra e dalla Prussia le due opposte polarità dello spirito nordico: individualismo, spirito mercantile e piratesco nel tipo inglese, etica del dovere e del servizio, spirito di disciplina e di milizia nel tipo prussiano. Il confronto fra questi due tipi di opposta natura, scrive Spengler, rivela “la differenza tra un popolo la cui anima è venuta formandosi nella consapevolezza di un’esistenza insulare, ed un popolo che custodiva una marca: priva di confini naturali e perciò esposta al nemico da ogni parte. In Inghilterra l’isola sostituì lo Stato organizzato. Un Paese senza Stato era possibile soltanto a questa condizione; essa è il presupposto dell’anima inglese moderna, pervenuta alla piena consapevolezza di sé nel XVII secolo, allorché l’Inglese divenne signore incontestato dell’isola britannica. (…) Massimo e minimo grado di concezione sovrapersonale e socialistica dello Stato, Stato e non-Stato: questo sono l’Inghilterra e la Prussia come realtà politiche. (…) In Germania, soltanto il socialismo, in qualsiasi versione, possiede un valore autentico. Il liberalismo è roba da cretini. Esso millanta il possesso di ciò che non gli appartiene. (…) Ognuno per sé: questo è inglese; tutti per tutti: questo è prussiano”[10].

Un europeista autentico e radicale, Jean Thiriart, pur ribadendo che “l’Angleterre c’est l’Europe par le sang, par la terre, par l’Histoire[11], definiva tuttavia l’Inghilterra come “l’Antieuropa assoluta”[12], poiché, traendo vantaggio dalla propria insularità, nel corso di almeno sei secoli essa si era costantemente impegnata ad impedire l’unificazione politica dello spazio continentale facendo ricorso alla politica dell’“equilibrio”, vale a dire scagliando le nazioni europee le une contro le altre. “Fra i numerosi fattori che hanno impedito l’unificazione formale dell’Europa – affermava Thiriart – bisogna annoverare (…) la politica dell’Inghilterra, a partire dal 1340, quando essa distrusse la flotta francese a l’Écluse [Sluys], fino a Jalta, dove essa sottoscrisse la propria morte storica senza rendersene conto”[13]. Nella sua inesorabile requisitoria, questo geopolitico militante denunciava le responsabilità inglesi relative alla situazione in cui l’Europa si è venuta a trovare dopo il 1945. “Se dopo il 1940 l’Inghilterra non avesse fatto appello agli USA, – egli scriveva – noi oggi non subiremmo l’occupazione americana. La stupida imprudenza della politica inglese non è costata cara solo all’Inghilterra, ma è costata cara a tutto il Continente europeo. È stata l’Inghilterra ad aprire la porta dell’ovile al lupo americano. (…) Anziché ammettere di fronte alla Germania la propria sconfitta militare nel giugno 1940 e trattare onorevolmente salvaguardando la propria sovranità, l’Inghilterra ha preferito fare appello ad una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti”[14].

Per quanto concerne lo scoppio della seconda guerra mondiale, un’indagine spassionata mostrerebbe che, a fronte della tenacia e perseveranza con cui fra il 1933 e il 1939 la Germania cercò di instaurare un rapporto di fiducia e di collaborazione con l’Inghilterra, Londra rispose con una politica ambigua ed ostile, sostanzialmente ispirata alla sua vecchia politica antieuropea[15].

All’insularità dell’Inghilterra, ai suoi interessi extraeuropei ed ai suoi tentativi di sabotare la costituenda Comunità Europea si richiamò Charles de Gaulle il 14 maggio 1963, per giustificare il suo veto alla domanda inglese di adesione alla Comunità Europea. “Il Trattato di Roma – argomentò il Generale – è stato concluso tra sei Stati continentali. Stati che sono in definitiva della stessa natura, economicamente parlando. (…) La Gran Bretagna ha posto la sua candidatura al Mercato Comune. Lo ha fatto dopo aver precedentemente rifiutato di partecipare alla Comunità che stavamo costruendo, dopo aver creato una specie di zona di libero scambio con sei altri Stati, e infine – posso ben dirlo (si ricordino i negoziati così lungamente condotti a questo riguardo) – dopo aver fatto qualche pressione sui Sei per impedire che l’applicazione del Mercato Comune cominciasse realmente. L’Inghilterra ha dunque domandato a sua volta di entrarvi, ma alle sue condizioni. Ciò pone indubbiamente a ciascuno dei sei Stati ed all’Inghilterra problemi di grandissima entità. L’Inghilterra infatti è insulare, marittima, legata dai suoi scambi, dai suoi mercati, dal suo vettovagliamento, ai paesi più diversi e spesso più lontani. Esercita un’attività essenzialmente industriale e commerciale ed assai poco agricola. In tutto il suo lavoro ha abitudini e tradizioni assai accentuate ed originali. Insomma, la natura, la struttura, la congiuntura proprie dell’Inghilterra differiscono profondamente da quelle dei continentali”[16]. Con la scomparsa di De Gaulle dalla scena politica, a Londra si aprirono le porte della Comunità Europea.

Mezzo secolo più tardi, la Brexit dà ragione al Generale; contemporaneamente essa rende possibile la prospettiva evocata il 28 maggio 2017 da Angela Merkel in una conversazione col presidente bavarese Horst Seehofer, dopo il vertice del G7 di Taormina che ha registrato un evidente disaccordo con le posizioni statunitensi. “I tempi in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri – ha detto la Cancelliera – sono passati da un bel pezzo, questo l’ho capito negli ultimi giorni. Noi Europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre proprie mani”. Testualmente: “Wir Europäer müssen unser Schicksal wirklich in unsere eigene Hand nehmen”.

Il presidente del Council on Foreign Relations, Richard N. Haass, è immediatamente intervenuto con un “cinguettio” per definire questa dichiarazione “uno spartiacque” (“a watershed”) nei rapporti transatlantici, in quanto la Merkel auspica proprio “ciò che gli USA hanno cercato di evitare a partire dalla Seconda Guerra mondiale” (“what US has sought to avoid since WW2”).

Insomma, la Germania rimane, in Europa, il “problema” degli USA: “The German problem” come ha proclamato sulla sua copertina “The Economist” alla vigilia del G20 che ha visto scatenarsi su Amburgo le bande partigiane della “società aperta”.

Se la vecchia nave pirata è oggi una portaerei americana appostata sul fianco dell’Europa, la Germania, nonostante la miopia della sua classe politica, continua ad essere il cuore del subcontinente; il suo compito storico – da essa fino ad oggi disatteso ma pur sempre paventato dall’Angloamerica – non consiste nel perseguire in maniera unilaterale ed egoistica i propri interessi ed obiettivi particolari, come è avvenuto finora, ma nel coinvolgere gli altri paesi europei in un progetto comune e condiviso di vera unificazione politica.

 


NOTE

[1] Gaetano Ferro, Fondamenti di geografia politica e geopolitica, Giuffrè, Milano 1994, p. 153.
[2] Dante, Inf. IX, 113-114.
[3] Petrarca, Canzoniere, CXLVI, 13-14.
[4] Jordis von Lohausen, Les empires et la puissance, Le Labyrinthe, Arpajon 1996, p. 137.
[5] Franco Volpi, Il potere degli elementi, in: Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2001, p. 136.
[6] Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002, p. 97.
[7] Francesco Ingravalle, Prefazione a: Werner Sombart, Mercanti ed eroi, Aracne, Roma 2012, p. 15.
[8] Werner Sombart, Mercanti ed eroi, Aracne, Roma 2012, p. 39.
[9] Werner Sombart, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, Duncker & Humblot, München 1915; Max Scheler, Der Genius des Krieges und der Deutsche Krieg, Verlag der Weissen Bücher, Leipzig 1915; Idem, Krieg und Aufbau, Verlag der Weissen Bücher, Leipzig 1916; Idem, Die Ursachen des Deutschenhasses. Eine national pädagogische Erörterung, Kurt Wolff, Leipzig 1917; Georg Simmel, Der Krieg und die geistigen Entscheidungen, Duncker & Humblot, München/Leipzig 1917; Friedrich Meinecke, Die deutsche Erhebung von 1914; Ernst Troeltsch, Die Ideen von 1914, in: “Die neue Rundschau” 27 (1916), pp. 605–624.
[10] Oswald Spengler, Prussianesimo e Socialismo, Edizioni di Ar, Padova 1994, pp. 48 e 50.
[11] Jean Thiriart, La faillite de l’empire britannique, “La nation européenne”, n. 13, Genn.-Febbr. 1967, p. 12.
[12] Jean Thiriart, La geopolitica, l’impero, l’Europa, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, n. 1, Genn.-Marzo 2014 , p. 232.
[13] Jean Thiriart, La faillite de l’empire britannique, cit., ibidem.
[14] Jean Thiriart, La faillite de l’empire britannique, cit., p. 13.
[15] A questo proposito è opportuno segnalare la nuova edizione di un testo in cui si trovano esposte e documentate le ragioni dei vinti: Heinrich Rogge, Le intese con lInghilterra tentate da Hitler. Un aspetto della politica nazionalsocialista di revisione e di pace dal 1933 al 1939, Effepi, Genova 2010.
[16] Charles de Gaulle, Discours et messages, Volume IV: Pour l’effort (1962-1965), Plon, Paris 1970, pp. 66-71.


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).