Come si collegano le elezioni comunali di due capoluoghi di provincia italiani con l’attacco occidentale alla Russia attualmente in corso? Come scelte, e soprattutto non scelte, in ambito di geopolitica energetica possano avere ripercussioni nel quotidiano dei cittadini e provocare piccoli terremoti politici. Suggerimenti per una politica italiana dell’energia.

 

Capitolo I: Parma e Livorno avvicinate dalle stelle

La città di Parma è assurta nolente negli ultimi anni al ruolo di protagonista della scena politica italiana a causa delle evidenti analogia tra la sua vicenda particolare e l’andamento dei destini della Nazione tutta.
Negli ultimi anni si sono infatti sovrapposte tre grandi problematiche che hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica cittadina: la corruzione dilagante, la crisi del debito e la questione inceneritore. Su questi tre assi è montata la protesta, anche di piazza, che ha travolto la vecchia giunta di centrodestra a guida Vignali e favorito l’insediamento sullo scranno di primo cittadino di Federico Pizzarotti, primo sindaco di una città capoluogo dell’ancora embrionale Movimento 5 Stelle.
Lungi dallo scopo di questo articolo trarre un bilancio dei primi due anni della giunta Pizzarotti, è importante sottolineare come l’inaspettato successo elettorale dell’attuale sindaco sia stato in parte dovuto all’accanita battaglia contro la realizzazione del termovalorizzatore cogenerativo da parte di Iren S.p.A. (la multiutility che si occupa della raccolta e smaltimento rifiuti a Parma).
La crescente attenzione per le problematiche ambientali che ha interessato gradualmente quasi tutto il pianeta è ben radicata anche a Parma, città che fonda le sue recenti fortune soprattutto sull’industria agro-alimentare e pertanto preoccupata per la salute dei suoi cittadini ma anche per quella dei propri prodotti. La nascita pressoché spontanea del movimento Gestione Corretta Rifiuti(1) (un comitato di cittadini contrari alla costruzione dell’inceneritore, come lo hanno sempre chiamato, e promotore di iniziative volte a favorire la diffusione di una nuova coscienza e di nuovi punti di vista per quanto concerne il problema rifiuti) si è sposata con l’ascesa nazionale di Beppe Grillo e del suo Movimento, sensibile dalle origini alle questioni ambientali.
La protesta popolare contro il termovalorizzatore si è presto unita a un altro movimento di piazza che ha assediato pacificamente per diversi giorni nel corso dell’estate 2011 i “portici del grano”, le antiche stalle che costituiscono l’ingresso del municipio cittadino(2).
A spingere la cittadinanza in piazza era la corruzione della giunta di centrodestra guidata dal sindaco Pietro Vignali, travolta dagli scandali dell’inchiesta Public Money e dalla assoluta crisi debitoria del Comune e delle sue controllate. L’inchiesta, per la quale i processi sono ancora in corso, ha visto indagate diciassette personalità di grande spessore a Parma, tra politici, dirigenti, imprenditori e giornalisti, tra i quali spiccano il consigliere regionale Pdl e vicepresidente Iren Luigi Giuseppe Villani, l’ex amministratore della società partecipata Stt Andrea Costa e l’imprenditore edile ed editore del quotidiano locale Polis Angelo Buzzi, che era anche presidente di Iren Emilia(3).
Un sistema così sfrontatamente oligarchico e autoreferenziale si è ritrovato ben presto completamente scollato dalla realtà e dalla cittadinanza, e ha palesato tutti i suoi limiti quando si è trattato di fare i conti in tasca al Comune. I progetti di grandeur cementizia hanno infatti presentato il conto quando il commissario Ciclosi ha riassunto in una dettagliata relazione lo stato delle finanze cittadine: circa 800 milioni di euro di debiti, dei quali 266 maturati dal solo comune e circa 580 divisi tra le trentadue società partecipate(4).
È facile collegare il collasso del vecchio sistema con l’exploit pizzarottiano del giugno 2012, e altrettanto facile è notare le similitudini tra la parabola del sindaco e quella dell’intero Movimento 5 Stelle, che della simile situazione nazionale ha raccolto i frutti alle elezioni politiche del 2013, giungendo a un passo dalla vittoria.
Il primo punto su cui si è trovato a dover deliberare il nuovo sindaco è stato il termovalorizzatore cogenerativo, cavallo di battaglia della campagna elettorale e cavallo di troia per l’accesso al municipio, ma mantenere le promesse si è rivelato impossibile. Ogni sistema ha meccanismi di autodifesa, e quello regnante a Parma non si è rivelato esser da meno, e così le luci si sono accese nell’impianto di Ugozzolo nonostante le invettive ambientaliste di Pizzarotti.
Qualcosa di simile, anche se forse meno esasperato nei toni, nei modi e nelle cause, è accaduto a Livorno, dove a vincere le Comunali 2014 è stato Filippo Nogarin, esponente anch’egli del Movimento 5 Stelle. Il neosindaco ha potuto impostare la campagna elettorale di nuovo su tre temi principali: la stanchezza della cittadinanza nei confronti della “rete clientelare” del PD, al potere nella città labronica ininterrottamente da settant’anni (se non si considerano cesure i vari cambi di denominazione che hanno portato da Togliatti a Renzi); le promesse disattese del sindaco uscente Alessandro Cosimi, che hanno indebolito la posizione del candidato di partito Marco Ruggeri; il malcontento civico nei confronti del “bombolone”, il rigassificatore OLT costruito al largo di Livorno da Iren s.p.a.(5,6)
Di nuovo Iren appare un attore involontario sulla scena politica locale, forse è giunto il momento di approfondire il discorso e seguire le vie della seta tracciate dal gas.

 

Capitolo II: Dies Iren

Citando direttamente dal loro sito, Iren S.p.A. è una multiutility quotata alla Borsa Italiana che opera nei settori dell’energia elettrica (produzione, distribuzione e vendita), dell’energia termica per teleriscaldamento (produzione e vendita), del gas (distribuzione e vendita), della gestione dei servizi idrici integrati, dei servizi ambientali (raccolta e smaltimento dei rifiuti) e dei servizi per le Pubbliche Amministrazioni.
La genesi di questa meravigliosa creatura è facilmente riassumibile nel progressivo accorpamento di diverse società pubbliche dedite alle medesime funzioni sull’onda delle grandi privatizzazioni degli ultimi vent’anni. La data di nascita ufficiale è il 1° luglio 2012 in seguito alla fusione di Iride ed Enia, che hanno portato in dote alla neonata società i bacini d’utenza di Torino e Genova (Iride) e Parma, Piacenza e Reggio Emilio (Enia)(7). I suddetti comuni, data l’origine pubblica di Iren, risultano essere attualmente gli azionisti di maggioranza della compagnia (e in base allo statuto societario e a vari patti parasociali dovranno rimanere tali)(8,9). Pertanto, oltre a godere di un potere decisionale più o meno ampio nella formazione del CdA (e se ne sono viste le conseguenze a Parma), sono direttamente coinvolti nell’andamento finanziario di Iren, incassandone i dividendi maggiori o dovendone sostenere le perdite.
La privatizzazione e successiva liberalizzazione dei servizi pubblici è stata de facto sancita dall’Unione Europa con la siglatura del Patto di Stabilità, che ha imposto all’Italia cambiamenti profondi nella sua organizzazione interna. Fino a quel momento le municipalizzate hanno funzionato da ammortizzatore sociale (fornendo posti di lavoro clientelari), e spesso da cassa per le varie amministrazioni locali, sia in termini leciti che illeciti. Se ne può quindi dedurre che difficilmente potessero essere aziende competitive sul mercato data la zavorra di partenza.
A recepire i diktat di Bruxelles in materia è stato soprattutto il primo governo Prodi, che alla già esistente legge Galli per l’acqua del 1994 ha aggiunto il decreto Ronchi per i rifiuti e l’ambiente nel 1997, il decreto Bersani per l’elettricità nel 1999 e quello Letta per il mercato del gas l’anno successivo. Al di là delle disquisizioni ideologiche sul tema tra liberisti e statalisti di destra e sinistra, il risultato del recente referendum sull’acqua sembra evidenziare come gli Italiani siano favorevoli all’intervento diretto dello Stato quando si parla di beni comuni. Preferenza che sembra sostenuta anche dall’evidenza dei dati, che mostrano come i vari mali che venivano additati quali caratteristiche endemiche del settore pubblico non siano spariti con l’ingresso di capitali privati. .
Per quel che concerne i costi, è inoltre interessante citare un lavoro pubblicato dall’Associazione artigiani e piccoli imprenditori (Cgia) di Mestre, che boccia in toto il risultato economico della svolta almeno per le tasche degli utenti finali. Rimanendo nei confini tracciati da questo articolo, le tariffe per la raccolta e smaltimento rifiuti sono aumentate del 54,5% negli ultimi dieci anni e la bolletta del gas del 56,7% sempre nello stesso periodo(10).
Anche sulla questione trasparenza i progressi sono stati minimi: le amministrazioni locali infatti, lungi dal voler rinunciare al proprio bancomat, hanno nella maggior parte dei casi deciso di controllare direttamente le multiutility, costituendone gli azionisti di maggioranza e hanno preferito la strada della quotazione in borsa rispetto all’ingresso di un socio di peso. Se la borsa da un lato chiede trasparenza e dividendi infatti, dall’altro non pretende di prendere le decisioni in consiglio di amministrazione, lasciando spazio di manovra agli interessi di partito(11).
A questo va aggiunto che anche l’investitore privato vuole il suo dividendo, creando situazioni paradossali, ne è esempio la stessa Iren. Stando allo statuto societario, nessun investitore privato può possedere più del 5% del capitale della società, ma questo non impedisce alcune incongruenze logiche. Tra gli azionisti figura infatti Amber Capital, fondo con sede operativa a New York e sede legale alle Isole Cayman. In pratica, una parte, per quanto relativamente piccola, di quanto i cittadini di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Genova e Torino pagano per servizi elettrici, idrici e di smaltimento rifiuti finisce in un paradiso fiscale estero(12).
A tutti questi aspetti negativi del sistema delle liberalizzazioni, o perlomeno del modo in cui sono avvenute in Italia, va aggiunto la ormai talmente cronica da poter essere definita “classica” incapacità del governo italiano di reagire logicamente alle richieste europee. Al momento della firma del Patto di Stabilità è piuttosto probabile che se ne fossero letti i termini, difficilmente un privato cittadino firmerebbe un contratto senza sapere cosa comporta. Invece, al momento della privatizzazione dei servizi pubblici il Governo ha concesso una moratoria fiscale di tre anni alle neonate aziende (Iren compresa) per favorirne l’ingresso sul mercato, manovra poi bocciata dall’Unione Europea in quanto aiuto di Stato a tutti gli effetti, col conseguente diktat da Bruxelles al Governo per riscuotere il credito (e si parla di centinaia di milioni di euro)(13,14).
Ma torniamo a Iren, al suo stato di salute finanziaria e alle sue scelte strategiche, argomenti strettamente correlati.
Analizzando la situazione finanziaria della compagnia spicca ovviamente la voce debiti, che ammontano a poco più di 2,2 miliardi di euro, a fronte di un fatturato di 3,4 miliardi di euro (in netto calo) e di un utile netto di circa 92 milioni di euro (anch’esso in calo). Un indice spesso usato in economia per avere un grossolano valore dello stato di salute finanziario di un’azienda è il rapporto debt/equity (ovvero il rapporto tra i passivi finanziari netti dell’impresa e il suo patrimonio). Quello di Iren nel 2013 è risultato essere 1,27, in calo rispetto all’1,31 del 2012(15). Solitamente si considera ottimale un valore appena minore di 1, in quanto valori troppo bassi o addirittura negativi indicano un’azienda che non sta facendo investimenti, quindi dai margini di crescita prossimi allo zero, mentre valori maggiori di 1 fotografano un’azienda finanziariamente traballante e probabilmente soggetta a pesanti influenze esterne, in quanto bisognosa di capitali alteri al gruppo. La causa di questo debito, secondo Iren stessa, va ricercata perlopiù negli investimenti effettuati, e qui ci ricolleghiamo con la prima del nostro percorso.
Quali sono stati questi investimenti? Due sono di grande rilevanza, sia economica che politica: il termovalorizzatore cogenerativo di Parma, costato secondo la Commissione Europea circa 315 milioni di euro (a fronte dei 195 sempre dichiarati da Iren e dall’allora sindaco di Parma Pietro Vignali)(16) e il rigassificatore OLT di Livorno, costato all’incirca 850 milioni.
Cos’hanno in comune queste due opere? In primo luogo il forte impatto economico sulla salute di Iren stessa; in secundis il rifiuto opposto dalle comunità locali alla loro realizzazione, dovuto alla logica Nimby (“Not in my backyard”, non nel mio giardino) e alla maggior attenzione dell’opinione pubblica alle questioni ambientali; infine, l’essere l’espressione della miopia di fondo della politica energetica nazionale.
L’esplosione elettorale del Movimento 5 Stelle nelle due città simbolo delle scelte energetiche di Iren ovviamente non può essere derubricata a caso fortuito. La ventata di aria fresca portata da Grillo e dai suoi neofiti della politica è stata accolta dai cittadini lì dove la protesta nazionale si è potuta sovrapporre a una ben più radicata protesta locale, mossa soprattutto da motivi ambientali.
Quello che ora manca alle nuove amministrazioni comunali è una visione più ampia del problema, che permetterebbe loro di uscire dal qualunquismo e dall’impossibilità di agire, vincolati come sono dai contratti firmati dalle precedenti giunte. Notevoli istanze geopolitiche, infatti, si coniugherebbero alla perfezione con le questioni ambientali e salutiste e darebbero più ampio respiro anche al Movimento nazionale.

 

Capitolo III: L’Italia e l’energia

A dettar legge in ambito energetico fino a qualche mese fa è stato il pacchetto europeo Clima-Energia 2020, il cosiddetto 20-20-20 (ovvero riduzione delle emissioni di gas serra del 20% rispetto al 1990; 20% del fabbisogno di energia ricavato da fonti rinnovabili; aumento del 20% dell’efficienza energetica)(17). Giusto nell’ottobre 2014 infatti è stato raggiunto un accordo tra i ventotto paesi membri per cercare di raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi, mantenendo sostanzialmente la stessa linea di condotta(18).
L’Italia si era posta nell’ottica di una transizione verso le rinnovabili già nel lontano 1992, grazie alla delibera CIP6 del Comitato interministeriale dei prezzi nella quale si stabilivano prezzi incentivati per l’energia elettrica prodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili e “assimilate”. Nella parola “assimilate” sta il trucco, visto che permette alle aziende esercenti gli inceneritori di rifiuti di rivendere l’energia prodotta a prezzo maggiorato, assimilando per l’appunto i rifiuti all’energia eolica, geotermica, solare, ecc(19).
Non è bastato il parere contrario della Commissione europea, espresso il 20 novembre 2003, a risolvere la questione creata da questo colpo di genio tutto italiano, e credo che così si possa spiegare la nascita del termovalorizzatore cogenerativo di Parma.
Il discorso si fa più interessante se passiamo ad analizzare invece la genesi del terzo rigassificatore nazionale, peraltro in odore di venir dichiarato opera di rilevanza strategica (passaggio che permetterebbe ad Iren di far gravare i costi di costruzione sulle bollette dei consumatori)(20).
Al momento il gas naturale rappresenta la seconda fonte energetica italiana, avendo coperto il 33,6% dei consumi nel 2013 (primo rimane il petrolio, 34,5%, ndr) e, secondo la Strategia Energetica Nazionale pubblicata dal Ministero per lo Sviluppo Economico nel 2013 è destinato perlomeno a mantenere questa rilevanza, nell’ottica di un sistema misto di medio termine basato sul binomio gas-rinnovabili. E’ pertanto chiaro che il gas rappresenta un tema cruciale nelle scelte geostrategiche italiane.
La produzione nazionale di questa fonte d’energia è scarsa. Secondo i dati del Ministero dello sviluppo economico, l’estrazione di gas sul territorio nazionale si è fermata nel 2013 a 7,735 G(m3), peraltro in calo del 10,1% rispetto all’anno precedente, a fronte di una domanda complessiva di circa 70 G(m3). La situazione non diventa certo più rosea se guardiamo le riserve: la Direzione Generale per le risorse minerarie ed energetiche del Ministero dello sviluppo economico valuta quelle certe in 56,2 G(m3) e quelle probabili in 58,5 G(m3). Al ritmo di estrazione medio degli ultimi cinque anni, le sole riserve certe sarebbero sufficienti per poco meno di sette anni, e in ogni caso incapaci di sostenere adeguatamente le necessità dell’Italia.
Nel 2013 anche le importazioni di gas dall’estero hanno registrato un’ulteriore significativa riduzione, in accordo con la riduzione della domanda nazionale per il terzo anno consecutivo, una contrazione per la precisione dell’8,5%, per un totale di gas importato pari a 61,966 G(m3), l’88,4% del totale consumato(21). E’ chiaro che la questione gas rappresenti un nodo nevralgico che la politica italiana sarà chiamata a sciogliere nei prossimi anni, se non vorrà risentire dei contraccolpi che crisi di varia natura possono portare, e stanno già portando, alle nostre fonti di approvvigionamento.
Quando si parla di gas naturale in termini geopolitici da un punto di vista europeo infatti, contano soprattutto due fattori: il prezzo e la sicurezza delle forniture.
Fino al completamento del rigassificatore OLT potevamo contare su sei punti di accesso fisici alla rete nazionale: quattro gasdotti e due terminali di rigassificazione. Il gasdotto di Passo Gries, costruito nel 1974 che porta gas dal mare del nord, e quello di Tarvisio, recentemente ristrutturato da Snam, che porta gas dalla Russia attraverso il TAG (TransAustriaGas Pipeline) sono i due gasdotti alpini; gli altri sono in Sicilia, a Mazara del Vallo e a Gela, e portano rispettivamente gas dall’Algeria (Transmed) e dalla Libia (Greenstream). I due terminali di rigassificazione sono rispettivamente a Panigaglia e a Rovigo e nell’anno termico 2013-2014 hanno contribuito alle importazioni nazionali fornendo insieme 37,4 M(m3) standard al giorno, circa il 12% del totale.
Ad essi si è aggiunto per l’appunto il rigassificatore OLT, con una capacità conferibile di 15 M(m3) standard al giorno, circa il 4.3% della capacità conferibile totale e il 4,7 di quella effettivamente conferita. Nell’insieme, i tre rigassificatori costituiscono circa il 16% della capacità conferibile totale, direi un quantitativo tutto sommato marginale(22).
Da chi importiamo il gas che arriva tramite questi punti d’accesso?
1) La Libia è l’unico paese produttore con cui abbiamo un collegamento diretto, il gasdotto Greenstream realizzato nel biennio 2003-04, nel quale Eni ha investito 3,7 miliardi di euro. Grazie ad esso, la quota di importazioni di gas libico è costantemente cresciuta nel periodo 2004-2010, arrivando a coprire il 13% delle importazioni. Nel 2011, la guerra civile che ha portato alla destituzione e poi all’uccisione del colonnello Gheddafi, sull’onda della primavera araba, ha segnato uno spartiacque fondamentale per i nostri interessi al di là del Mediterraneo: avallando la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite abbiamo infatti deciso di non perseguirli. L’intervento militare Nato, compiuto col necessario supporto logistico italiano, ha segnato le sorti del conflitto facendolo velocemente pendere dalla parte del Consiglio Nazionale Libico. Il risultato è stato consegnare il paese all’anarchia e ai conflitti tribali e religiosi, e questo, oltre ad aver favorito l’arrivo di decine di migliaia di profughi sulle coste italiane, ha inesorabilmente colpito le esportazioni di gas naturale, crollate al 3,3% del totale nel 2011 e che tuttora stentano a riprendersi. Fare affari con un paese in guerra civile in ogni caso non sembra una prospettiva rassicurante, dal momento che i ribelli utilizzano continuamente l’interruzione dei flussi di gas come arma(23,24).
2) L’Algeria, collegata al nostro paese da Transmed, è stato il nostro principale partner dall’ormai lontano 1995, ma coinvolta anch’essa nel quadro di generale agitazione socio-politica dei Paesi del Nord Africa e complice la revisione dei volumi pattuiti nei contratti di fornitura in essere con alcuni importatori italiani (Eni, Edison, Enel), si è vista scivolare in seconda posizione, superata dalla Russia. Se nel 2012 abbiamo importato dall’Algeria 21,953 G(m3), il 32,4% del totale, nel 2013 sono stati circa 9 G(m3) in meno, un calo del 42% in termini relativi, portandola al 21% del totale.
3) La Russia, dalla quale il gas arriva attraverso il Tap, ha visto invece aumentare le sue esportazioni italiane nel 2013 di 5,400 G(m3), arrivando a circa 24 G(m3) annui, una quota del 38% del totale. Sarà interessante notare i dati del 2014, in concomitanza con l’applicazione delle sanzioni imposte dall’Unione Europea alla Federazione, che hanno colpito almeno in linea teorica i finanziamenti ai giganti dell’energia russi, come Rosneft e Gazprom, e hanno avuto come conseguenza diretta il blocco del progetto South Stream, con perdite ingenti per le industrie italiane coinvolte nel progetto (per quanto Gazprom si sia recentemente impegnata a risarcire le quote degli altri investitori coinvolti)(25).
4) Dal Mare del Nord arriva il gas che transita da Passo Gries, e possiamo stimarne la quantità nel 15% circa del totale, dato in costante flessione negli ultimi quindici anni. Olanda, Norvegia e Germania insieme ci hanno venduto circa l’11,5% del gas totale nel 2012, dato che sembra in lieve flessione nel 2013.
5) I due terminali di rigassificazione, oggi diventati tre, hanno come principale fornitore il Qatar, che nel 2013 ha contribuito per poco più dell’8% del totale, dato in flessione del 14% dal 2012 soprattutto per rinegoziazione dei contratti in essere(26).
Da questa sterile enumerazione di dati, cosa dobbiamo dedurre? Innanzitutto che, per quanto il gas rimarrà fondamentale per il fabbisogno energetico italiano nei prossimi decenni, il suo consumo in termini assoluti, ad oggi in calo in parte per motivi strutturali (es inverno mite) in parte per motivi congiunturali (la crisi economica), non aumenterà in misura significativa. Serve quindi ampliare la capacità di importazione? In realtà da questo punto di vista il rigassificatore di Livorno rappresenta un (costoso) esempio di eccessiva ridondanza del sistema, che già prima della sua costruzione era in grado di gestire confortevolmente i picchi di richiesta.
In secondo luogo, che il quadro generale dei Paesi fornitori non è al momento rassicurante, a causa dell’instabilità socio-politica del Nord Africa e dei rapporti tesi con la Federazione Russa a causa della questione ucraina.
Pertanto l’esistenza del rigassificatore di Livorno non è giustificabile se non ha impatto sul punto cruciale della questione gas per l’Italia: la certezza dell’approvvigionamento. Certezza che può venire forse dall’ampliamento del numero delle fonti, ovvero dal coinvolgimento di nuovi Paesi produttori finora non presi in considerazione nel contesto italiano.

 

Capitolo IV: Il mercato internazionale del gas

Diventa a questo punto necessario compiere un ultimo, fondamentale ampliamento di campo per comprendere il senso di questo astratto cammino dal locale al globale, ed è quindi ora di analizzare lo status del mercato internazionale del gas, per poter capire cosa abbia spinto Iren a costruire il terzo impianto di rigassificazione nazionale.
La domanda di gas naturale a livello mondiale è prevista in forte aumento, dai 3.300 miliardi di metri cubi del 2010 agli oltre 5.000 previsti nel 2035, trainata dal consumo asiatico, in netta crescita sia per quel che riguarda la generazione elettrica che per gli usi industriali e civili. Secondo le previsioni del World Energy Outlook l’offerta crescerà parimenti, con una sempre maggiore diversificazione geografica dei Paesi produttori ed una maggior importanza del mercato GNL. E qui entra in gioco Livorno, secondo i piani energetici del Governo Italiano e di Iren. Il ruolo dominante nella crescita dell’offerta sarà quello del “gas non convenzionale” (o, più tecnicamente, gas da scisti delle argille bituminose), che tra vent’anni è previsto rappresentare tra il 25 e il 27% della produzione mondiale (e oltre il 50% della crescita assoluta di volumi da oggi al 2035).
Se ci limitiamo ad analizzare solo la situazione europea, piuttosto peculiare nel suo insieme rispetto al contesto globale, vediamo che il trend generale non è disatteso. Se è vero che la bassa crescita economica prevista unita alle politiche di efficienza energetica e di sostituzione delle fonti tradizionali con quelle rinnovabili comporterà sì una crescita minore della domanda di gas, il concomitante calo della produzione interna (previsto nonostante le ottimistiche ipotesi riguardo lo sviluppo dello shale gas) determinerà comunque la necessità di un aumento delle importazioni di circa 190 miliardi di metri cubi nei prossimi vent’anni(27).
E’ chiaro pertanto che è imperativo avere una strategia energetica a lungo termine e, agendo in ambito geopolitico, assicurarsi l’approvvigionamento consono alle nostre necessità, specie considerando il fatto che sempre più Paesi entreranno nel mercato del gas. La Cina è già, e diventerà sempre di più, un player di rilevanza mondiale, e tutto fa pensare che anche l’India vedrà un incremento esponenziale dei consumi. Avere rapporti consolidati e funzionali con i Paesi produttori più adatti all’Italia è pertanto fondamentale, e vanno coltivati in modo continuativo e strategico, fatto, questo, solitamente estraneo alla realtà del bel Paese e al modo di pensare delle sue élites.
Come già affermato, il fattore che sta rivoluzionando lo scenario globale è appunto quello del gas (e del petrolio) da fonti non convenzionali.
Questo è sostanzialmente di tre tipi, a seconda della fonte:
1) Coal Bed Methane (CBM), gas intrappolato in giacimenti da carbone;
2) Tight Gas, gas naturale in depositi clastici a bassa permeabilità (sostanzialmente giacimenti a bassa pressione e quindi dalla difficile resa estrattiva a prezzo di mercato, perlomeno nel passato);
3) Shale Gas, gas naturale in argille/argilliti.
Quello che ha visto un vero e proprio boom nell’ultimo decennio è il terzo, grazie ad alcune piccole rivoluzioni tecnologiche che hanno permesso a questi giacimenti di diventare economicamente produttivi. Lungi da me tracciare ora una dettagliata descrizione tecnica dei meccanismi di formazione dei depositi di gas da scisti o dei metodi di estrazioni, per questi rimando a un qualunque manuale tecnico. Semplificando estremamente comunque, è stata l’introduzione di due metodiche a permettere il proliferare di questi pozzi: il trivellamento orizzontale e la fratturazione idraulica. In questo modo, ampliando le fratture già naturalmente presenti nelle argille che compongono il giacimento o creandole ex novo si aumenta la superficie disponibile a cui il gas è adsorbito e si riesce ad avere un’estrazione concorrenziale coi pozzi tradizionali(28).
La tecnologia è stata ovviamente sviluppata negli Usa, che dopo un primo miniboom negli anni ’80 grazie ad alcuni sgravi fiscali voluti da Reagan (Alternative Fuel Production tax credit, all’interno del Crude Oil Windfall Profit Tax Act) hanno visto una estensiva proliferazione di pozzi nell’ultimo decennio. Dal 2000 al 2008 infatti la produzione di gas naturale negli Usa è calata all’incirca dell’1,4% ogni anno, provocando un rialzo dei prezzi. Questi due fattori, supportati dalla nuove tecnologie citate in precedenza, hanno costituito l’humus su cui ha potuto svilupparsi l’industria del gas non convenzionale, che è passato rapidamente dal rappresentare il 15% della produzione domestica al 51%.
Questo ha permesso agli Stati Uniti di diventare di fatto autosufficienti, consentendo addirittura alle diverse grandi compagnie del settore, che negli primi anni duemila stavano progettando diversi impianti di rigassificazione per importare GNL, di iniziare il pressing lobbystico per realizzare invece degli impianti di liquefazione, in previsione di un imminente futuro che vedrà gli Usa come paese produttore ed esportatore. Sarebbe una svolta epocale, una rivoluzione globale: il più potente soggetto statuale del pianeta che in pochi anni passa dal dover impostare un piano energetico difensivo al poterne pensare uno giocato assolutamente all’attacco(29).
Questo fatto ovviamente ha avuto una pesante ripercussione anche sugli altri mercati regionali del gas, perché, si sa, in economia le previsioni hanno la loro importanza. Se il prezzo del gas nel mercato domestico americano è crollato (grazie sia all’aumento dell’offerta sia alla crisi economica del 2009) attestandosi all’incirca sui 4 dollari per mmBtu (British Thermal Unit), quasi un terzo del prezzo sui mercati spot europei, anche nel Vecchio Continente è stato possibile sganciarsi almeno parzialmente dai contratti Take-or-Pay legati al prezzo del Brent (pure in picchiata, e anche questo ha aiutato), permettendo un contenuto ma considerevole calo dei prezzi(21,29).
Direi che a questo punto la presenza del rigassificatore Olt al largo di Livorno è stata ampiamente motivata: permetterà all’Italia di inserirsi nel florido mercato del GNL (Gas Naturale Liquefatto), previsto in rapida crescita.
La domanda ha questo punto diventa se è effettivamente corretto per l’Italia puntare sullo shale gas americano, piuttosto che concentrarsi nel tessere buone relazioni con altri Paesi produttori.
Ci sono sostanzialmente tre fattori che fanno venire parecchi dubbi sulle strabilianti prospettive offerte dal gas da scisti.
Il primo è di ordine tecnico-ambientale: numerosi studi sembrano mettere in correlazione la fratturazione idraulica con sismi verificatisi nell’aree di maggior intensità estrattiva. Altra grave problematica riguarda il rischio d’inquinamento delle falde acquifere destinate all’uso domestico e il complesso smaltimento delle acque reflue. Questo pone ovviamente dei gravi limiti all’implementazione di questa tecnica nel continente europeo, ben più densamente popolato di quello americano e da sempre più sensibile alle tematiche ambientali, vanificando la (presunta) discreta presenza di riserve sfruttabili. Il Governo Italiano, cogliendo queste problematiche, ha ribadito nell’ultimo Piano Energetico Nazionale il rifiuto di ricorrere al gas da scisti per incrementare la produzione nazionale: dunque in ogni caso non ci avvicinerà all’indipendenza energetica(21,30,31).
Il secondo fattore è di ordine tecnico-economico: lo shale è davvero competitivo? La produttività dei pozzi è notevolmente inferiore rispetto a quelli di gas convenzionale, e richiede continui investimenti (cioè nuove trivellazioni) per mantenere la produzione su livelli costanti (altrimenti la produttività dopo un boom iniziale decade molto rapidamente). Le numerose compagnie che hanno partecipato al boom si sono pesantemente indebitate, ricorrendo al mercato finanziario per garantirsi i capitali necessari, ma i livelli di produzione e il basso prezzo del gas sul mercato americano fanno sì che adesso il valore reale delle compagnie sia inferiore ai loro debiti. Il rischio dell’esplosione di una nuova bolla speculativa è molto alto. Come continuare ad investire dunque?(29,32,33)
Il terzo fattore è di ordine economico-politico, e riguarda in parte gli Stati Uniti e ancor di più l’Europa: a seconda dei giacimenti (che hanno una produttività molto variabile dall’uno all’altro) il break even oscilla tra una forbice molto ampia, da 4 $/mmBtu fino addirittura a 12 $/mmBtu. E’ facile prevedere che, dopo l’iniziale calo dei prezzi dovuto all’improvviso incremento della produzione, domanda e offerta troveranno un nuovo punto d’equilibrio. Sarà favorevole allo shale? E’ tutto da dimostrare, specie considerando il crollo del prezzo del Brent negli ultimi mesi. Sia che si tratti di un’azione concordata dall’Arabia Saudita con Washington per colpire Putin, sia che i Sauditi stiano agendo di propria iniziativa per colpire proprio lo shale americano, siamo abbondantemente sotto il livello di break even. Difficile pensare che un prezzo del petrolio così basso non abbia ripercussioni su quello del gas. Se parliamo di Unione Europea poi, a questo dobbiamo aggiungere l’enorme costo che avrebbe costruire i necessari terminali di rigassificazione atti a ricevere il gas americano e le varie infrastrutture correlate per l’allaccio alla rete. A questi costi iniziali andrebbe poi aggiunta la spesa, inevitabile e permanente, dei costi di liquefazione e di trasporto. Sommando questi fattori, è molto improbabile che il gas americano arrivi a costare alla frontiera meno del gas russo, e infatti secondo un’analisi di Bloomberg, un ipotetico scenario di rinuncia totale al gas del Cremlino significherebbe per l’Europa raddoppiare i costi attuali(34).

 

Capitolo V: Conclusioni. Per una Realpolitik dell’energia

Appare ora evidente come i due piccoli terremoti politici di Parma e Livorno siano collegati in qualche modo con scelte che trascendono abbondantemente i confini delle due provincie. Gli Americani sono stati molto bravi a venderci la rivoluzione dello shale come già compiuta e i nostri governi, ansiosi di compiacere il fratello maggiore di Washington, si sono fidati della Verità rivelata, e questa è perlomeno dabbenaggine. Avallare l’attacco alla Libia è stata una scelta che, se non obbligata, non può che esser ritenuta masochistica. Accettare lo stato di tensione permanente, o forse sarebbe meglio dire di guerra economica dichiarata, con la Russia è semplicemente utopistico: abbiamo bisogno del gas siberiano tanto quanto loro hanno bisogno di vendercelo. Compiere costosi investimenti per cercare energia facile senza rispettare né le direttive europee, né il volere dei cittadini, né il buon senso, e senza neanche riuscire ad averne un tornaconto economico, è addirittura sinonimo di carenza d’intelletto.
Siamo giunti al termine del nostro cammino, che ci ha permesso ancora una volta di vedere come le piccole vicende particolari riassumano in sé molti dei cronici problemi che affliggono l’Italia. L’assenza di una visione d’insieme delle élites al governo e la loro incapacità di compiere scelte a lungo termine e di perseguirle si sommano al deficit di coordinamento tra centro e periferia, acuito dalle privatizzazioni e dalle reti di potere locali. La sensazione che l’Italia sia ancora oggi uno Stato a sovranità limitata permane, o perlomeno il nostro Paese si mostra ancora incapace di farsi valere nel contesto internazionale. Tutto questo porta ad azioni non condivise dalla cittadinanza, che in assenza di alcun mezzo per poter esprimere il proprio dissenso efficacemente vota un partito di protesta, nato grazie alla popolarità e al carisma di un comico ma privo di una linea politica di fondo.
E’ una caduta vorticosa che presenta il conto ogni due mesi, quando si pagano le bollette, e non sembra presentare vie d’uscita percorribili a breve termine.
Una risorsa intellettuale che dovrebbe venire in aiuto al politico in questi casi è il pragmatismo, il principio alla base della Realpolitik bismarckiana. Saper conciliare la realtà dei fatti e i rapporti di forza vigenti tra Stati e organizzazioni sovranazionali con le necessità della propria Nazione sarebbe essenziale per poter finalmente cominciare a fare gli interessi dell’Italia.
Analizzando il contesto nel quale il nostro Paese si trova a dover agire appare palese la forza del vincolo atlantico, ma altrettanto chiara appare la divergenza d’interessi perlomeno in ambito energetico. Per cui, senza indispettire direttamente l’alleato americano, si rende necessaria una certa indipendenza di pensiero e d’azione, volta a favorire la creazione di quei presupposti pratici funzionali al perseguimento del proprio interesse e non di quello altrui.
Agendo in quest’ottica, l’imperativo è coinvolgere l’Unione Europea nel problema. E’ incredibile come nell’unico settore veramente cruciale, la politica estera, l’Unione non abbia compiuto alcuno sforzo in favore dell’integrazione. In relazione alla vicenda ucraina, Bruxelles si è confermata essere un peso massimo economico e un peso piuma politico.
Parallelamente, in attesa di ottenere un sostegno da un’UE finalmente soggetto politico e non oggetto, occorrerebbe temporeggiare. Aspettare di vedere se lo shale diventerà davvero una risorsa reale ed utilizzabile convenientemente per l’Italia oppure se si rivelerà essere un flop. Allo stesso tempo curare i rapporti economici e diplomatici con altri Paesi che possono essere affidabili fornitori di GNL, dal momento che ormai il rigassificatore esiste ed è operativo (Qatar in primis e in generale i Paesi del Golfo).
A questo punto, cercare in ogni modo agendo nei vari Consigli dei principali organismi internazionali di giungere a una normalizzazione della situazione in Libia, per tutelare i nostri interessi sull’altra sponda del Mediterraneo.
Infine, sfruttare l’esistenza del rigassificatore e la notevole varietà di fonti già a disposizione dell’Italia anche in virtù della sua posizione geografica per ritrattare con la Russia, forti del debole prezzo del Brent. Questo ci consentirà di ottenere buoni sconti sui contratti Take-or-pay anche in tempi relativamente brevi. Immaginare di riesumare il progetto South Stream appare al momento impossibile, avvicinarsi così tanto alla Russia in questo momento appare sconveniente e probabilmente impossibile, ma coltivare sotto traccia buoni rapporti diplomatici con Putin, anche in virtù del recente passato di amicizia privilegiata tra il Cremlino e Roma, sarebbe imperativo in un’ottica di futuri sviluppi della situazione internazionale.
Se nessuna di queste decisioni verrà presa, continueremo ad affondare lentamente, nell’attesa che gli interessi del nostro alleato d’oltreoceano tornino fortuitamente a coincidere coi nostri.

 

Bibliografia

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21. Cfr. Ministero per lo Sviluppo Economico, “Strategia Energetica Nazionale: per un’energia più comeptitiva e sostenibile”, marzo 2013 e Autorità per l’energia elettrica e il gas, “Relazione annuale sullo stato dei servizi e sull’attività svolta”, 31 marzo 2013.
22. Autorità per l’energia elettrica e il gas, “Relazione annuale sullo stato dei servizi e sull’attività svolta”, 31 marzo 2013, pagg. 137-140.
23. http://it.wikipedia.org/wiki/Greenstream
24. http://www.repubblica.it/esteri/2014/12/14/news/libia_combattimenti_chiuso_pi_grande_porto_petrolifero-102858514/
25. http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/03/putin-ferma-gasdotto-saipem-impatto-variabile-perderemo-almeno-125-miliardi/1247866/
26. Per i dati sulle importazioni cfr. http://dgerm.sviluppoeconomico.gov.it/dgerm/bilanciogas.asp
27. Cfr. “World Energy Outlook 2013” http://www.worldenergyoutlook.org/publications/weo-2013/
28. http://www.treccani.it/export/sites/default/Portale/sito/altre_aree/Tecnologia_e_Scienze_applicate/enciclopedia/italiano_vol_3/057-084_ita.pdf
29. Cfr. Rogers H., “Shale gas, the unfolding story”, Oxford Review of Economic Policy, Volume 27, Number 1, 2011, pp. 117–143 (http://oxrep.oxfordjournals.org/content/27/1/117.short);
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31. Cfr. Ellsworth W.L., “Injection-Induced Earthquakes”, Science, Vol. 341 no.6142, 12 luglio 2013 (http://www.sciencemag.org/content/341/6142/1225942.short);
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32. http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-11-12/crollo-petrolio-e-debito-spazzatura-bolla-shale-oil-rischia-esplodere-210140.shtml?uuid=ABameCDC
33. http://www.peakoil.net/headline-news/barnett-shale-gas-production-on-its-way-downhill
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