Un paesaggio geografico segna il destino del popolo che lo abita. Un popolo che conquista un territorio e vi si insedia, accetta la legge di quel territorio, consapevole o no che esso ne sia. Si potrebbero fare parecchi esempi a questo proposito; ma, siccome qui ci interessa l’Ungheria, cercherò di delineare il profilo dello spazio geografico storicamente occupato dal popolo ungherese, perché esso ha influito in maniera decisiva sulla sorte storica di questo popolo.

Si tratta dello spazio che viene chiamato Bacino Pannonico (dal nome del popolo illirico che lo abitava nell’antichità) o Bacino dei Carpazi (dal nome della catena montuosa che lo delimita a nord e ad est). Racchiuso tra le Alpi, i Carpazi e i Balcani, il Bacino Pannonico è la più vasta e la più chiusa tra le quattro unità territoriali attraversate dal Danubio (le altre tre sono ad ovest lo spazio bavaro-svevo e quello della Bassa Austria e ad est quello valacco-bulgaro). Il Bacino Pannonico non ha un litorale marino: è una vasta pianura che configura un settore di cerchio delimitato da massicci montani. Sembra che tutto il suo peso, poggiando sulle coste adriatiche e sulla regione balcanica, protegga o minacci l’Europa ed il Mediterraneo.

In effetti il Bacino Pannonico rappresentò una minaccia tra la fine dell’età antica e la prima metà del Medioevo, nel periodo delle “invasioni barbariche”, come vengono chiamate in Italia, o “migrazioni di popoli” come le chiamano gli Ungheresi (népvandorlás, cfr. ted. Völkerwanderung). Goti, Gepidi, Unni, Avari e infine Ungari, in un primo momento fecero di questa fortezza naturale, collocata fra l’Oriente e l’Occidente, il punto di partenza delle loro scorrerie.

Gli Ungari erano un popolo ugrico, appartenente cioè al ramo orientale della compagine ugrofinnica (il ramo occidentale è quello finnico). A sua volta, la compagine ugrofinnica è affine al gruppo altaico, che comprende popoli turchi, mongoli e manciu-tungusi. Questo popolo ugrico, dopo essere vissuto nella regione compresa fra la Kama e gli Urali, circa duemila anni fa varcò la Kama e si stabilì press’a poco nell’attuale Bashkiria. Qui, tra la Volga, la Kama, la Belaja e l’Ural, gli Ungari convissero per qualche secolo coi Bulgari (che erano ancora un popolo turco) e da loro impararono a coltivare la terra e ad allevare il bestiame, trasformando così il proprio stile di vita di cacciatori e pastori. Lo stesso nome di Ungari, con cui questo popolo venne designato, deriva dal nome etnico dei Bulgari, onogur, che significa “dieci frecce” (on ek/eg), cioè dieci tribù.

Ungari e Bulgari turchi andarono poi a stabilirsi più a sudovest, fra l’Ural, il Caucaso e il Mar Nero, dove rimasero fin verso la fine del VII sec. d. C., quando i Bulgari si scissero in due rami, uno dei quali si diresse verso la penisola balcanica, dove ancora risiede. Venuti a contatto coi Cazari, un popolo turco che aveva esteso il proprio dominio fra il Mar Nero e il Caspio, gli Ungari vissero per un certo periodo in questa regione, in un contesto etnico eterogeneo, finché, sollecitati da nuove migrazioni, si spostarono nella Lebedia, fra il basso Don e il Mar d’Azov. Ma la pressione di un altro popolo turco, i Peceneghi, spinse ulteriormente verso ovest la compagine ungara, che venne così a trovarsi fra il Dnepr e il basso Danubio. Quando questa nuova sede degli Ungari fu attaccata da Peceneghi e Bulgari, gli Ungari furono costretti a proseguire la migrazione verso occidente.

Fu così che nell’895 circa 200.000 cavalieri ungari, accompagnati dalle loro famiglie, valicarono il passo carpatico di Verecke e dilagarono nella pianura solcata dal Tibisco e dal Danubio, abitata da tribù di varia appartenenza etnica.

Gli Ungari erano organizzati in dieci tribù, sette delle quali propriamente ugriche e tre cabarde (anche i Cabardi erano un popolo turco). Fra tutte, quella preminente era la tribù magyar, il cui capo, Árpád, guidava l’intera comunità. E fu questa tribù ad estendere a tutto il popolo ungaro la denominazione di magyar, che gli Ungheresi usano ancora oggi.

Infatti Magyarország (lett. “paese magiaro”) è oggi, in base alla nuova Costituzione ungherese, la denominazione ufficiale dell’Ungheria.
Questa decisione non è piaciuta agli agguerriti critici della nuova Costituzione ungherese. Il “Corriere della Sera”, ad esempio, ha scritto che la denominazione Magyarország (“Ungheria”) in luogo di Magyar Köztársaság (“Repubblica Ungherese”) richiama la “retorica di una grandeur nazionalistica che sembrava archiviata”.

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Nell’895 ebbe dunque luogo quell’evento che gli Ungheresi chiamano “occupazione della patria” (honfoglalás) e che diede inizio a una nuova fase della loro storia.

Dicevo che il Bacino Pannonico rappresentò una minaccia per l’Europa dell’epoca. Nella prima metà del secolo successivo, infatti, gli Ungari intrapresero decine di spedizioni in varie parti d’Europa. Da Bisanzio ai Pirenei, gli Ungari seminavano il terrore, devastavano le campagne, espugnavano le città meno difese, catturavano bottino e prigionieri. “Nunc te rogamus, licet servi pessimi, – ab Hungarorum nos defendas jaculis“: così la gente dell’Emilia pregava il Cielo affinché la proteggesse dalle frecce dei cavalieri ungari. Identificati con gli Unni, gli Ungari erano visti come un secondo “flagello di Dio”; chi li diceva figli di diavoli e di streghe àvare, chi riconosceva in loro le genti di Gog e di Magog.

Con Enrico l’Uccellatore comincia però la riscossa dell’Europa cristiana contro le incursioni ungare. Il sovrano sassone, che in un primo tempo era stato costretto a versare il tributo agli Ungari per evitare i loro saccheggi, nel 933 li sconfigge in una battaglia campale. Nel 955 suo figlio Ottone I sbaraglia di nuovo nel Lechsfeld l’orda ungara che aveva assalito Augusta (Augsburg). In seguito alla sconfitta, i capi degli Ungari avvertono la necessità di cambiare rotta: occorre stabilire rapporti di buon vicinato con il Sacro Romano Impero, rinunciando definitivamente al seminomadismo ed alle incursioni e insediandosi stabilmente nel bacino carpatico-danubiano.

Per compiere questa svolta, gli Ungari devono legittimarsi, abbandonando la religione dei padri (una forma di sciamanesimo affine a quello dei popoli finnici e prototurchi) e adottando la religione cristiana. Il principe Taksony chiede alla Santa Sede di inviare un vescovo tra gli Ungari; il suo successore Géza si fa battezzare; il figlio di Géza, Vajk, assume il nome cristiano di Stefano (István), nell’anno 1000 riceve la corona d’Ungheria da papa Silvestro II e prosegue decisamente nella conversione delle tribù ungare.

I barbari predatori diventano le sentinelle dell’Europa cristiana sul confine orientale. Se il limes dell’Impero Romano era segnato ad est dal corso del Danubio, dopo il 1000 il limes orientale dell’Europa medioevale è rappresentato dal regno d’Ungheria.

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In seguito, tre imperi si sarebbero affrontati per controllare lo spazio solcato dal Danubio: l’impero absburgico, l’impero ottomano e quello russo, ciascuno seguendo una diversa direzione di marcia. Gli Austriaci discesero il fiume, i Turchi lo risalirono, l’Armata Rossa lo attraversò.

Nell’impero absburgico, che controllò buona parte dello spazio danubiano fino alla prima guerra mondiale, il centro di gravità non era occupato dai Tedeschi (fatta eccezione per le colonie sveve disseminate qua e là), ma dalla massa compatta degli Ungheresi. L’Ungheria costituiva il nerbo dell’impero: nel centro geometrico della Monarchia absburgica, al centro del bacino danubiano, c’erano Buda e Pest, mentre Vienna si trovava alla periferia, vicino al confine occidentale. Periferici erano anche gli altri territori: Transilvania, Bosnia, Carinzia, Stiria, Slovacchia, Boemia, Galizia. Sulla carta geografica, la Monarchia danubiana appariva come un’Ungheria prolungata verso il nord e verso l’ovest.

È questo lo sfondo geopolitico del Compromesso (Ausgleich, Kiegyezés), la riforma costituzionale del 1867, che Vienna si vide costretta ad adottare in seguito alla sconfitta subita nella guerra austro-prussiana dell’anno precedente, riconoscendo al blocco compatto degli Ungheresi un peso decisivo. In virtù del Compromesso, l’Impero d’Austria diventava una “monarchia austro-ungarica”: una duplice monarchia che, sotto un identico sovrano (Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria), si articolava in due regni distinti. Se i ministeri competenti per la politica estera, la politica economica e quella militare erano in comune, accanto all’imperial-regio esercito esistevano anche un esercito nazionale austriaco (Landwehr) e un esercito nazionale ungherese (Honvéd), mentre le questioni finanziarie e quelle commerciali erano regolate da accordi decennali rinnovabili.

Gli Ungheresi non erano solo il popolo centrale del bacino danubiano, ma erano anche l’unico che apparteneva soltanto ad esso, l’unico la cui lingua non era parlata da nessun’altra parte. La patria degli Ungheresi (come d’altronde quella dei Cechi, degli Slovacchi, degli Sloveni e dei Croati) si trovava tutta quanta entro i confini della Monarchia absburgica, mentre altri popoli (i Tedeschi, i Serbi, i Romeni, gli Ucraini, i Polacchi, gl’Italiani) erano insediati in parte entro i confini absburgici e in parte fuori.

Non è corretto formulare delle ipotesi circa sviluppi storici che non si sono verificati; tuttavia si è inevitabilmente tentati di dire che l’Austria-Ungheria sarebbe diventata una Grande Ungheria, se la prima guerra mondiale non avesse posto fine all’esistenza dell’impero, riducendo inoltre l’Ungheria ai minimi termini.

Infatti i confini dell’Ungheria postbellica, stabiliti nel novembre-dicembre 1918, non comprendevano: 1) la città di Temesvár (Timişoara), dove fu proclamata la Repubblica del Banato; 2) parte della Transilvania, che fu annessa al Regno di Romania; 3) la Slovacchia, che diventò parte del nuovo Stato cecoslovacco; 4) la Croazia, la Slavonia e la Voivodina, che furono unite al neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni; 5) la città di Fiume, che, oggetto di dispute territoriali, fu occupata prima da truppe anglo-francesi e subito dopo dai legionari di D’Annunzio, per essere poi annessa al Regno d’Italia; 6) le città di Pécs, Mohács, Baja e Szigetvár, che furono poste sotto amministrazione provvisoria serbo-croata (ma sarebbero state poi restituite all’Ungheria).

I confini definitivi dello Stato ungherese, fissati dal Trattato del Trianon il 4 giugno 1920, privavano l’Ungheria di altri territori: 1) il resto della Transilvania, che fu assegnato anch’esso alla Romania; 2) la Rutenia subcarpatica, che divenne parte della Cecoslovacchia, 3) buona parte del Burgenland, che fu assegnato all’Austria.

In tal modo la superficie territoriale dell’Ungheria venne ridotta di due terzi. Il nuovo staterello non ebbe più accesso al mare, che il Regno d’Ungheria aveva mantenuto, attraverso i territori della Croazia, per oltre 800 anni. Come si disse all’epoca con un certo sarcasmo, l’Ungheria era diventata l’unico paese al mondo che confinasse con se stesso da ogni lato. A questa boutade se ne aggiungeva un’altra: l’Ungheria, oltre ad essere una monarchia senza re, era un paese senza mare guidato da un ammiraglio.

La popolazione della piccola Ungheria postbellica ammontava a 7 milioni di abitanti: 12 milioni in meno rispetto al Regno d’Ungheria, che ne contava 19 milioni.

La popolazione delle province che l’Ungheria dovette cedere ad altri Stati era in maggioranza non ungherese; in certi casi, però, essa includeva significative minoranze ungheresi, mentre in alcuni territori (Slovacchia meridionale, alcune parti della Transilvania e della Voivodina) la maggioranza era ungherese. Riportiamo i dati che il censimento del 1910 aveva riportato in relazione alla popolazione ungherese delle province alienate: Transilvania 1.662.000 (32%), Slovacchia 885.000 (30%), Rutenia subcarpatica 183.000 (30%), Voivodina 420.000 (28%), Burgenland 26.200 (9%), Croazia 121.000 (3,5%), Slovenia 20.800 (1,6%). Per effetto del Trattato del Trianon la popolazione ungherese diminuì in tutte queste regioni; tuttavia notevoli minoranze ungheresi vi risiedono ancora oggi, specialmente in Romania, Slovacchia, Serbia ed Ucraina.

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Non è necessario soffermarsi sugli effetti devastanti prodotti fino ai giorni nostri dai trattati di pace che i vincitori della prima guerra mondiale imposero alle potenze sconfitte, in Europa e nel Vicino Oriente, creando situazioni da cui sono scaturiti diversi conflitti.

Per quanto riguarda l’Ungheria, la richiesta di revisione del Trattato del Trianon trovò sostegno presso quegli Stati che erano stati anch’essi in vario modo penalizzati dai trattati di pace, in primis la Germania e l’Italia. Fu così che l’Ungheria aderì al Patto Anticomintern e poi, il 20 novembre 1940, al Patto Tripartito. Dall’avvicinamento a Roma e a Berlino essa raccolse i frutti il 30 agosto 1940, quando i ministri del Reich e dell’Italia, Joachim von Ribbentrop e Galeazzo Ciano, emisero a Vienne una decisione arbitrale che restituiva a Budapest una parte dei territori assegnati alla Romania dal Trattato del Trianon: la Transilvania settentrionale, comprese Oradea, Cluj e la regione dei Székely.

In seguito alla vittoria delle potenze alleate, l’Ungheria uscì dal conflitto con gli stessi confini stabiliti dal Trattato del Trianon, rinsaldati dal controllo sovietico e per quarant’anni fece parte dello spazio geopolitico egemonizzato dall’URSS.

Ma fu proprio l’Ungheria, il 23 agosto 1989, che iniziò a smantellare la Cortina di Ferro, favorendo l’esodo di migliaia di Tedeschi della DDR. Con la caduta del Muro di Berlino e della Cortina di Ferro, con lo scioglimento del Patto di Varsavia, la dissoluzione dell’URSS e il rovesciamento del sistema comunista, l’Ungheria si orientò verso i modelli economici e politici dell’Europa occidentale, cosicché nel 1989 la Repubblica Popolare Ungherese cessò di esistere.

Nel maggio 1995 si tenne a Budapest l’assemblea parlamentare della NATO. L’Ungheria non era ancora un paese membro, però aveva aderito al “Partenariato per la Pace” creato dalla NATO nel 1994 ed aveva dato l’assenso all’allestimento di una base militare statunitense a Taszár, nelle vicinanze della frontiera bosniaca. Il 12 marzo 1999 l’Ungheria entrò ufficialmente a far parte dell’organizzazione militare atlantica e, in quanto tale, stanziò in Iraq 300 militari, ufficialmente non impegnati in operazioni di combattimento.

Al vertice dell’Unione Europea svoltosi a Copenaghen il 13 dicembre 2002 fu deciso che dal 1 maggio 2004 l’Ungheria (assieme ad altri nove Stati) sarebbe entrata a far parte dell’Unione. La decisione venne confermata il 12 aprile 2003 con un referendum al quale partecipò il 45% degli aventi diritto; l’84% dei votanti si espresse a favore dell’ingresso nella UE.

Aderendo all’Unione Europea, Budapest pensava che sarebbero stati risolti i problemi inerenti alle frontiere di Stato istituite dal Trattato del Trianon, frontiere che separano gli Ungheresi d’Ungheria dai connazionali che vivono nei paesi confinanti. Non solo, ma il governo ungherese, al fine distabilizzare la regione, si adoperò per avvicinare all’Unione Europea paesi quali la Croazia, la Serbia e l’Ucraina.

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Lo smembramento dell’Ungheria avvenuto col Trattato del Trianon è un motivo presente anche nella nuova Carta costituzionale ungherese, che nel Preambolo dichiara: “Promettiamo di custodire l’unità spirituale e morale della nostra Nazione, andata in pezzi (részekre szakadt) nelle tempeste del secolo scorso”. Su questo punto della Costituzione si fonda l’estensione della cittadinanza ungherese, con relativo diritto di voto, ai connazionali che sono cittadini dei paesi confinanti.

Questa decisione, che alcuni temono possa dar luogo a tensioni con la Slovacchia e con la Romania, ha costituito anch’essa l’oggetto delle critiche rivolte alla nuova Carta ungherese, la quale, pur essendo stata approvata dai due terzi del Parlamento di Budapest, è stata bollata come antidemocratica e liber i del sistema ideologico politico occidentale, tra i quali la segretaria di Stato degli USA.

Il primo punto che è stato contestato è il riferimento a Dio ed alla religione, per cui si è addirittura parlato di una ispirazione “clericale” e di un progetto “teocratico” (ignorando che il principale esponente di tale presunto progetto, il primo ministro Viktor Orbán, è di confessione calvinista…). E questo perché il testo costituzionale si apre col verso iniziale dell’Inno di Ferenc Kölcsey (1790-1838): “Dio, benedici l’Ungherese!” (Isten, áldd meg a Magyart), la poesia che, musicata da Ferenc Erkel, è diventata inno nazionale. Gli Ungheresi potrebbero replicare che anche l’inno nazionale italiano, evocando una Vittoria poeticamente personificata, dice che “schiava di Roma – Iddio la creò”. D’altronde non risulta che i critici del presunto carattere clericale della Costituzione ungherese, a cominciare dalla signora Clinton, abbiano rivolto la stessa accusa agli Stati Uniti, dove spesso il presidente termina i suoi discorsi con “God bless America!” e dove le banconote recano la scritta “In God we trust“.

Ma non c’è solo il verso dell’Inno di Kölcsey. Nel Preambolo, intitolato Professione di fede nazionale, si legge: “Siamo fieri del fatto che mille anni fa il nostro re Santo Stefano abbia collocato lo Stato ungherese su solide fondamenta ed abbia reso la nostra patria parte dell’Europa cristiana”. E più avanti: “Riconosciamo il ruolo di conservazione della nazione svolto dal cristianesimo”. Tali affermazioni sono state giudicate contrarie ai valori di laicità ai quali si ispira l’Unione Europea e sono sembrate discriminatorie nei confronti dei fedeli di altre religioni. Ma ciò è smentito dal fatto che lo stesso testo costituzionale riconosce il carattere multiconfessionale dell’Ungheria, poiché dichiara: “Rispettiamo le diverse tradizioni religiose del nostro paese”.
A questo proposito vale la pena di ricordare che la nuova legge ungherese sulle religioni garantisce il riconoscimento ufficiale dello Stato a 14 comunità religiose: più di quelle con cui la Repubblica Italiana ha stipulato un concordato o un’intesa. Bisogna anche aggiungere che, prima che venisse emanata questa legge, le organizzazioni religiose, parareligiose e pseudoreligiose sovvenzionate col denaro pubblico erano ben 300. Era sufficiente raccogliere un centinaio di firme e chiunque poteva aspirare ad incassare, a nome della propria “chiesa”, l’uno per cento del reddito dichiarato dai contribuenti. Contrariamente a quanto l’informazione dirittumanista vorrebbe far credere, tutte queste organizzazioni non sono state interdette, ma sono diventate semplici associazioni private.

Un altro articolo costituzionale che ha provocato notevole sconcerto fra i sostenitori dei “diritti umani” è l’articolo L (prima parte della Carta), che definisce il matrimonio come “comunione di vita” (életközosség) tra uomo e donna”. In un rapporto del 31 marzo 2011 Amnesty International giudica particolarmente problematico il fatto che la nuova Costituzione non interdica la discriminazione fondata sugli orientamenti sessuali. Al Parlamento europeo l’Alleanza dei liberali e democratici per l’Europa (che riunisce varie formazioni politiche, tra cui l’Italia dei Valori) ha protestato contro questo articolo, che discrimina le coppie omosessuali “sulla base di specifici valori come la fede, la lealtà, la preminenza della comunità e della nazione sull’individuo”.

Nella seconda parte del testo costituzionale, che concerne diritti e doveri dei cittadini, ha suscitato analoga riprovazione l’articolo II, il quale afferma che la vita umana è protetta fin dal momento in cui viene concepita. A chi sostiene che tale articolo viola i valori europei, bisognerebbe obiettare che esso, al contrario, è perfettamente conforme al principio del diritto romano secondo cui “infans conceptus pro nato habetur” (il bambino concepito è considerato come nato).

A parte le altre accuse che gli alfieri dei “diritti umani” rivolgono alla nuova Costituzione, quest’ultima tocca i vertici dell’eterodossia laddove rimanda all’attività del legislatore l’attuazione di una disposizione concernente la Banca Centrale Nazionale, ispirando una serie di riforme costituzionali che mirano a porre l’attività creditizia al servizio della comunità, e non degli speculatori.

È dunque in atto uno scontro che oppone il governo e il popolo ungherese al potere bancario occidentale, nonché alle forze ideologiche e politiche da esso sostenute.

Nella sua storia passata l’Ungheria si è trovata tra l’Oriente, da cui il suo popolo era provenuto, e l’Occidente europeo nel quale si era venuta ad inserire. Ha dovuto scegliere – e a volte sono stati altri a scegliere per lei – tra le steppe e la pianura danubiana, tra lo sciamanesimo e il cristianesimo, tra Bisanzio e Roma, tra l’impero ottomano e quello absburgico, tra il Patto di Varsavia e l’Alleanza Atlantica.

Oggi il problema di una scelta non si pone, quanto meno fino a questo momento. Tuttavia, mentre l’Occidente mette sotto accusa l’Ungheria suscitando nel suo popolo l’euroscetticismo o addirittura l’eurofobia, ad est dell’Ungheria è entrato ufficialmente in vigore, il primo gennaio di quest’anno, l’accordo siglato da Russia, Bielorussia e Kazakistan per l’istituzione di un’unione doganale concepita come nucleo di un’Unione Eurasiatica, alla quale dovrebbero successivamene aderire Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Armenia, Moldova ed Ucraina.

Non è dato sapere che cosa intendesse Viktor Orbán dicendo che “c’è vita anche fuori dall’Unione Europea” e non è possibile azzardare interpretazioni né pronostici, anche se il “Washington Post” ha paventato il rischio che l’Ungheria possa diventare un avamposto della Russia.


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