La regione balcanica ritorna al centro dell’attenzione internazionale, in ragione della conferenza di Sarajevo, che si è conclusa ieri nella capitale bosniaca. Da due millenni la regione balcanica affascina gli storici per la sua complessità, per la sua natura variegata e composita, per la specificità legata allo straordinario mosaico di civiltà, culture, lingue, religioni, folklore, tradizioni, usi, costumi, geografie. Dagli Illiri di Bardhyl ai greci di Alessandro Magno, dai Romani di Diocleziano agli Unni di Attila, dai Bizantini di Giustiniano ai Bulgari di Simeone, dai Croati di Tomislav ai Serbi di Dusciano, dagli Ottomani di Solimano ai Veneziani di Mocenigo, dagli Albanesi di Skandenberg ai Romeni di Michele, dai Serbi di Giorgio il Nero ai Montenegrini di Nicola Petrović, passando attraverso le numerose crisi balcaniche del XIX e XX secolo per arrivare ad oggi: una pletora di rapporti dialettici, culturali, spesso conflittuali, che portarono questa regione ad essere spesso il centro di attenzione da parte dell’Europa e del mondo. Lotte locali, ambizioni egemoniche, interferenze straniere, ruolo delle grandi dinastie europee, interessi politici, militari, economici, tutto contribuì ad aumentare la tensione nella regione balcanica, la quale uscì anch’essa distrutta e ridefinita territorialmente dopo due guerre mondiali. L’attuale conferenza di Sarajevo, tuttavia, voluta dall’Unione Europea e preparata con lodevole solerzia dall’Italia, risponde alla necessità di favorire un dialogo ed una stabilizzazione dei paesi della regione dopo vent’anni di sommovimenti, scaturiti dal crollo del muro di Berlino. I problemi da risolvere, tuttavia, sono consistenti e le conclusioni della conferenza paiono ancora obiettivamente lontani dagli idealii. Cerchiamo di capirne le ragioni.

Le divisioni politiche, culturali e religiose interne di paesi come la Bosnia e la Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, in primo luogo, creano fragilità e scarsa capacità esecutiva da parte dei rispettivi governi: in Bosnia, ad esempio, anche l’etnia croata aspira ora ad una maggiore autonomia e ciò si oppone all’ideale di una maggiore omogeneità del paese. In Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, inoltre, vi è anche il problema supplementare legato alla scelta del nome (Macedonia), che è contrastato accanitamente dalla Grecia e che impedisce importanti riconoscimenti da parte internazionale (il paese non è stato ammesso nella NATO, qualche mese fa, a differenza di Croazia ed Albania). Una possibile intesa su un nuovo nome (Repubblica di Nord Macedonia), tuttavia, non risolverebbe ben più consistenti problemi relativi alla definizione delle lingua e della cittadinanza, che Skopje considera semplicemente “macedoni” e che Atene considera semplicemente “slave”.   Come stabilizzare tali paesi, trovando assetti costituzionali e nomi aderenti ai diritti ed ai doveri in gioco? Problema enorme.

La Serbia, in secondo luogo. La Serbia è il paese centrale ed imprescindibile per qualsivoglia politica inerente ai Balcani: duramente colpita dagli eventi di questi ultimi vent’anni e dalla decomposizione della Jugoslavia, Belgrado sentì la responsabilità storica di proteggere le numerose popolazioni serbe viventi nella regione balcanica. Da ciò emersero ulteriori conflitti in Bosnia (prima) e nella provincia serba del Kosovo e Metohia (poi). Da ciò derivò la crisi del 1999, l’intervento armato della NATO, i bombardamenti sulle città serbe (Belgrado, Novi Sad), la paralisi della via di comunicazione del Danubio, la decapitazione dell’economia serba, l’invio di una nuova forza multinazionale militare in Kosovo e Metohia, che non riuscì ad impedire un’autoproclamazione di indipendenza del Kosovo, il 17 febbbraio 2008. Tale atto, riconosciuto a tutt’oggi solo da un terzo dei paesi del mondo e da nessuna organizzazione internazionale, continua a creare il malessere di fondo della regione balcanica, l’ostacolo fondamentale per una vera opera di pacificazione e di stabilizzazione nei Balcani. Il Kosovo e Metohia rappresenta il cuore della civiltà serba, il territorio in cui fiorirono le più importanti espressioni della chiesa serbo-ortodossa, della lingua serba, della storia serba. La battaglia di Kosovo Polje (28 giugno 1389) rappresentò una sconfitta epocale per i serbi, ma anche un evento in cui si manifestò con orgoglio quella dignità nazionale che, cinque secoli più tardi, avrebbe dato i propri frutti nella lotta per la realizzazione dei regni indipendenti dei Karageorgević e degli Obrenović. I serbi non possono abbandonare il Kosovo e Metohia e non lo faranno mai. Ma una parte della comunità internazionale (fra cui l’Italia) fa finta di niente, spera che col tempo tutto si aggiusti e che il desiderio di entrare nell’UE diventi prevalente, specie se accompagnato da promesse di denaro. Qui sta l’errore di fondo, che la conferenza di Sarajevo ha messo in luce. La terra non si baratta con il denaro: questo è il messaggio imprescindibile proveniente da Belgrado. Occorre seriamente prenderne atto ed avviare un umile processo di resipiscenza, attraverso una decisione coraggiosa. E’ proprio vero che non si possa fare un piccolo passo indietro, quando ci si accorge di aver sbagliato? E’ proprio vero che non si possa concordare una posizione più morbida, garantendo una profonda autonomia amministrativa al Kosovo e Metohia, lasciando formalmente la sovranità a Belgrado? Forse, con un po’ di coraggio e tutti insieme, si può. Coraggio Ministro Frattini, prenda l’iniziativa.

Stefano Pilotto è docente di Storia dei Trattati e Politica Internazionale all’Università degli Studi di Trieste

Nella foto un’immagine del monastero serbo-ortodosso di Dečani (Kosovo e Metohia), considerato patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco e che custodisce, fra le reliquie, la famosa “Prima Charta del Monastero di Dečani”, un testo di grande valore storico, che riproduce in lingua serba la storia dei primi re serbi della stirpe dei Nemanidi (1330).

Si ringrazia il prof. Pilotto per aver permesso la pubblicazione di questo articolo, apparso il 3 giugno 2010 ne Il Piccolo di Trieste.


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