Premessa

Prima di arrivare a conclusioni affrettate sulla natura delle attuali proteste in Kazakistan si rende necessario elaborare una visione di insieme capace di inserire il Paese nel sempre più complesso panorama geopolitico internazionale.

A questo proposito esistono diversi fattori che meritano particolare attenzione. In primo luogo, non si può fare a meno di sottolineare che tanto la Russia quanto la Cina, soprattutto nel corso degli ultimi dieci anni, hanno sviluppato delle strategie capaci di controbilanciare (e sotto certi aspetti anche di prevenire) la forza propulsiva dei tentativi occidentali di realizzare i cosiddetti “cambi di regime”. I casi più evidenti in questo senso sono il contenimento delle proteste a Hong Kong (per ciò che concerne la Cina), la risposta russa al colpo di Stato atlantista in Ucraina e la recente crisi Polonia-Bielorussia. Gli ultimi due esempi in particolare hanno fatto “giurisprudenza”. Per quanto concerne l’Ucraina, la Russia nel 2014 è arrivata addirittura ad utilizzare il concetto di “responsibility to protect” (il famoso R2P ampiamente sfruttato dall’Occidente in Serbia ed in Libia) per giustificare l’annessione della Crimea: ovvero ha utilizzato uno strumento “occidentale” per portare a compimento un’azione che, in realtà, si pone in totale contraddizione con il positivismo normativo che regna nel diritto internazionale americanocentrico. Lo stesso discorso vale per la recente crisi migratoria al confine tra Polonia e Bielorussia (anche quest’ultima al centro di un tentativo fallito di rivoluzione colorata). Qui si è assistito nuovamente all’utilizzo di un’arma tipicamente occidentale (il flusso migratorio volto a destabilizzare la politica interna del Paese che la subisce) contro un Paese occidentale (più o meno la stessa cosa che era successa all’Italia, sebbene perpetrata da presunti alleati) che tali ondate migratorie ha contribuito a creare grazie alla sua partecipazione attiva alle guerre di aggressione di USA e NATO (la Polonia ha fatto parte della famosa “coalizione dei volenterosi” che aggredì l’Iraq nel 2003 con Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti).

Sulla stessa lunghezza d’onda può essere interpretato l’atteggiamento russo nei confronti dell’Armenia dell’ex filooccidentale Primo Ministro Nikol Pashynian. Questi, salito al potere a seguito di un tipico esempio di “rivoluzione colorata”, dopo aver fatto nulla per evitare un nuovo conflitto con l’Azerbaigian, si è dovuto naturalmente scontrare con la realtà di un Occidente ben poco interessato alla salute del popolo armeno e molto più interessato a creare caos ai confini della Russia. Una constatazione che l’ha inevitabilmente riportato a cercare la sponda russa per garantire la sopravvivenza sua e della stessa Armenia.

In secondo luogo, è necessario tenere a mente che la penetrazione occidentale (soprattutto nordamericana) in Asia Centrale è di lunga data. Senza scomodare la dottrina dell’“arco di crisi” di Brzezinski e soci con il suo strascico terroristico, in questo caso basterà ricordare la formula C5+1 (le Repubbliche ex sovietiche più gli Stati Uniti) inaugurata sotto l’amministrazione Obama e rafforzata durante la presidenza Trump. Questa si poneva (e si pone) come obiettivo quello di favorire la penetrazione statunitense nella regione soprattutto in termini di “potere morbido” e di servizi di intelligence per contrastare il progetto cinese della Nuova Via della Seta. A questo proposito, non bisogna tralasciare il fatto che Washington non ha mai smesso di sognare la rottura dell’asse strategico Mosca-Pechino. E non è così improbabile che proprio il Kazakistan (Paese in cui la penetrazione nordamericana è più forte che altrove) sia stato preposto a tale compito (cosa che si potrà iniziare a valutare solo nei prossimi giorni). Nemmeno è da escludere che tanto la Russia quanto la Cina siano ampiamente consapevoli di ciò.

La penetrazione nordamericana in Kazakistan.

Il Kazakistan, dal momento della sua indipendenza, ha intrattenuto forti rapporti diplomatici e commerciali con gli Stati Uniti. Washington ha aperto per prima un ufficio di rappresentanza diplomatica nella Repubblica ex sovietica dopo la sua indipendenza e Nursultan Nazarbayev è stato il primo Presidente di uno Stato centroasiatico a visitare gli Stati Uniti. Il Kazakistan, di fatto, ha cercato di attuare una strategia di sostanziale equilibrio tra le potenze eurasiatiche vicine (Russia e Cina) e la potenza egemone sul piano globale (gli USA). Se questo tentativo di bilanciamento geopolitico (di equilibrio multivettoriale tra potenze) ha dato i suoi frutti nei primi due decenni di vita della Repubblica, lo stesso non si può dire dal momento in cui la competizione tra l’Occidente e l’Eurasia (nonostante gli sforzi cinesi per sfuggire alla cosiddetta “Trappola di Tucidide”) si è ulteriormente aggravata. Di fatto, una simile strategia (e forse si sta proprio assistendo ai suoi risultati), in un contesto internazionale in cui la crisi permanente si è fatta normalità (anche a causa dell’ansia strategica della potenza egemone che sente il suo primato messo in discussione), diviene particolarmente problematica. E con ciò, il rischio di venire inghiottiti nei meccanismi di una nuova guerra fredda si fa sempre più alto.

Ora, è bene sottolineare che il Paese rimane uno dei principali alleati di Russia e Cina. È stabilmente inserito all’interno dell’Unione Economica Eurasiatica e dell’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (entrambe le istituzioni, si potrebbe affermare, non avrebbero senso senza il Kazakistan). Allo stesso tempo è parte integrante dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai ed ha un ruolo centrale all’interno del progetto cinese di interconnessione eurasiatica della Nuova Via della Seta.

Ciò non ha impedito al Paese di sviluppare ulteriormente i già citati stretti legami con Washington. In un momento in cui molti Paesi dell’Asia Centrale hanno perso interesse nei confronti degli Stati Uniti (ritenuti non più indispensabili a controbilanciare l’influenza russa e cinese), preferendo per affinità culturale la Turchia, il Kazakistan è rimasto ancorato agli Stati Uniti. La sua relazione con Washington, infatti, al contrario di quanto avvenuto con gli immediati vicini, non era in alcun modo associata alla presenza nordamericana in Afghanistan. Le compagnie USA, ancora oggi, gestiscono ampia parte della produzione petrolifera kazaka che conta per il 44% delle entrate statali. Nello specifico, il 30% del petrolio kazako viene estratto da compagnie nordamericane, contro il 17% estratto dalle cinesi CNPC, Sinopec e CITIC ed il 3% della russa Lukoil. Nel 2020 lo scambio commerciale tra Stati Uniti e Kazakistan si era attestato intorno ai 2 miliardi di dollari. Una cifra piuttosto ridotta se paragonata ai 21,4 miliardi di scambi con la Cina (che ha aperto ai prodotti agricoli kazaki il suo immenso mercato interno) ed ai 19 miliardi della Russia (in cui l’industria degli armamenti gioca un ruolo di primo piano). Tuttavia, i 2 miliardi di scambi con gli USA rappresentano comunque una cifra quasi tre volte superiore rispetto ai 600 milioni complessivi di scambio con gli altri Paesi dell’Asia Centrale[1].

A ciò si aggiunga che dal 2003 il Kazakistan ha tenuto annualmente esercitazioni militari congiunte con la NATO. Inoltre, dal 2004 al 2019, gli Stati Uniti hanno venduto armi al Kazakistan per un totale di 43 milioni di dollari (una cifra non particolarmente elevata ma che rende bene l’idea del fatto che il Paese abbia sempre cercato di creare canali alternativi rispetto alla fornitura russa). Dunque, non sorprende il fatto che nella retorica ufficiale della Repubblica e dei suoi principali mezzi di informazione manchino totalmente quelle invettive antioccidentali che caratterizzano altri Paesi della regione. L’attuale Presidente Kassym-Jomart Tokayev (sinologo laureato presso l’Istituto Statale di Mosca per le Relazioni Internazionali), ad esempio, non si è mai schierato a fianco di Mosca nelle questioni internazionali, cercando sempre di mantenere una vaga neutralità. E tanto Mosca quanto Pechino non hanno fatto mancare le loro critiche al Kazakistan nel momento in cui il Paese ha consentito agli Stati Uniti di riaprire e sviluppare ulteriormente alcuni laboratori biologici di era sovietica. In particolare, sono stati avanzati non pochi dubbi sulle reali attività nordamericane all’interno dei laboratori di Almaty e Otar (vicino ai confini con la Russia e con la Cina). L’accusa (neanche troppo velata) è quella che nei suddetti siti si stiano sviluppando armi biologiche. Accusa che non sembra poi così infondata se si considera che gli Stati Uniti hanno laboratori simili in 25 Paesi. Questi vengono finanziati dalla DTRA – Defense Threat Reduction Agency i cui gestori dei programmi militari sono costituiti da società private non direttamente responsabili di fronte al Congresso USA. E proprio in tali laboratori si sono svolti (e si svolgono tuttora) esperimenti sui Coronavirus[2].

Le proteste.

Da cosa nascono le proteste di questi giorni? In primo luogo, è necessario tenere a mente che non è la prima volta che simili proteste hanno luogo in Kazakistan. Nel 2011, ad esempio, 14 operai dell’industria petrolifera vennero uccisi a Zhanaozen nel corso di una manifestazione contro le dure condizioni di lavoro ed i bassi salari.

Non sorprende che le proteste di questi giorni siano iniziate più o meno nella stessa regione a seguito non solo dell’aumento esponenziale del prezzo del carburante, ma anche dei licenziamenti di massa attuati dalla gestione “occidentale” dell’industria petrolifera e della politica economica improntata su modelli neoliberisti. I lavoratori che hanno protestato, infatti, sono in primo luogo quelli della compagnia Tenghizchevroil (50% a partecipazione Chevron, 25% ExxonMobil e 20% KazMunayGas). E tra i motivi della protesta c’è proprio il fatto che il 70% della produzione petrolifera kazaka venga destinata all’Occidente.

Questo, almeno in linea teorica, dovrebbe dimostrare la natura sostanzialmente spontanea delle prime proteste. A prima vista, non sembra si possa parlare di una risposta occidentale (nel cuore dell’Eurasia) per i progressi diplomatici cinesi in America Latina. Ciò, tuttavia, non esclude il fatto che le proteste possano venire cavalcate per creare il caos e destabilizzare il Paese (eventualità non remota se si considera la fitta rete di organizzazioni occidentali presenti, il ruolo nefasto della “quinta colonna” di oligarchi filooccidentali ed il crescente interesse di certe agenzie di stampa per quanto sta avvenendo in queste ore) magari sfruttando anche potenziali tensioni tra le diverse comunità etniche che formano la popolazione kazaka.

In conclusione, ciò che i vertici politici di molti Paesi ex sovietici (e del fu blocco socialista) non hanno ancora capito è il fatto che cercare di farsi amico l’Occidente non è di per sé garanzia di sopravvivenza politica. L’Ucraina, ad esempio, è uno Stato fallito che la NATO mira a sfruttare come campo di battaglia (carne da macello in caso di aggressione alla Russia). La Polonia deve la sua “fortuna” all’essere spazio geografico che si interpone tra Russia e Germania, e così via. Senza considerare gli innumerevoli casi in cui gli Stati Uniti si sono scagliati contro i loro ex alleati ed estemporanei strumenti geopolitici: da Noriega a Saddam, fino a Bin Laden e ad al-Qaeda

In questo contesto, il ruolo di Russia e Cina sarà nuovamente quello di prevenire il caos: impedire la destabilizzazione del Kazakistan ed impedire che tale eventualità si ripercuota sul processo di interconnessione dell’Eurasia.

NOTE


[1]T. Umarov, Can Russia and China edge the United States out from Kazakistan?, www.carnagiemoscow.org.

[2]Si veda The Pentagon Bio-weapons, www.dylana.bg.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).