L’altra faccia della Persia antica

“Maratona”, “Salamina”, “lo scontro dell’Europa con l’Asia”, “la lotta della democrazia contro il dispotismo orientale” et similia sono pressoché le sole nozioni relative all’antica Persia che immediatamente si presentano alla mente di quello che Costanzo Preve chiamava “il ceto medio semicolto”; la cultura del quale deve essersi ulteriormente arricchita dopo che l’industria di Hollywood ha sfornato un  prodotto cinematografico che pretende di ricostruire, ad uso e consumo dell’immaginario occidentale, l’epico scontro avvenuto alle Termopili nel 480 a.C.

Il prodotto hollywoodiano non era un’oscenità puramente commerciale: in un discorso pronunciato l’11 febbraio 2007 per celebrare l’anniversario della Rivoluzione Islamica, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad affermò che la pellicola statunitense, presentando i Persiani come dei selvaggi, costituiva un atto di guerra psicologica contro l’Iran.

Non dovrebbe essere il caso di dire che è astronomica ed abissale la differenza di livello che intercorre fra la grottesca pellicola americana e le immagini delle guerre persiane consegnateci dalla poesia patriottica della nostra tradizione letteraria. Si pensi soltanto, per esempio, alla rievocazione foscoliana della voce del nume che “nutria contro a’ Persi in Maratona, / ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi, / la virtù greca e l’ira” ed alla successiva scena notturna delle “larve guerriere” che non cessano di combattere sul campo di Maratona[1]; oppure alla celebrazione leopardiana della battaglia delle Termopili[2], “dove la Persia e il fato assai men forte / fu di poch’alme franche e generose!”[3].

Non sono mancati tuttavia intellettuali che hanno osservato quei lontani eventi da una prospettiva un po’ diversa. Konstantin Leont’ev, ad esempio, ricorda di aver letto in una pagina di Herzen l’episodio di “alcuni nobili persiani che, durante una tempesta, si gettarono volontariamente in mare per alleggerire la nave e salvare così Serse, avvicinandosi al re ed inchinandoglisi uno dopo l’altro prima di saltare al di là della murata”[4]. Herzen, commenta Leont’ev, “ha perfettamente ragione nel definire questo atto le Termopili persiane. Si tratta di un gesto più terribile e gigantesco di quello delle Termopili, un gesto nel quale si rivela la forza di una idea e di una convinzione persino più grandi di quelle dei compagni di Leonida; è più facile, infatti, offrire la propria testa nell’ardore di una battaglia che decidersi freddamente e coscientemente, senza alcuna costrizione, al suicidio nel nome di un’idea religiosa e politica”[5].

Nella generalità dei casi abbiamo tuttavia a che fare con una rappresentazione dei Persiani che ne fa esclusivamente gli avversari militari e politici dei Greci. Si tratta, come ha scritto un autorevole iranista, di “una visione soggettiva già nella selezione delle testimonianze greche sul mondo persiano, che significativamente presentano una grande varietà, di un punto di vista che rinuncia quasi completamente a indagare le fonti indigene contemporanee, sottovalutando la molteplicità dei modelli di contatto tra Greci e Persiani, e riducendo questo mondo a noi estraneo alla sua dimensione politico-militare (…)”[6].

Eppure, nonostante tutto ciò, non si può dire che presso i Greci la visione della realtà persiana fosse totalmente dominata dall’antagonismo politico e culturale. Perfino le guerre persiane “venivano viste secondo angolazioni diversificate”[7]

Nel 472 a.C., otto anni dopo la battaglia navale di Salamina, un ex combattente di Maratona (e forse anche di Salamina, di Platea e dell’Artemisio), Eschilo di Eleusi, trionfava con una tragedia, i Persiani, che portava in scena la disfatta di Serse “assumendo una posizione simpatetica”[8]. A Susa, davanti al palazzo dei re di Persia, la regina Atossa racconta un sogno inquietante agli anziani della corte, ancora ignari dell’esito della spedizione di Serse in Grecia. La regina ha sognato che suo figlio Serse stava aggiogando ad un carro due donne in contesa tra loro, una delle quali era avvolta in panni persiani, mentre l’altra indossava l’abito dorico[9]. Nella donna abbigliata in pepli dorici, che contende con l’altra e rifiuta l’imposizione del giogo facendo cadere a terra il Gran Re, è possibile riconoscere Atene[10], anche se potrebbe benissimo indicare profeticamente “i Dori peloponnesiaci, che un anno dopo Salamina sconfiggeranno l’esercito terrestre dei Persiani”[11]. In ogni caso, la visione notturna della regina allude al vano tentativo di Serse di pacificare un conflitto insorto fra due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe” (kasignéta ghénous tautoû), entrambe stanziate sulla “terra dei padri” (pátra): l’una in Grecia e l’altra in “terra barbara” (gaîa bárbaros).

Quest’ultima definizione non implica alcun giudizio negativo, ma indica semplicemente un paese in cui non si parla greco: “come fosse un poeta arcaico – come Omero – Eschilo mostra qui di non conoscere il ‘barbaro’ della propaganda nazionalista, dell’oratoria e della storiografia”[12]. D’altronde, “ritenere che i normali rapporti quotidiani fra greci e persiani fossero segnati e condizionati dai luoghi comuni sui barbari che ritroviamo nella tradizione ellenica darebbe un’immagine completamente errata di quei rapporti”[13]; ed anche nell’anno in cui la tragedia eschilea dei Persiani trionfava ad Atene, “i confini tra la lega navale attica e i territori persiani nell’Asia minore occidentale erano molto più permeabili di quanto spesso si è ritenuto”[14]

Tuttavia, col “sorprendente riferimento di Eschilo alla Persia e alla Grecia in guerra tra di loro come (…) ‘sorelle di sangue, della medesima progenie’”[15], i Persiani ci vengono presentati in un rapporto di straordinaria affinità col mondo ellenico; viene infatti riaffermata quella nozione della parentela fra Greci e Persiani che nella parodo della tragedia eschilea è stata proposta attraverso l’indiretta evocazione della figura di Perseo, antenato comune dei due popoli: “Irruente sovrano dell’Asia popolosa, / sospinge la mandria divina su ogni regione, / per due vie, confidando in saldi e duri condottieri / di terra e di mare, l’eroe pari agli dèi discendente d’aurea progenie”[16]. Il sovrano in argomento è Serse, la stirpe del quale è detta da Eschilo “aurea”, in quanto la famiglia degli Achemenidi indicava il proprio capostipite in Perse, figlio di Perseo e di Andromeda; e Perseo era nato da Danae, che Zeus aveva ingravidata trasformandosi in pioggia d’oro.

La discendenza dei Persiani da Perse è attestata anche in Erodoto: “Ma dopo che Perseo, figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di Belo e sposò la figlia di lui Andromeda, gli nacque un figlio, al quale mise nome Perse; e lo lasciò lì, perché Cefeo si trovava ad esser privo di figliolanza maschile. Da lui dunque [i Persiani] ebbero nome”[17]. I nomi di Perseo e di Perse richiamano a loro volta quello di una delle ninfe che Teti partorì ad Oceano: Perseide. Esiodo la cita assieme alle sue sorelle, tra le quali troviamo Europa ed Asia[18]. Il vincolo che lega Greci e Persiani viene così ad inquadrarsi nel rapporto di stretta parentela che unisce l’Europa all’Asia.

Nella seconda metà del IV secolo a.C., è Senofonte a ricollegare l’origine degli Achemenidi a Perseo. “Si dice – leggiamo nella Ciropedia – che Ciro sia nato da Cambise, re dei Persiani; questo Cambise era della stirpe dei Perseidi e i Perseidi derivano questo nome da Perseo”[19].

Infine, troviamo nell’Eneide un dato enigmatico che collega la Persia con la Grecia e con l’Italia: Enea portò con sé nel Lazio un soldato greco di nome Achemenide, incontrato su una spiaggia della Sicilia: “Sum patria ex Ithaca, comes infelicis Ulixis, / nomine Achaemenides[20]. Achaemenides, ossia discendente di Achaemenes /Haχāmaniš: per i lettori romani del poema di Virgilio doveva pur avere un significato il fatto che il pater Aeneas avesse portato con sé in Italia un compagno di Ulisse il cui nome rievocava la dinastia fondata da Ciro il Grande. 

Il confronto erodoteo fra la Grecia e la Persia

È opinione diffusa tra i filologi che alle origini delle Storie di Erodoto vi fosse un’opera simile a quei Persiká di carattere geografico ed etnologico che erano stati composti nella sua epoca, ma “magari con più stretto confronto tra la tradizione persiana e quella greca”[21].

In effetti il pater historiae mostra uno spiccato interesse per le idee ed i costumi dei Persiani, come per quelli degli altri popoli con cui l’impero persiano era venuto a contatto. “Io so – egli scrive – che i Persiani hanno tali costumi: non usano innalzare statue e templi ed altari, anzi accusano di stoltezza coloro che li costruiscono, a quanto mi sembra perché essi non credono, come i Greci, che gli dèi abbiano figura umana. Sono invece soliti fare sacrifici a Zeus salendo sui monti più alti; chiamano Zeus tutta la volta del cielo. Sacrificano al sole e alla luna e alla terra e al fuoco e all’acqua e ai venti. Soltanto a questi dèi sacrificano fin dalle origini, ma hanno imparato a offrire sacrifici anche ad Urania, avendolo appreso dagli Assiri e dagli Arabi. Gli Assiri chiamano Afrodite Militta, gli Arabi Alilat, i Persiani Mitra”[22]. Come si può osservare, Erodoto non fa alcun cenno alla dualità rappresentata da Ahura Mazda e Ahriman, ma attribuisce ai Persiani il culto di una suprema divinità celeste che egli identifica con Zeus. 

L’opera erodotea segnala anche le analogie esistenti tra le usanze funerarie relative ai re persiani ed a quelli spartani: “Quando muoiono i re, gli Spartani hanno le stesse usanze dei barbari dell’Asia: infatti la maggior parte dei barbari hanno le stesse usanze quando muoiono i re. (…) Anche in quest’altra cosa concordano coi Persiani: quando, morto un re, gli succede un altro re, questo che subentra libera dai debiti ogni Spartiate che sia debitore del re o dello Stato; anche fra i Persiani il re che si insedia condona a tutte le città il tributo precedentemente dovuto”[23].

È interessante poi notare che Erodoto colloca in ambiente persiano il dibattito greco sulle forme di governo, nel quale sono messi a confronto i tre ordinamenti politici possibili – quello democratico, quello oligarchico e quello monarchico – ciascuno dei quali è difeso rispettivamente da Otane, Megabizo e Dario[24]. Nei discorsi a loro attribuiti, “discorsi incredibili per alcuni dei Greci, ma pure furono pronunciati”[25], sono presenti gli indirizzi della filosofia politica greca, la quale affronterà a lungo la questione.

Quanto al conflitto militare tra la Grecia e la Persia, esso rientra fra quelle “gesta grandi e meravigliose, sia dei Greci sia dei barbari”, di cui l’opera erodotea dovrà mantenere il ricordo, affinché “non rimangano senza gloria”[26]. Dopo aver ribadito la tesi secondo cui i Persiani non aspiravano ad espandersi in Europa, Erodoto si dichiara convinto del fatto che le guerre persiane potevano essere evitate, ma furono le provocazioni greche in Asia a scatenarle. La rivolta ionica, che era ormai diventata uno dei miti eroici della Grecia, viene giudicata da Erodoto origine di grandi mali sia per i Greci sia per i Persiani, un’avventura inutile e sciagurata nata dalle ambizioni di mestatori come il tiranno di Mileto, Aristagora, il quale, se non era riuscito ad ingannare Cleomene di Sparta ed a spingerlo alla guerra contro i Persiani, riuscì invece ad “ingannare trentamila Ateniesi. Gli Ateniesi dunque, persuasi, decisero di mandare venti navi in aiuto agli Ioni (…) Queste navi furono principio di sciagura per i Greci e per i barbari”[27].

In ogni caso, secondo la visione erodotea nelle guerre persiane si scontrarono due concezioni diverse: quella etnica dei Greci e quella imperiale degli Achemenidi. Per lo storico “la ragione profonda del conflitto era da ricercare nel contrasto fra la concezione greca, che considerava greca ogni terra in cui il Greco, stanziandosi, coltiva l’olivo, e quella achemenide, per cui, identificati i confini dell’Asia con quelli dell’impero, ogni abitante in Asia, greco o barbaro, doveva riconoscere il dominio persiano”[28].

Resta comunque il fatto che le guerre persiane inaugurarono un’epoca nuova, nella quale si tese a dimenticare che la cultura greca era nata da un fruttuoso interscambio eurasiatico. Come ha scritto un antichista inglese, “era calata una cortina di ferro: l’Oriente contro l’Occidente, il dispotismo contro la libertà; le dicotomie istituite dopo le guerre persiane echeggiano attraverso tutta la storia successiva e sembrano destinate a perpetuarsi oggi più che mai”[29].

La paideia persiana

Se Platone sviluppò le sue riflessioni sullo Stato riferendole alle dimensioni della polis, altri discepoli di Socrate avvertirono l’esigenza di proiettare il problema politico su una scala che superasse il particolarismo dello Stato cittadino; perciò il loro interesse venne attratto dalla monarchia imperiale persiana. Così Antistene scrisse tre trattati che recavano lo stesso titolo, Ciro[30], mentre Senofonte, che nel 401 a.C. aveva combattuto a Cunassa per Ciro il Giovane nel contingente greco comandato da Clearco, propose come modello ideale di ordinamento politico lo Stato persiano dell’epoca di Ciro il Grande (559-530). Cominciava a manifestarsi l’interesse “per l’Oriente, per la sua cultura, la sua ideologia, le sue forme politico-sociali; dall’Oriente si aspettava la luce. (…) È caratteristica, poi, l’idealizzazione del despota orientale: anche qui si fa sentire l’età contemporanea di Senofonte con la sua idea (condivisa da una notevole cerchia di contemporanei) del rinnovamento delle forme politiche greche in uno spirito vicino all’autocrazia orientale”[31].

Nella Ciropedia, prototipo di quegli specula principum che avranno grande diffusione nel Medioevo, Senofonte presenta l’immagine di un sovrano che aveva trasformato il regno della Perside in un vasto impero multietnico e lo aveva consolidato per sempre; l’immagine di Ciro è quella di “un principe pio, saggio e giusto, valoroso in guerra e mite in pace, un ideale optimus princeps, che Senofonte eleva a modello di ogni virtù e grandezza morale”[32].

“Sappiamo – si legge nell’esordio della Ciropedia – che a Ciro obbedirono di buon grado sudditi che distavano da lui molti giorni di viaggio e perfino molti mesi e altri che non lo avevano mai visto o che, addirittura, erano sicuri che mai lo avrebbero visto: tuttavia erano disposti ad obbedirgli. (…) Si mosse con un piccolo esercito di Persiani e senza incontrare alcuna opposizione diventò capo dei Medi e degli Ircani e sottomise Siri, Assiri, Arabi, Cappadoci, gli uni e gli altri Frigi, Lidi, Cari, Fenici, Babilonesi e dominò anche su Battriani, Indiani, Cilici e così pure su Saci, Paflagoni, Magadidi e su molte altre genti di cui non si saprebbe nemmeno dire il nome; dominò anche i Greci dell’Asia e, sceso al mare, Ciprioti ed Egiziani. Governò dunque queste genti che parlavano lingue diverse dalla sua e diverse tra loro, e tuttavia seppe spargere per sì gran tratto il terrore che ispirava, cosicché tutti erano sbalorditi e nessuno osava aggredirlo; e seppe infondere in tutti un sì gran desiderio di compiacerlo, che tutti ritenevano giusto essere pilotati dalla sua volontà; e si annesse tante popolazioni che sarebbe un’impresa anche soltanto attraversarle, in qualunque direzione si cominci a viaggiare partendo dalla capitale, verso oriente come verso occidente, verso settentrione come verso mezzogiorno”[33].

Quanto a Ciro il Giovane, che morì combattendo valorosamente a Cunassa, il ritratto che Senofonte ne disegna nell’Anabasi “è – scrive Werner Jaeger – un paradigma perfetto della più alta kalokagathía. È un ritratto che deve stimolare all’emulazione, e che vale a dimostrare ai Greci che la vera virtù virile e l’altezza d’animo e di contegno non sono privilegio della razza greca. (…) Questi Persiani d’alto rango avevano anch’essi una loro ‘paideia’, o qualcosa di analogo, e perché l’avevano erano ricettivi di fronte alle manifestazioni più alte del mondo greco. L’alta areté persiana e il filellenismo di Ciro sono, nel ritratto senofonteo dell’uomo, strettamente collegate l’una con l’altra. Ciro è un Alessandro persiano, diverso dal Macedone solo per la Fortuna”[34].

Con queste considerazioni del filologo classico converge il giudizio dell’iranista: “La grandezza dei Persiani sarebbe consistita nella elaborazione di un impressionante contributo nell’ambito della formazione dell’uomo. Senofonte avrebbe intuito che il popolo dei Persiani, con la sua cultura cavalleresca, presentava una stretta affinità con l’antica kalokagathía ellenica, cioè con l’ideale educativo dell’uomo fisicamente e spiritualmente valente. (…) Ora possiamo definire questo modello come greco-iranico”[35].

L’Iran odierno: nuovi stereotipi ideologici e ruolo geopolitico

Per quanto concerne l’Iran odierno, i loci communes diffusi presso il ceto medio semicolto sono quelli generati dalle idées reçues di matrice liberaldemocratica e dalla propaganda atlantista: “regime dei mullah” (o “dittatura degli ayatollah”), “radicalismo religioso”, “sciiti contro sunniti”, “pericolo nucleare”, “minaccia di sterminio per Israele”, “donne oppresse dal chador”, “persecuzione degli omosessuali” e così via. Né si può dire che le accademie abbiano dato un contributo propriamente “scientifico” alla conoscenza della realtà iraniana nata dalla Rivoluzione Islamica del 1979. Per citare un solo caso, in un saggio sull’Iran contemporaneo dovuto a un docente di Storia delle civiltà e delle culture politiche e Geopolitica si legge testualmente che “l’Iran si sente isolato, attorniato da paesi ostili”[36] (corsivo nostro), come se la dislocazione di basi militari statunitensi nei paesi confinanti dell’Iran non fosse un dato di fatto, ma una pura e semplice sensazione, magari dovuta ad una deformazione psichica di tipo complottistico. L’accademico prosegue la sua argomentazione affermando che questa impressione soggettiva degli Iraniani, sommandosi ad altre cause, quali l’ideologia e la retorica enfatizzante della classe politica, ha prodotto “posizioni estremamente radicali e minacciose”[37], come “l’antagonismo verso gli Stati Uniti, la lotta al neoimperialismo e in particolare gli attacchi verbali a Israele”[38] coi commenti “oltraggiosi e vergognosi sulla Shoah (sic)”[39].

Le prospettive autenticamente geopolitiche si situano al di là delle rappresentazioni di ispirazione ideologica.

Dal punto di vista statunitense, l’Iran costituisce un importante segmento di quella lunga fascia che Nicholas J. Spykman chiamò Rimland (“terra del margine”): si tratta di quel bordo esterno del continente eurasiatico che dalle coste atlantiche e mediterranee dell’Europa arriva fino alla Corea, passando per il Vicino e Medio Oriente, per il Sudest asiatico, le Filippine e il Giappone. Mentre Mackinder aveva formulato la dottrina secondo cui chi controlla il Heartland (la “terra centrale”) controlla il mondo, Spykman enunciò la tesi complementare, secondo cui la potenza che controlla il Rimland non solo impedisce che il Heartland diventi il centro del potere mondiale, ma conquista essa stessa il potere mondiale: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world”. Nel corso della guerra fredda, questa teoria ispirò la strategia del cosiddetto “contenimento” (containment) dell’Unione Sovietica: controllando le coste dell’Europa per mezzo della NATO, il Mediterraneo per mezzo della Sesta Flotta e le coste asiatiche per mezzo di altre alleanze, gli USA fecero il possibile per impedire che il Rimland eurasiatico cadesse sotto il controllo dell’URSS e della Cina.

A spezzare la catena di alleanze con cui gli USA avevano circondato il continente eurasiatico fu la Rivoluzione Islamica dell’Iran, la quale liberò il segmento iraniano del Rimland dal controllo che gli USA vi esercitavano per mezzo del regime dello Scià. Il Patto di Bagdad o CENTO (associazione di Turchia, Iraq, Iran, Pakistan e… Regno Unito), che costituiva l’anello di congiunzione tra la NATO e la SEATO ed assegnava all’Iran il ruolo di “gendarme del Golfo Persico”, per conto degli Angloamericani, venne infatti sciolto per effetto dell’evento rivoluzionario verificatosi nel 1979. Recuperando la sovranità effettiva sui suoi millecinquecento chilometri di litorale oceanico, l’Iran rivoluzionario ha spezzato l’“anello dell’anaconda” con cui il progetto atlantista si proponeva di strangolare il continente eurasiatico.

Conquistato il rango di potenza regionale, l’Iran è diventato, come la Russia e la Cina, le due maggiori potenze eurasiatiche con cui esso collabora in modo sempre più stretto, un presidio del continente. La sua funzione geopolitica consiste infatti nel costruire tra l’Asia centrale e l’Oriente mediterraneo un blocco capace di respingere l’aggressione atlantica e di contendere l’egemonia sul Vicino Oriente al più pericoloso avamposto dell’imperialismo nordamericano: il regime sionista che occupa la Palestina.


NOTE

[1] Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 199-212.

[2] Giacomo Leopardi, All’Italia, vv. 65-140.

[3] Ibidem, vv. 66-67.

[4] Konstantin Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1987, p. 21.

[5] Konstantin Leont’ev, op. cit., p. 22.

[6] Josef Wiesehöfer, Das frühe Persien. Geschichte eines antiken Weltkreis, Beck, München 1999, p. 13.

[7] Wilfried Nippel, La costruzione dell’altro”, in AA. VV., I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. I Noi e i Greci, Giulio Einaudi Editore, Torino 1996,  p. 175.

[8] Wilfried Nippel, op. cit., p. 176.

[9] “Mi parve che due donne ben vestite, / l’una abbigliata in pepli persiani / e l’altra in pepli dorici, si offrissero alla vista, / per statura assai più insigni delle donne attuali, / per bellezza irreprensibili e sorelle di sangue, di una medesima / stirpe; come patria, abitavano una l’ellenica / terra, avendola ottenuta in sorte, e l’altra quella dei barbari” (Eschilo, Persiani, vv. 181-187; la traduzione, come quelle dei brani successivi, è mia).

[10] Come informa Erodoto (V, 88), il chitone dorico era diventato un abito femminile panellenico; nel periodo in cui furono rappresentati i Persiani, oltre al chitone ionico (lungo fino ai piedi e fornito di maniche) le donne ateniesi indossavano anche il chitone dorico (corto e privo di maniche). Eschilo avrebbe menzionato l’abito dorico “perché le donne greche d’Asia, ma anche le persiane (…) indossavano il chitone ionico, che era pertanto inadatto a differenziare l’abito delle donne greche da quello delle donne persiane” (H. D. Broadhead, The Persae of Aeschylus, Cambridge 1960, p. 77).

[11] Raffaele Di Virgilio, Il vero volto dei Persiani di Eschilo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1973, p. 26.

[12] Monica Centanni, Note di commento a: Eschilo, I Persiani, Feltrinelli, Milano 1991, p. 106.

[13] Josef Wiesehofer, op. cit., p. 35.

[14] Josef Wiesehofer, ibidem.

[15] Jean Haudry, Gli Indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova 2001, p. 168.

[16] Eschilo, Persiani, vv. 73-80.

[17] Erodoto, VII, 61, 3.

[18] Esiodo, Teogonia., 337-361.

[19] Senofonte, Ciropedia, II, 1.

[20] Virgilio, Eneide, III, 613-614.

[21] Carlo Del Grande, Storia della letteratura greca, Loffredo, Napoli 1964, p. 215.

[22] Erodoto, I, 131, 1-3.

[23] Erodoto, VI, 58-59.

[24] Erodoto, III, 80-82.

[25] Erodoto, III, 80, 1.

[26] Erodoto, I, Proemio.

[27] Erodoto, V, 97, 2-3.

[28] Giuseppe Nenci, Introduzione ai libri V-IX, in Erodoto, Le Storie. Libro V. La rivolta della Ionia, Fondazione Lorenzo Valla – A. Mondadori Editore, Milano 1994, pp. xii-xiii.

[29] Oswyn Murray, La Grecia delle origini, Il Mulino, Bologna 1983, p. 346.

[30] Diogene Laerzio, VI, 16.

[31] Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979, p. 470.

[32] Raffaele Cantarella, Letteratura greca, Società Editrice Dante Alighieri, Milano 1961, p. 327.

[33] Senofonte, Ciropedia, I, 3-5.

[34] Werner Jaeger, Paideia, La Nuova Italia, Firenze 1959, vol. III, p. 277-279.

[35] Wolfgang Knauth, Das altiranische Fürstenideal von Xenophon bis Firdousi, Wiesbaden 1975, pp. 29-30.

[36] Riccardo Redaelli, L’Iran contemporaneo, Carocci, Roma 2009, p. 116.

[37] Riccardo Redaelli, op. cit., p. 115.

[38] Riccardo Redaelli, op. cit., p. 117.

[39] Riccardo Redaelli, op. cit., p. 117.


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).