Nel suo Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (2007), Luciano Canfora sostiene che la propagazione dei valori universali della libertà e della democrazia non è possibile. Storico dell’antichità e filologo classico, Canfora è uno degli studiosi più autorevoli a livello internazionale nel campo degli studi dell’antichità classica. Tuttavia egli si dedica anche allo studio della storia contemporanea, con una particolare attenzione alla dimensione politica. Il problema principale che si frappone fra i valori e la loro realizzazione è costituito dagli interessi degli stati che si fanno paladini del processo di esportazione. Come spiega chiaramente Canfora, fino a questo momento gli stati che si sono mossi in difesa di altre realtà in balia di conflitti hanno agito solamente quando entravano in gioco fattori politici ed economici che potevano essere utilizzati a loro vantaggio. Fatto ancor più grave, le potenze che scendono in campo a fianco di coloro che vengono fatti oggetto di soprusi si nascondono dietro la bandiera della salvaguardia della libertà per legittimare quelle che sono nella maggior parte dei casi meri atti di conquista. Canfora sostiene quindi una tesi realpolitica nei confronti dell’esportazione della democrazia. Il realismo politico concepisce la politica come una «…lotta che ha come fine il potere e come mezzo la forza»1.

Nonostante sia un “ismo”, non possiamo parlare del realismo politico come una ben precisa ideologia, date le diverse sfaccettature che lo caratterizzano. Inoltre il realismo nasce proprio come critica alle ideologie che, secondo i realisti, non fanno che distogliere l’attenzione dalle necessità primarie che devono governare lo stato e chi ne è a capo. La politica è una lotta fra realtà e apparenza e il realismo si preoccupa di far convergere questi due ambiti diversi per ottenere la sopravvivenza dello stato, dando maggiore importanza però alla dimensione pratica della politica. Questa tesi pone le sue basi nella generale sfiducia nutrita dai realisti nei confronti dell’uomo e del principio di eguaglianza che dovrebbe eliminare ogni distinzione e appianare ogni divergenza. L’uomo è considerato come intrinsecamente dedito alla ricerca del benessere personale anche a  scapito di quello dei suoi simili. Allo stesso modo gli stati devono dedicarsi alla ricerca delle condizioni della loro sopravvivenza senza preoccuparsi eccessivamente di mantenere la pace e la collaborazione a livello internazionale. La natura relativa di tutte le creazioni dell’uomo, anche a livello ideale, costringe in uno stato di relatività anche quelle conquiste che sono da sempre considerate come intoccabili e universali, come la giustizia, la legge e perfino la stessa ragione umana. Le basi della filosofia politica sono così scardinate e cedono il passo ad un approccio alla politica che si basa sull’osservazione scientifica del passato e del presente al fine di elaborare le condizioni che garantiscano la sopravvivenza di una comunità. Nell’analisi storica del realista politico hanno grande spazio anche il caso e i bisogni primari degli esseri umani.

La conseguenza più immediata di questo approccio è la delineazione di uno spazio riservato alle relazioni internazionali dominato dall’utilizzo della guerra come unico strumento per garantire la sicurezza e la pace. Di conseguenza le ragioni addotte per giustificare gli interventi militari, come l’esportazione della libertà, sono in realtà motivazioni di facciata atte a mascherare il proprio desiderio di supremazia. Il realismo politico esiste da sempre, anche se molti ne ignorano le dinamiche o credono che ogni intervento militare sia giustificato sul piano ideologico o addirittura trovi in esso le sue ragioni profonde. Già con le Storie di Tucidide, all’interno delle quali trova un posto di grande rilievo la narrazione quasi integrale della guerra del Peloponneso, si delineano le linee guida del realismo politico, così come sopra elencate. Si deve poi a Niccolò Machiavelli il merito di aver sollevato quel velo di ragioni ideologiche addotte per legittimare un’azione di forza che spesso e volentieri non sono nient’altro che pura e semplice ipocrisia. Machiavelli ci svela senza compromessi il lato “demoniaco”2 del potere, invertendo, in politica, l’importanza gerarchica tra apparire ed essere, a favore del primo. L’arte della dissimulazione e la scaltrezza diventano essenziali, seppur sempre al servizio della stabilità dello Stato. La separazione della politica dalla religione e dalla morale è senz’altro un dato che ci permette di comprendere alcuni meccanismi che governano la politica, i quali, senza una buona dose di cinismo, risulterebbero preclusi alla nostra analisi. Con l’avvento della modernità si è tentato di eliminare, peraltro senza successo, la visione politica imposta dal realismo che, fino a quel momento, aveva dimostrato quasi sempre di poter offrire una valida spiegazione delle dinamiche politiche, come Machiavelli ci illustra nel Principe3. Dal Seicento in poi infatti, anche se la periodizzazione è come sempre molto approssimativa, si è tentato di costruire dottrine politiche che poggiassero sulla razionalità e sull’intelletto, al fine di giungere all’eliminazione dei conflitti interni ed esterni allo stato. L’economia di stampo mercantilista che proprio in quel periodo cominciava a diventare la principale fonte di arricchimento incoraggiava fortemente lo sviluppo di una comunità pacifica e priva di quei conflitti che, anche a livello internazionale, avrebbero danneggiato gravemente il commercio. Proprio in quest’ambito assistiamo alla rinascita delle idee cosmopolite ad opera di Kant e altri pensatori prima e dopo di lui. Sebbene l’approccio realista sia stato a più riprese criticato anche severamente, non possiamo liquidarlo come appartenente ad epoche definitivamente superate, data la sua capacità di adattamento ai diversi contesti e alle diverse epoche storiche. Spesso le ideologie vanno in crisi e per vari motivi vengono abbandonate, mentre il realismo politico trova sempre terreno fertile nel quale mettere radici.

A conferma di questa tesi Canfora ci mostra come la storia spesso e volentieri veda trionfare gli interessi pratici sugli ideali. Esportare la libertà  si apre proprio con un riferimento alla guerra del Peloponneso, combattuta tra Sparta e Atene tra il 431 e il 404 a. C. Dato che Atene aveva da tempo riunito le città alleate in un lega sulla quale esercitava un vero e proprio dominio, gli Spartani, per dare maggior forza sul piano ideologico alla loro causa e provocare la defezione del maggior numero possibile degli alleati di Atene, che poco gradivano il giogo, si presentarono come i restauratori della libertà delle città greche. Quanto poco veritiera fosse questa propaganda ci viene rivelato dal caso della rivolta antiateniese dell’isola di Samo, scoppiata nel 441 a. C. Gli Ateniesi avevano scatenato una repressione violentissima, tanto che si può parlare di una vera e propria guerra, durata quasi due anni. Sparta avrebbe avuto l’opportunità di intervenire ma, giudicando i tempi non ancora maturi per intraprendere un’azione militare, non mosse un dito in difesa degli abitanti di Samo. Ciononostante l’iniziativa degli Spartani di presentarsi come liberatori della Grecia dall’imperialismo di Atene ebbe successo, tantoché le defezioni ricominciarono in massa dopo l’inizio della guerra. Dopo la fine della guerra però fu evidente che era ormai impossibile far coincidere la propaganda con la politica di potenza attuata dagli Spartani. Una situazione paradossale si era già venuta a creare nelle fasi finali della guerra. Infatti gli Spartani erano risultati vincitori grazie al supporto finanziario dell’impero persiano, tradizionale nemico della libertà delle città greche. La libertà della Grecia fu comperata con l’oro persiano. Quando le contraddizioni tra ideali e interessi sono così evidenti, anche il più solido degli imperi è destinato a cadere, così come accadrà a Sparta, che verrà sconfitta non molto tempo dopo la fine della guerra dalla superiorità navale dei persiani, sotto il comando, ironia della sorte, di un generale ateniese. Questa celebre guerra costituisce un efficace paradigma per comprendere come i valori della libertà e, con riferimento al presente, della democrazia, vengano sempre meno quando non coincidono con più stringenti interessi di tipo economico o politico. Da questo punto di vista la storia successiva alla lotta fra Sparta e Atene è un lungo elenco di soprusi compiuti in nome della libertà.

Di questo lungo percorso di mistificazioni un altro momento cardine è rappresentato dalla Rivoluzione francese. La decisione di portare la libertà ai popoli di tutta Europa con le armi si sarebbe tramutata in una guerra di conquista, soprattutto dopo che la Francia rivoluzionaria diventerà l’Impero francese. Anche qui la contraddizione in termini è evidente, tanto che, col passare del tempo, in tutti i paesi “liberati” dalle armi francesi, una vasta parte della popolazione percepirà sempre più la presenza dei “liberatori” come una nuova forma di sottomissione. Anche in questo caso gli ideali hanno ceduto il passo agli interessi della potenza vincitrice. Questo principio sarà applicato in tutto il suo cinismo il 17 aprile 1797, quando Bonaparte, allor generale del Direttorio e vincitore della campagna d’Italia, cederà quella che ormai era diventata la repubblica di Venezia all’Austria per suggellare la pace (trattato di Campoformio)4. La figura di Napoleone, già agli albori di quella che sarebbe diventata la sua rapida ascesa al potere, rappresenta la personificazione dei principi che riassumiamo sotto la definizione di Realpolitik. Egli seppe sfruttare a suo vantaggio la diversità delle situazioni, dimostrando una notevole maestria nel rafforzare la sua persona nel corso delle diverse fasi della rivoluzione. Proprio in nome di questo cinismo realpolitico egli fu il più importante artefice del passaggio dalla Rivoluzione all’Impero. Ed è stato infatti il realismo di Napoleone e di coloro che ne avevano sostenuto l’ascesa a piegare gli ideali della rivoluzione francese e a trasformarla in ciò che aveva tentato di distruggere5. Finché gli fu possibile continuò a dar credito alla sua immagine di “spada della rivoluzione”, anche a seguito dell’instaurazione dell’Impero. Chi, a giudizio di Canfora, aveva compreso prima del tempo l’inquietante paradosso insito nella guerra di liberazione e le conseguenze a cui esso avrebbe portato, fu Maximilien Robespierre. Ancora non era a capo del comitato di salute pubblica, al momento del voto sull’ingresso in guerra egli si pronunciò contro questo proposito proclamando: «L’idea più stravagante che possa nascere nella testa di un uomo politico è quella di credere che sia sufficiente per un popolo entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero per fargli adottare le sue leggi e la sua costituzione. Nessuno ama i missionari armati; il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di respingerli come nemici»6. Parole a dir poco profetiche, non solo per quanto riguarda gli esiti della rivoluzione ma anche per la storia successiva, inclusa quella recente.

La storia si sarebbe ripetuta anche per quanto riguarda la “liberazione” dell’Europa dell’Est dal dominio della Germania nazista ad opera dell’armata rossa di Stalin durante la Seconda guerra mondiale. La triste fine degli stati “liberati̕” fu quella di passare dal dominio tedesco a quello sovietico. Un posto d’onore a questa rassegna di aggressioni compiute in nome della libertà è riservato da Canfora al ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto e continuano ad avere nello scacchiere internazionale dal secondo dopoguerra ad oggi. Proprio con la fine della seconda guerra mondiale si afferma definitivamente il predominio di USA e URSS su gran parte del mondo. Il periodo che seguirà di lì a poco e che si sarebbe concluso con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 sarà, a ragione, definito guerra fredda. Le esigenze dei singoli stati risultarono spesso sacrificate da coloro che avevano in mano le redini di quello che possiamo definire il “grande gioco”7 della geopolitica all’epoca della guerra fredda. La condotta degli Stati Uniti in ambito internazionale è esemplare nel dimostrare come la diffusione della libertà e della democrazia siano per lo più armi retoriche alle quali fare affidamento per dare maggior forza ad un intervento militare o per delegittimare le operazioni della potenza rivale che si accinge a compiere la stessa operazione. Già nel 1947 il presidente Harry Truman annunciava la sua omonima dottrina, secondo la quale gli Stati Uniti dovevano operare su scala globale con tutti i mezzi a loro disposizione per evitare la diffusione del comunismo. A questa teoria si aggiunse poi negli anni ’50, sotto la presidenza di Dwight Eisenhower, la teoria del roll back, ossia del “ributtare indietro” il comunismo, elaborata dal segretario di stato John Foster Dulles. Appoggiandosi a quella che possiamo definire una vera e propria fobia del comunismo e di una sua costante minaccia all’Occidente, si pensi alla “caccia alle streghe” del senatore Mac Carthy, gli Stati Uniti, nella ricostruzione di Canfora, si adoperarono per estendere la loro egemonia, in modo diretto o indiretto, sulla quasi totalità del globo, adoperandosi per instaurare governi a loro fedeli e accondiscendenti anche rispetto alla loro politica economica. Un’altra forma di “aiuto” a popolazioni impegnate nella lotta per la libertà era quella di rifornire di armi e di aiuti di altro genere coloro che si ribellavano alla penetrazione comunista, come nel caso dei talebani dell’Afghanistan, oppure che dovevano eliminare una realtà sgradita, come nel caso dell’Iraq di Saddam, armato dagli americani per logorare l’Iran rivoluzionario dell’ayatollah Khomeini. Ironia della storia: gli alleati del momento nella lotta al comunismo e al fondamentalismo diventeranno i nemici di domani.

Quello che, a giudizio di Canfora, spesso si dimentica, è che coloro i quali si definiscono e vengono definiti paladini della libertà si sono in passato adoperati per instaurare vere e proprie dittature militari, preferite alla democrazie autonome, perché più facili da controllare. Il caso del colpo di stato in Cile ad opera del generale Pinochet contro il governo liberamente eletto di Salvador Allende è uno dei tanti esempi che dimostrano che la democrazia non è sempre stata ritenuta dai governi americani la migliore e più conveniente forma di governo ̒da esportare̕. Un esempio forse ancora più tragico di questo modus operandi è costituito, negli esempi addotti da Canfora, dal rovesciamento del governo legittimo del presidente Arbenz Guzmán in Guatemala ad opera dei mercenari di Castillo Armas, inviati nel 1954 su ordine del presidente Eisenhower. Perché si era arrivati a tanto? La motivazione principale era costituita dal fatto che il Guatemala ostacolava la politica della United Fruit Company, potentissima multinazionale statunitense attiva già da fine Ottocento in America Latina ed impegnata nell’esportazione di frutta. La libertà fu di fatto venduta ”̒per un casco di banane̕”. Dopo la fine dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti sono, come è noto, diventati una superpotenza solitaria. Privi di un loro pari al quale rendere conto in caso di azioni militari e diplomatiche troppo azzardate e privi della minaccia di una guerra atomica, la politica estera americana ha mutato la forma ma non la sostanza dei suoi interventi. Senza la necessità di operare sotto mentite spoglie, come spesso era accaduto durante la guerra fredda, dove era la CIA a dover intervenire in modo da evitare una crisi diplomatica con l’URSS, gli americani sono stati in grado di impiegare liberamente le loro truppe ovunque se ne fosse sentito il bisogno.

Risulta però inutile la censura o la disapprovazione per la condotta attuale della politica estera statunitense, dato che essa non opera niente di diverso da quello che in tutto il mondo e in tutte le epoche si è sempre fatto, ossia agire secondo i propri interessi. Le operazioni di state-building compiute in Afghanistan e Iraq dagli statunitensi sono solamente la prosecuzione più raffinata di una politica imperialistica da sempre perseguita dagli Stati Uniti e da altre potenze prima di loro. Naturalmente anche ai giorni nostri ogni intervento acquista maggior vigore agli occhi di chi deve supportarlo se ammantato di una serie di ragioni più o meno valide (la salvaguardia dei diritti umani, una possibile minaccia alla sicurezza, ecc.), generalmente accettate dall’opinione pubblica. Negli Stati Uniti, in particolare, a seguito degli attacchi alle torri gemelle è stata realizzata una campagna mediatica volta a inculcare nella mente di ogni cittadino americano la necessità di combattere il terrorismo, anche con l’uso della forza militare. Il caso degli Stati Uniti è particolarmente interessante, perché dopo la seconda guerra mondiale essi sono stati identificati come i portatori dei valori della libertà e della democrazia. Una buona parte degli americani e della classe dirigente, percepisce il proprio paese come l’unica realtà in grado di diffondere la democrazia in tutto il mondo. Questa idea è derivata in parte dall’assunto che gli Stati Uniti siano l’espressione più compiuta della democrazia liberale, data la loro origine rivoluzionaria. Dall’altra parte, la mentalità di stampo prettamente imperialistico affermatasi dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, ha portato nel corso del tempo la maggioranza dell’opinione pubblica a considerare gli interessi dell’America come gli interessi del mondo intero8. Sembra quasi che ci si sia dimenticati, sottolinea Canfora, che le rivoluzioni in senso autoritario scoppiate in America Latina erano state sostenute nella maggioranza dei casi proprio dagli esportatori della democrazia per antonomasia. Le autorità statunitensi hanno ripetutamente sostenuto la necessità di impegnarsi nella risoluzione di conflitti esterni giustificandola come un’azione volta alla diffusione dei valori della democrazia liberale. In questo modo però si è contribuito a imprimere nella mente dell’opinione pubblica l’inscindibilità fra intervento armato ed esportazione della democrazia9. Da un certo punto di vista l’idea stessa di esportare la libertà e la democrazia con le armi è quanto mai un paradosso: le armi sono strumenti usati per imporre con la forza la volontà dei vincitori ai vinti, dai quali difficilmente può nascere un paese veramente libero.

La prospettiva dell’esportazione della democrazia attuata in modo totalmente disinteressato subisce un altro duro colpo se pensiamo che questa ed altre operazioni sono state legittimate attraverso quella che possiamo definire una vera e propria manipolazione dell’opinione pubblica attraverso l’uso massiccio dei mezzi di informazione, responsabili della diffusione di notizie falsificate, come il possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq. L’allora presidente in carica George W. Bush Jr. aveva ammaliato l’opinione pubblica mondiale delineando l’esistenza di un fantomatico “asse del male” che univa Iraq, Iran e Corea del Nord in un’alleanza simile a quella che univa Germania, Italia e Giappone durante il secondo conflitto mondiale. Quindi cosa è cambiato dai tempi della guerra condotta da Sparta in nome della libertà dei greci? Purtroppo molto poco. Sono cambiati i mezzi propagandistici e gli scopi presunti, ma la sostanza è rimasta invariata.  
                                                                     
Adottando la visione di Canfora arriviamo ad una totale eliminazione del principio di sovranità. Seguendo la visione delle relazioni internazionali e della natura dello stato stesso dettate dalla Realpolitik, la sovranità di uno stato esiste solamente se è salvaguardata dalla forza delle armi. In definitiva se assumiamo il punto di vista di Canfora, del resto ampiamente condiviso in ambiti diversi nell’analisi politica contemporanea, riconosciamo come impossibile la realizzazione pratica dell’idea che è alla base degli interventi umanitari.

Nel lungo braccio di ferro tra idealismo e realismo, che ha caratterizzato tutta la storia dell’umanità, secondo Canfora è quest’ultimo a prevalere. Qualsiasi possibilità di portare la democrazia in modo totalmente disinteressato, risulta pertanto negata. Sembra quasi che Machiavelli abbia vinto una volta di più nel disegnare una politica sgombra da ideali o princìpi, alla mercé del più forte. Risulta chiaro che una politica internazionale modellata sul principio dell’interesse dei singoli stati e sulla forza militare non può che portare allo scontro tra potenze e al fallimento di qualsiasi disegno cosmopolita. Il realismo inoltre, data la sua attenzione pressoché esclusiva alla conservazione dello stato, è poco incline ad imbarcarsi in ambiziosi progetti di nation-building e di esportazione di istituzioni democratiche in altri paesi, avvicinandosi, anche se solo parzialmente, ad un approccio di stampo conservatore per quanto riguarda la politica estera. Con ciò non vogliamo sostenere l’esistenza di una connessione tra conservatorismo e realismo, ma solo sottolineare che  il realista tende, talvolta, ad avvicinarsi al modus operandi di un conservatore, dato il suo intento primario, ossia la cura e l’integrità dello stato. Proprio il progetto cosmopolita è una delle proposte riprese in epoca illuminista per superare il realismo e cercare invece una collaborazione fra stati basati sulla loro uguaglianza e sui vantaggi a tutti i livelli che possono derivare da una loro coesistenza pacifica. Tuttavia, adottando una visione realpolitica delle relazioni internazionali non si rischia si cadere in uno stato di anarchia totale, dato che i rapporti di forza fra i vari stati portano necessariamente ad una gerarchizzazione degli stati nello scacchiere internazionale. Se diamo credito alla trattazione polemica ma raffinata di Canfora non ci resta quindi che abbandonare ogni velleità idealista e non pensare più a esportare la democrazia, almeno preservando la sostanza, e non soltanto le forme ipocrite, della buona fede e del rispetto dei diritti dei popoli.

 

 

 

 

 

 

1. Pier Paolo Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p 19.

2. Per una disamina più approfondita del rapporto fra politica e morale cfr. Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna, 1997.  Machiavelli stesso sarà a lungo etichettato come un essere demoniaco, tanto che in Inghilterra lo si conoscerà per lungo tempo come, the old Nick, uno dei nomignoli attribuiti al diavolo.

3. Niccolò Machiavelli, Il principe, Mondadori, Milano, 1994.

4. Avvenimento che turberà profondamente molti intellettuali che fino a quel momento avevano appoggiato senza riserve le conquiste francesi, tra i quali Ugo Foscolo.

5. Riprendiamo qui l’immagine suggestiva che compare nel libro di Jean Jacques Chevallier Le grandi opere del pensiero politico (Il Mulino, Bologna, 1998). L’autore suggerisce che dopo la Rivoluzione francese e la Rivoluzione d’Ottobre lo Stato, inteso come la macchina statale, anziché soccombere sotto i colpi della rivoluzione si è rafforzato e perfezionato, cfr. p. 419.

6. Luciano Canfora, Esportare la libertà. Il mito che ha fallito, Mondadori, Milano, 2007, p.20.

7. Mi servo di un’espressione di Peter Hopkirk, che è anche il titolo di un suo celeberrimo libro. Sebbene Hopkirk parlasse di grande gioco della politica riferendosi all’espansione coloniale dell’Ottocento e in particolare agli scontri tra russi e inglesi per il controllo dell’Afghanistan penso che l’espressione sia ancora efficace per descrivere le dinamiche che sono alla base della politica internazionale.

8. Cfr. intervista a Christopher J. Coyne e Tamara Cofman Wittes, originariamente apparsa sul “Cato Policy Report” del gennaio/febbraio 2008.

9.Cfr. Eric Hobsbawn, The dangers of exporting democracy, originariamente apparso su “The Guardian” del 22 gennaio 2005.

10. Cfr. Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003.


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