Terra di conflitti tra opposte identità, dove vittorie e sconfitte si sovrappongono e dove gli eroi degli uni sono i nemici giurati degli altri, la porzione britannica dell’Isola di Smeraldo si trova ad un bivio. Da un lato il Regno Unito, la lealtà al quale della maggioranza della popolazione è il motivo stesso dell’esistenza di un’Irlanda “del Nord”; dall’altro il sogno di un’Irlanda unita, mai abbandonato da una porzione sostanziale della popolazione nordirlandese. Il Nordirlanda, negli ultimi anni, ha spesso tenuto il piede in due scarpe; ma, dopo la Brexit, ciò potrebbe non essere più possibile.

 

Alla vigilia delle ultime elezioni amministrative in Nordirlanda, il partito nazionalista Sinn Féin ha condotto la sua campagna elettorale all’insegna dello slogan Equality – Rights – Irish unity (Uguaglianza – diritti – Irlanda unita). In un contesto di Brexit, in cui la creazione di un confine fisico tra le due Irlande è una possibilità concreta, le ultime elezioni sono state promosse da Sinn Féin come una sorta di referendum consultivo sulla riunificazione irlandese, finalizzato a lanciare un segnale forte per la proclamazione di un vero referendum sull’unificazione. Cercando di sfruttare l’insoddisfazione degli unionisti liberali verso la Brexit e il conservatorismo etico sui temi morali da parte del DUP, il principale partito unionista (contrario, ad esempio, ad aborto e matrimonio gay), il partito nazionalista irlandese ha fatto non pochi appelli alla popolazione unionista, con il suo leader MaryLou McDonald che ha dichiarato che “l’Irlanda unita è la soluzione migliore anche per i nostri fratelli e sorelle unionisti… che saranno liberi di celebrare la loro storia e i loro martiri come noi i nostri”[1]. E il suo collega di partito Máirtin Ó Muilleoir, già sindaco di Belfast e distintosi come uno dei leaders nazionalisti meno settari, ha parlato di un crescente interesse per l’Irlanda unita da parte della classe media unionista, sottolineando come “il 51% di chi viene al mio ufficio ha un background unionista” (correggendosi in seguito parlando di background “non nazionalista”)[2].

Argomenti rigettati come propaganda dal DUP e in generale dai partiti unionisti, che seguendo una strategia speculare a quella di Sinn Féin puntano da un lato alla promozione del mantenimento dell’unità con il Regno Unito “a vantaggio di tutti” e dall’altro al consolidamento della loro base elettorale tradizionale, ossia la popolazione di background protestante. In risposta alle arringhe della McDonald, i politici unionisti ricordano come quelli che Sinn Féin celebra come eroi sono i terroristi dell’IRA, le cui vittime, oltre a soldati e poliziotti, includono anche alcune centinaia di civili protestanti. Anche i meno settari tra i politici nazionalisti, come fece notare a suo tempo l’esponente del DUP Christopher Stalford parlando di Máirtin Ó Muilleoir, non mancano di cadere in quest’apparente contraddizione tra discorsi di conciliazione e la continua celebrazione del gruppo terroristico di cui Sinn Féin è stato il braccio politico. I politici unionisti puntano inoltre il dito contro l’Alliance, il principale partito non settario, e i loro elettori di stirpe protestante, rei a loro avviso di fare gli interessi dell’altra parte mediante un voto all’apparenza neutrale. In una realtà come quella nordirlandese, dove non esiste un’identità condivisa, qualunque posizione mediana è vista con sospetto, e il fatto che molti bastioni elettorali dell’Alliance siano le aree benestanti a maggioranza protestante dello hinterland belfastiano contribuisce a stimolare l’ostilità unionista.

Le elezioni hanno però dato risultati del tutto diversi da quanto auspicato dai due fronti. Calano gli unionisti, con forti perdite per i moderati dello UUP solo in parte compensate da guadagni per il DUP, ma non aumentano i nazionalisti, con Sinn Féin che in generale tiene ma che perde voti e i moderati dell’SDLP che, pur perdendo seggi nel complesso, ottengono piccole ma rilevanti successi in alcune roccaforti di Sinn Féin. I veri vincitori sono i partiti non settari, in particolare i liberali dell’Alliance, che oltre a rafforzarsi nelle loro tradizionali roccaforti, dove fanno incetta di voti di unionisti liberali che tradizionalmente andavano allo UUP, fanno capolino in alcune municipalità dell’interno, come Derry e Strabane. Il successo dei Verdi si colloca in parte sulla falsa riga di quello dell’Alliance, in parte sull’onda lunga della recente crescita del movimento ambientalista nell’Europa centro-settentrionale (a sua volta un frutto diretto delle ondate di calore del luglio 2018), mentre i partiti non settari di sinistra (i trotzkisti di People Before Profit e i socialisti della Cross-Community Labour Alternative) sottraggono voti soprattutto a Sinn Féin, oltre a raccogliere un discreto successo tra gli immigrati. Una tendenza confermatasi alle successive Elezioni Europee, con l’Alliance che si afferma come terzo partito del Nordirlanda e che prende il seggio precedentemente in mano allo UUP.

Una crisi del tradizionale voto settario? Parlare di “crisi” è forse eccessivo, visto che il DUP e Sinn Féin restano i due partiti maggiori; ma, specie tra i giovani e i ceti abbienti, una certa stanchezza è palpabile. C’è voglia di stabilità, dopo trent’anni di scontri settari e vent’anni di politica incentrata su temi identitari, e i due anni di assenza di un governo a Stormont[3] per via dello stallo nelle trattive tra Sinn Féin e DUP non sono certo di aiuto (gli Accordi di Stormont, che hanno posto fine ai Troubles, vincola i due partiti principali delle rispettive comunità a governare insieme). Lo slogan dal dell’Alliance “Ne hai abbastanza? Chiedi di meglio” esprime magistralmente questa tentazione vagamente grillina. A tutto ciò si aggiunga l’uccisione, nello scorso aprile, di una giornalista da parte della New IRA, la cui unanime condanna ha contribuito non poco a isolare ulteriormente i fautori della lotta armata. Il tema Brexit, infine, spiega il travaso di voti e seggi dallo UUP all’Alliance: la posizione ambigua del partito unionista, contrario a un secondo referendum ma anche all’uscita senza accordo, ha allontanato da sé gli unionisti pro-Europa, che non vedono nel partito una reale alternativa al DUP, mentre i Brexiteers del Nordirlanda trovano già un valido rappresentante nel DUP. Se questa tendenza dovesse continuare, l’Alliance, già oggi ago della bilancia nel consiglio comunale di Belfast, potrebbe assumere un ruolo simile anche in altri consigli, oggi dominati da sottili maggioranze unioniste o nazionaliste, e nello stesso governo del Nordirlanda.

Ma lo spettro della politica identitaria resta in agguato. La bocciatura del discusso accordo di uscita tra l’UE e il Regno Unito voluto dall’ex Primo Ministro Theresa May, il recente successo del Brexit Party di Farage alle ultime europee e la probabile affermazione di uno hard Brexiteer alle primarie del Partito Conservatore (o, in alternativa, una vittoria elettorale di Farage alle prossime elezioni generali) renderebbero un’uscita senza accordo una possibilità concreta. E, visto il trilemma impossibile tra una politica commerciale autonoma (e quindi l’uscita dall’Unione Doganale europea), il mantenimento di un confine aperto tra le due Irlande e quello di un confine aperto tra il Nordirlanda e il resto del Regno Unito, per il Nordirlanda sarebbero necessarie delle scelte nette. Tertium non datur: o Londra, o Dublino. Una scelta irreversibile, come vedremo in seguito, e perciò i prossimi anni possono avere un’importanza cruciale per il futuro del Nordirlanda. Ma, per capire la questione nordirlandese, è necessario fare qualche passo indietro.

Un po’ di storia

Nel 1914, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, l’Irlanda è sull’orlo di una guerra civile. È passato quasi un secolo dalle prime manifestazioni per l’abolizione dell’Act of Union tra Gran Bretagna e Irlanda, che ha abolito il Parlamento di Dublino e reso quest’ultima una delle quattro nazioni costitutive del Regno Unito, e nel corso di questi anni il nazionalismo irlandese è cresciuto a un punto tale che la vita politica irlandese è dominata dall’Irish Parliamentary Party, un partito di centrodestra di ispirazione autonomista. Quattro anni prima, alle elezioni generali del Regno Unito, i Liberali di Lord Asquith avevano perso la maggioranza assoluta, e solo l’appoggio dei parlamentari dell’IPP consentì loro di tornare al governo.

L’appoggio dell’IPP a Lord Asquith, però, non era incondizionato: il supporto al governo, infatti, era vincolato alla concessione di uno statuto di autonomia per l’Irlanda (la Home Rule) e al ripristino del Parlamento di Dublino. Uno dei primi atti del nuovo governo, pertanto, fu l’abolizione del diritto di veto per la Camera dei Lords, che alla fine dell’Ottocento aveva bocciato un provvedimento affine. Una volta rimosso il veto dei Lords, per la Home Rule la strada era ormai spianata, e il provvedimento fu approvato senza particolari ostacoli. Ma, proprio mentre l’Isola di Smeraldo sembrava sul punto di raccogliere il frutto di anni di lotte, per un crescente numero di radicali ciò non era più sufficiente: l’autogoverno, infatti, doveva essere solo il primo passo verso l’indipendenza e la proclamazione della Repubblica.

Ma non tutti gli Irlandesi volevano l’autogoverno. Nell’Ulster, la più settentrionale delle quattro province irlandesi, la maggior parte della popolazione era ben contenta di restare nel Regno Unito, e anzi temeva l’inclusione coatta nell’Irlanda dell’autogoverno. I motivi erano essenzialmente due, e uno di questi era di tipo economico. A differenza del resto dell’Irlanda, che era rimasta sostanzialmente ai margini della Rivoluzione Industriale, il Nordirlanda beneficiava attivamente dello sviluppo industriale e commerciale del Regno Unito, così come del suo impero coloniale, e Belfast, complici i suoi linifici e i cantieri navali che hanno visto la nascita del Titanic, era uno dei maggiori centri industriali del Regno. Per gli Unionisti dell’Ulster, i danni causati dal taglio di questo cordone ombelicale avrebbero offuscato qualsiasi beneficio derivante dalla Home Rule.

Per molti, però, il motivo principale dell’opposizione allo Home Rule era di tipo religioso. A differenza del resto dell’Irlanda, a forte maggioranza cattolica, l’Ulster era popolato in maggioranza da Protestanti, concentrati soprattutto nelle quattro contee a nord-est dello stesso. Molti di loro erano discendenti dei coloni inglesi e soprattutto scozzesi insediatisi nell’Ulster nel Seicento e nel Settecento, mentre una parte di loro discende da nativi irlandesi che hanno abbracciato il Protestantesimo a seguito di matrimoni misti o del trasferimento in zone con una forte presenza di coloni. La colonizzazione, o Plantation, fu sin da subito accompagnata da forti tensioni tra i nativi e i Planters; e, sebbene nella prassi i matrimoni misti e le conversioni non sono mai mancate (la presenza di cognomi tipicamente inglesi o scozzesi quali “Hume” o “Adams” nella comunità cattolica ne è la riprova, e lo stesso discorso vale per i Protestanti con cognomi tipicamente irlandesi quali “Murphy” e “Kelly”), per i Cattolici irlandesi i Protestanti continuavano ad essere percepiti come un corpo estraneo. In un contesto in cui la Chiesa Cattolica veniva percepita come un potere retrivo e autoritario, poi, la forte influenza di quest’ultima tra i Cattolici irlandesi veniva vista molto negativamente, e “Home Rule is Rome Rule” divenne ben presto uno degli slogan più popolari contro l’autogoverno irlandese.

Già negli anni passati, quando a Westminster si discuteva di autogoverno per l’Irlanda, a Belfast gli scontri tra Cattolici e Protestanti erano inevitabili, e non di rado erano accompagnati da morti, feriti e distruzioni di proprietà. Ma, in un contesto in cui gli ostacoli maggiori alla legge sull’autogoverno erano stati rimossi, la popolazione unionista dell’Ulster, timorosa che l’introduzione dello Home Rule fosse ormai dietro l’angolo, era sul piede di guerra. Nel 1912, nella più settentrionale delle Quattro Province, quasi cinquecentomila persone firmarono l’Ulster Covenant in opposizione all’autogoverno, e l’anno dopo fu fondato l’Ulster Volunteer Force (UVF), un’organizzazione paramilitare finalizzata alla resistenza armata a ogni proposito di autogoverno. La tensione era altissima, dalla Germania pervennero armi sia ai lealisti sia ai nazionalisti, e solo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la conseguente sospensione del progetto di legge sull’autogoverno portarono alla riduzione delle tensioni. La guerra vide una massiccia partecipazione di volontari, tanto cattolici quanto protestanti; e, sebbene le ragioni della loro partecipazione potessero essere diverse (molti Cattolici, ad esempio, furono convinti a partire per il fronte con l’argomento della difesa del Belgio cattolico contro la Germania protestante), per qualcuno ciò poteva essere la prova di come, in Irlanda, tanto un cattolico quanto un protestante potesse essere un patriota britannico.

Si trattò, però, soltanto di un’illusione. Il lunedì di Pasqua del 1916, a Dublino, alcuni nazionalisti irlandesi guidati da James Connolly proclamarono la Repubblica Irlandese. Fu la Rivolta di Pasqua, che per alcuni giorni imperversò per le strade di Dublino; e, sebbene la stessa fu soppressa dopo soli cinque giorni, prima di essere sopraffatta dall’esercito britannico, il punto di non ritorno era ormai stato raggiunto. Alle elezioni generali del dicembre 1918, infatti, i moderati dell’IPP furono soppiantati dai radicali di Sinn Féin, che rifiutarono di assumere i seggi ottenuti a Westminster e si riunirono nel primo Dáil (Parlamento) a Dublino. Il sogno di personalità quali Lord Edward Carson, l’avvocato dublinese noto per il processo a Oscar Wilde che da qualche anno si era posto alla guida degli Unionisti dell’Ulster, di mantenere l’Irlanda unita sotto la corona era destinato a non avverarsi. D’altro canto, la campagna contro lo Home Rule degli Unionisti dell’Ulster aveva avuto grande risonanza (Rudyard Kipling, il cantore della Britannia imperiale, le dedicò persino una poesia), e negli ambienti politici della Londra che contava era ormai chiaro che non si poteva pensare di risolvere il problema irlandese senza tenere conto del Covenant.

La partizione dell’Irlanda, così, sembrava la scelta più logica, anche se a questo punto si aprì un intenso dibattito sui confini tra l’Irlanda cattolica (inizialmente chiamata “Irlanda del Sud”), e l’Irlanda protestante e unionista. Alcuni chiedevano che l’intero Ulster fosse escluso dallo Home Rule; altri, timorosi che la presenza di un eccessivo numero di Cattolici nell’Ulster britannico avrebbe potuto rivelarsi destabilizzante, chiedevano un’applicazione dell’esenzione a un territorio più circoscritto, come quello delle quattro contee dell’Ulster a maggioranza protestante (Antrim, Armagh, Down, Derry/Londonderry). Sulla stessa linea si ponevano anche alcuni nazionalisti irlandesi, ostili alla partizione, che in questo modo puntavano ad avere un Nordirlanda economicamente instabile e che quindi, a loro avviso, sarebbe stato a un certo punto costretto ad accettare la riunificazione. Alla fine, con il Government of Ireland Act del 1920, si optò per una via media: il Nordirlanda, che avrebbe avuto un parlamento autonomo ma distinto da quello dell’Irlanda del Sud, sarebbe stato composto dalle quattro contee a maggioranza protestante più quelle di Tyrone e Fermanagh, dove i Protestanti erano una minoranza superiore al 40%. Il Trattato Anglo-Irlandese del 1921, che pose fine a una breve guerra tra il Regno Unito e i ribelli irlandesi, confermò tali termini (al posto dell’Irlanda del Sud, però, fu istituito lo Stato Libero d’Irlanda, formalmente indipendente pur restando nel Commonwealth britannico), e nel 1925 una proposta di revisione della linea di confine si concluse in un nulla di fatto, soprattutto per via della forte opposizione del neonato governo nordirlandese.

A seguito della partizione, le strade delle due Irlande si sono diametralmente separate. A sud del confine, infatti, la fuga di non pochi Protestanti durante la Guerra Anglo-Irlandese e la sostanziale accettazione della nuova realtà da parte di chi è rimasto hanno portato a un tracollo dell’Unionismo. I pochi Protestanti rimasti possono ancora sentirsi intimamente legati alla Corona e al Regno Unito, ma gran parte di loro si sente “irlandese”, e in ogni caso il peso politico dell’Unionismo nella Repubblica è oggi praticamente nullo[4]. D’altro canto, anche dopo l’indipendenza, l’Irlanda indipendente è rimasta fortemente legata al Regno Unito. Nel 1923, all’indomani dell’indipendenza, tra i due Paesi fu introdotta la Common Travel Area (CTA) al fine di mantenere la libertà di circolazione delle persone tra i due Paesi e un mercato comune del lavoro. La CTA, pure essendo basata su accordi non vincolanti, è rimasta in piedi fino ad oggi, consentendo l’attraversamento del confine senza il controllo dei documenti[5], ed è stato proprio il mantenimento della stessa che ha spinto la Repubblica d’Irlanda a non aderire agli Accordi di Schengen, dopo il rifiuto del Regno Unito di aderire agli stessi per poter mantenere una politica migratoria autonoma. La stessa adesione irlandese all’allora Comunità Economica Europea, dopotutto, è avvenuta per via dei suoi forti legami commerciali col Regno Unito, che avrebbero subito un duro colpo qualora quest’ultimo fosse entrato nella UE da solo. La tradizionale rivalità anglo-irlandese, infine, è ormai quasi del tutto scomparsa e persiste soltanto nello sport.

Ben diversa, invece, fu la questione del nazionalismo irlandese nel Nordirlanda. I primi anni Venti sono stati segnati da violenti scontri settari, con alcune centinaia di morti soprattutto a Belfast, e non meno pacifici proclami da entrambe le parti. La situazione si placò nel corso del 1922, ma lasciò dietro di sé una scia di odio e di rancori che si sarebbero rivelati particolarmente duri a morire. Il nuovo governo nordirlandese, dominato dal Partito Unionista dell’Ulster (UUP), era più concentrato a consolidare la propria primazia che non a riunificare la società, e non pochi dei suoi esponenti sostenevano attivamente l’idea che un Cattolico fosse a priori un Nazionalista, e quindi un cittadino potenzialmente sleale: il Visconte Brookeborough, ad esempio, usò proprio quest’argomento per invitare i proprietari terrieri ad assumere soltanto Protestanti quando era Ministro dell’Agricoltura. Non meno conciliatorio fu l’atteggiamento del mondo cattolico: la seduta inaugurale del Parlamento nordirlandese alla presenza dell’allora Re Giorgio V, nel 1921, non fu boicottata solo dai sei Parlamentari di Sinn Féin e del Partito Nazionalista (il successore dell’IPP), ma anche dal Cardinale Michael Logue, Primate d’Irlanda, e il Partito Nazionalista, che pure in seguito moderò in parte la sua polemica, sembrava impegnato soprattutto ad attaccare l’“illegale” partizione dell’Irlanda. Allo stesso modo, malgrado un terzo delle posizioni nella Royal Ulster Constabulary (RUC), la forza di polizia che sostituì la RIC nel Nordirlanda, era riservato per legge ai Cattolici, le stesse non furono mai del tutto occupate per assenza di candidati a sufficienza. I Cattolici unionisti, in realtà, erano tutt’altro che assenti, sebbene, sulla falsa riga di quanto avveniva in questi stessi anni per i Polacchi dell’Alta Slesia e della Prussia Orientale o per la minoranza slovena della Carinzia, il loro unionismo era il più delle volte legato a ragioni più economiche che identitarie; tuttavia è alquanto probabile che un referendum sulla partizione sul modello di quelli di Carinzia, Alta Slesia e Prussia Orientale avrebbe creato un’atmosfera più distesa negli anni successivi.

Gli anni tra la Partizione dell’Irlanda nel 1921 e lo scioglimento di Stormont cinquantuno anni dopo restano tuttora oggetto di forti controversie nel Nordirlanda. I cittadini di background cattolico parlano di discriminazioni sistemiche nel lavoro, nelle abitazioni e ovviamente in politica, ad esempio mediante la sostituzione del sistema proporzionale con l’uninominale secco per l’assegnazione dei seggi a Stormont e la manipolazione delle frontiere elettorali a vantaggio dello UUP (il cosiddetto gerrymandering). I Protestanti, pur non negando in linea di massima gli episodi di discriminazione, tendono a negarne la natura sistemica, sottolineando come già prima dei Troubles la maggioranza relativa degli inquilini delle case popolari avesse un background cattolico. Ciò che è certo è che gli Unionisti utilizzarono largamente l’ostilità di gran parte di loro all’Irlanda unita e al governo di Dublino per mantenere solidi consensi tra la maggioranza protestante prevenendo quindi l’ascesa dei partiti di opposizione. Il loro obiettivo principale, però, non era tanto il Partito Nazionalista, che otteneva consensi solo tra i Cattolici e che era anzi strumentale a questa strategia[6], bensì il Partito Laburista, ufficialmente favorevole all’unione con il Regno Unito[7] ma in grado di raccogliere massicci consensi tra i ceti operai di entrambe le comunità. Pur raggiungendo risultati considerevoli, con un picco del 25,4% dei voti alle Elezioni Parlamentari del 1962, i Laburisti erano puntualmente sottorappresentati, puniti dal sistema maggioritario secco e dalla strategia del “muro contro muro” adottata da Unionisti e Nazionalisti: in questa tornata elettorale, ad esempio, i Laburisti ottennero solo 4 seggi su 52.

La situazione nordirlandese pre-Troubles aveva non pochi punti in comune con quella attuale della Lettonia, un Paese baltico la cui popolazione è divisa tra la maggioranza etnicamente lettone, culturalmente legata al mondo germanico-nordico e quindi all’Occidente, e una forte minoranza di lingua russa, di fede ortodossa e maggiormente legata alla Russia e al passato sovietico; una polarizzazione che, così come avviene nel Nordirlanda, si riflette anche in ambito elettorale. Seppur con una differenza sostanziale (a differenza che nel Nordirlanda, dove è praticamente impossibile distinguere i discendenti degli indigeni e quelli dei Planters, in Lettonia la distinzione è anche etnica e quindi di sangue), Lettoni e Russi ricordano non poco i “Cattolici” e i “Protestanti” del Nordirlanda, soprattutto in termini di percezione di sé stessi e degli altri. Al pari dei “Protestanti” del Nordirlanda, infatti, i Lettoni etnici si percepiscono come più progrediti e civilizzati rispetto alla minoranza russa, mentre la Russia viene vista come un Paese autoritario e arretrato. Nel contempo, i rancori storici e la coscienza da parte dei Lettoni etnici di essere una piccola minoranza nella più vasta regione eurasiatica fa sì che i Lettoni etnici temano la Russia allo stesso modo in cui i Protestanti dell’Ulster temevano il nazionalismo irlandese. I Russi etnici, dal canto loro, tendono ad enfatizzare aspetti meno materiali, come l’ospitalità, la tradizione letteraria tramite i legami con la cultura russa e la coscienza di rappresentare la “vera fede”. I Russi della Lettonia lamentano tanto discriminazioni, soprattutto in ambito linguistico e politico (la lingua russa, ad esempio, non gode di alcun riconoscimento ufficiale, sebbene sia parlata come lingua madre da circa un terzo della popolazione lettone, mentre i Russi etnici che non hanno un certo livello di conoscenza della lingua lettone non hanno diritto di voto), quanto un sostanziale disinteresse da parte dell’Occidente, in quanto appartenenti alla minoranza “sbagliata”. I Lettoni etnici, d’altro canto, sono spesso diffidenti verso gli alleati occidentali, a loro avviso troppo accomodanti con la Russia quando in ballo ci sono interessi economici (vedi Nord Stream 2) o diversi interessi geopolitici. Alcuni sono giunti ad accusare le maggiori potenze occidentali di doppiogiochismo.

Come nel caso dei Lettoni etnici e delle potenze occidentali, specie quelle al di qua dell’Oder, anche i rapporti tra gli Unionisti dell’Ulster e Westminster non sono stati sempre idilliaci. Per molti politici e intellettuali britannici, anche nazionalisti, gli Unionisti dell’Ulster erano un alleato scomodo, troppo settario e ancorato a controversie religiose che al di là del Mare d’Irlanda erano ormai superate o comunque in fase di risoluzione (un atteggiamento speculare, peraltro, a quello di Dublino verso il nazionalismo romantico dell’IRA e di Sinn Féin). Gli Unionisti dell’Ulster, d’altro canto, non di rado hanno temuto un tradimento da parte del governo centrale, e non sempre a torto: alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, l’allora Primo Ministro Neville Chamberlain offrì a Eamon De Valera il Nordirlanda in cambio della partecipazione alla guerra e dell’uso di alcune basi militari. All’indomani del conflitto, in un contesto di Guerra Fredda, l’allora Primo Ministro Clement Attlee assicurò il governo di Belfast che lo status politico del Nordirlanda non sarebbe stato cambiato finché nello stesso non fosse emersa una maggioranza per l’Irlanda unita. Gli Unionisti, così, si sentirono sicuri del sostegno britannico, ma i loro timori riemersero prepotentemente con l’Accordo Anglo-Irlandese del 1985, che pur riaffermando la britannicità del Nordirlanda “fino a prova contraria” assegnava a Dublino un ruolo consultivo nelle questioni nordirlandesi. All’indomani dell’accordo, davanti a circa duecentomila persone, il carismatico leader unionista Ian Paisley dichiarò senza mezzi termini la sua totale opposizione all’accordo, e per alcuni anni la scritta Belfast says no decorò un Municipio di Belfast ancora sotto il controllo unionista.

Gli anni del Secondo Dopoguerra, per il Nordirlanda, furono anni di sviluppo economico e di rafforzamento dello stato sociale, di cui beneficiò anche la popolazione cattolica. Ma le vecchie controversie settarie erano tutt’altro che risolte. Nel 1963 Terence O’Neill, dell’ala più riformista dello UUP, fu eletto segretario del Partito e Primo Ministro del Nordirlanda. Sin dall’inizio, O’Neill fece non pochi gesti, simbolici e non, per migliorare i rapporti con la minoranza cattolica, come la visita a monasteri e scuole cattoliche e la riduzione di misure discriminatorie. Nel contempo, anche al fine di rilanciare l’economia del Paese, incontrò ufficialmente l’allora Taoiseach (Primo Ministro) irlandese Seán Lemass. Questa politica riscontrò non pochi consensi tra la comunità cattolica, alcuni dei cui membri sostenevano apertamente il governo, e nello stesso Partito Nazionalista, che nel 1965 accettò il ruolo di “opposizione ufficiale”, ma O’Neill si fece non pochi nemici tra gli unionisti più radicali, come William Craig e il precedentemente menzionato Ian Paisley. Particolarmente invisa fu l’accoglienza a Stormont di Seán Lemass, ex membro dell’IRA e protagonista della Rivolta di Pasqua; una visita di cui O’Neill, non a caso, mise al corrente solo pochi fedelissimi. La situazione precipitò alla fine degli anni Sessanta con la nascita del Movimento dei Diritti Civili, che reclamava la fine delle discriminazioni e una riforma del sistema elettorale. Inizialmente pacifiche, le proteste degenerarono ben presto in violenti scontri settari, e la non meno violenta repressione operata dalla RUC non fu certo d’aiuto.

Sotto pressione dall’allora Primo Ministro britannico Harold Wilson, O’Neill accolse alcune delle domande del movimento. Ciò inizialmente sembrò funzionare, portando a una relativa stasi delle proteste, ma nel giro di qualche mese O’Neill si trovò tra l’incudine e il martello. Per gli unionisti radicali, che cercavano di far passare il movimento come legato all’IRA, O’Neill era ormai un traditore; d’altro canto, nel Movimento dei Diritti Civili, non pochi ritenevano le concessioni insufficienti, e le proteste ripresero con maggior vigore, accompagnate ancora una volta da un crescente corollario di scontri settari. Nelle elezioni generali del febbraio del 1969, proclamate dallo stesso O’Neill, lo UUP ottenne nuovamente la maggioranza, ma una parte del partito ormai non seguiva più il suo leader, che di lì a poco diede le dimissioni. La situazione stava ormai precipitando: il 12 agosto del 1969, nei quartieri occidentali di Derry, una marcia di protesta della locale popolazione cattolica degenerò in rivolta, con l’intervento dell’esercito – inizialmente solo come forza di interposizione – e la proclamazione dell’area autogestita di Free Derry nei quartieri coinvolti nella rivolta. I Troubles erano iniziati.

Da allora, e fino al 1998, il Nordirlanda fu coinvolto in una sorta di guerra civile tra l’esercito britannico, i gruppi paramilitari nazionalisti (in primis una rinnovata IRA) e i loro omologhi lealisti di UVF e UDA. Nel corso del conflitto, che costò la morte di poco più di 3.500 persone, la polarizzazione etnica raggiunse livelli inauditi, con omicidi settari, scontri a fuoco per il controllo del territorio e l’espulsione coatta di residenti rei di appartenere al gruppo sbagliato. Allo stesso modo, tanto nelle città maggiori quanto in molti centri minori, si rafforzò la tendenza a risiedere in aree popolate solo o perlopiù da membri del proprio gruppo, ora non di rado separate da muri (le cosidette peace lines, in molti casi tuttora esistenti) per evitare o quantomeno limitare scontri settari e vendette incrociate. Inoltre, pur essendo coinvolti in un conflitto essenzialmente locale, tanto i nazionalisti quanto gli unionisti non mancarono di cercare appoggi tra terze parti che percepivano come affini o comunque come alleati. I nazionalisti, ad esempio, solidarizzarono con non pochi movimenti separatisti di sinistra, come l’ETA dei Paesi Baschi, l’OLP palestinese, il PKK curdo e persino le Tigri Tamil dello Sri Lanka, alle quali è dedicato un murale sul celebre International Wall di Belfast. Più di recente, in un contesto di lotta ormai prettamente pacifica, si sono aggiunti gli indipendentisti di Scozia e Catalogna. Stesso discorso, sia pure per motivi diversi, dicasi per il movimento dei diritti civili della popolazione nera degli Stati Uniti e del Sudafrica, mentre l’IRA, come è noto, ha avuto armi soprattutto dalla Libia di Gheddafi, dalla Stasi e dalle associazioni di Statunitensi di origine irlandese. Per unionisti e lealisti[8], d’altro canto, i sostegni principali provenivano dai politici unionisti britannici, dagli apparati di sicurezza britannici, da Israele, da una certa destra statunitense e, seppure in misura minore, dai nazionalisti bianchi di Sudafrica e Rhodesia (oggi Zimbabwe).

Tuttavia, se nel corso della storia i nazionalisti irlandesi e persino l’IRA non sono mai stati a corto di supporti internazionali, ben diverso è il discorso per unionisti e lealisti, condannati dalla decolonizzazione, dal loro essere facilmente additabili come “oppressori” e “suprematisti” e, più in generale, da un certo disinteresse per il Nordirlanda da parte del pubblico britannico (non certo paragonabile, ad esempio, all’attaccamento dell’Inglese medio per la Scozia). Ciò contribuì non poco a determinare l’evoluzione del processo di pace. Inizialmente, infatti, la linea del governo britannico puntava da un lato ad isolare gli estremisti, dall’alto al ripristino del governo locale, sospeso nel 1972 a causa del conflitto, coinvolgendo anche la minoranza nazionalista. In quest’ottica, nel 1973, furono firmati gli Accordi di Sunningdale, sostenuti dall’allora leader dello UUP Brian Faulkner, da Gerry Fitt, la sua controparte dell’SDLP (il partito di orientamento socialdemocratico che aveva sostituito i Nazionalisti come principale voce della comunità cattolica) e dall’Alliance Party for Northern Ireland, un partito unionista di orientamento liberale e non-settario fondato alcuni anni prima da alcuni transfughi dello UUP che avevano sostenuto O’Neill. Il fallimento dell’accordo fu determinato dall’inclusione nello stesso di un Consiglio d’Irlanda, particolarmente indigesto agli unionisti radicali, ma ciò non impedì al suo successore Margaret Thatcher di adottare la stessa strategia del doppio binario adottata dai suoi predecessori, in forme ancora più drastiche con la sua proverbiale testardaggine. Rifiutandosi di considerare l’IRA come una parte nel processo di pace la Thatcher fu del tutto impassibile allo sciopero della fame portato avanti da alcuni prigionieri dell’IRA, tra cui Bobby Sands, per chiedere la riassegnazione dello status di prigionieri politici; uno sciopero, com’è noto, conclusosi con la morte di dieci partecipanti. Allo stesso tempo, però, la Thatcher non esitò a scendere a patti col governo di Dublino, con cui firmò il già menzionato Accordo Anglo-Irlandese. Fortemente inviso agli Unionisti dell’Ulster, ma appoggiato dall’SDLP, l’accordo ebbe però l’effetto di isolare l’IRA e il suo braccio politico Sinn Féin; un isolamento che divenne ancora più marcato dopo l’Attentato di Enniskillen del 1987, che costò la vita a dodici civili (tra cui diversi anziani).

Negli anni Novanta, però, tanto il successore della Thatcher John Major quanto soprattutto Tony Blair adottarono una nuova strategia, che prevedeva l’inclusione anche dei gruppi paramilitari e dei loro sostenitori politici (seppure con delle precondizioni). In un contesto in cui la fine della Guerra Fredda portò con sé l’illusione che un futuro di pace e democrazia per il mondo era possibile, il conflitto nordirlandese veniva ormai visto come una guerra tra relitti del passato, e ciò valeva sia per il Regno Unito, dove i colpi di coda imperiali dell’era Thatcher stavano cedendo il posto alla Cool Britannia e al Britpop, tanto in una sempre più libertaria Repubblica d’Irlanda, ormai lontana dall’essere quella terra di protezionismo, Cattolicesimo tradizionalista e nazionalismo antibritannico che era stata nei decenni precedenti. A tutto ciò si aggiunse il ruolo dell’allora Presidente USA Bill Clinton, che grazie ai suoi legami con la comunità iberno-americana da un lato e alle sue affinità politiche con Tony Blair dall’altro poté svolgere un ruolo da mediatore.

Il risultato furono gli Accordi di Stormont del 1998 (o Accordi del Venerdì Santo). Sulla falsa riga di quelli di Sunningdale, gli Accordi di Stormont prevedevano il coinvolgimento della minoranza nazionalista nel governo del Nordirlanda, l’abbandono della violenza come forma di lotta politica, il disarmo dei gruppi paramilitari, l’amnistia per quelli detenuti in relazione a crimini commessi durante i Troubles e la creazione di un Consiglio d’Irlanda con la partecipazione tanto dell’Irlanda del Nord quanto della Repubblica. A tutto ciò, però, si aggiungevano altri punti, come il riconoscimento tanto dell’identità britannica quanto di quella irlandese, con diritto alla doppia cittadinanza e al doppio passaporto per i residenti nel Nordirlanda, e una chiara road map per un eventuale riunificazione (primo referendum nel Nordirlanda, trattative per la riunificazione e secondo referendum in tutta l’Irlanda sui termini della stessa). In più, se negli Accordi di Sunningdale il principio del consociativismo era presente de facto, in quelli di Stormont la compartecipazione al governo da parte del principale partito nazionalista e della sua controparte unionista veniva sancita per legge. L’accordo vide l’opposizione tanto del DUP di Ian Paisley, che lo vedeva come troppo sbilanciato verso i nazionalisti (l’abrogazione dalla Costituzione irlandese delle pretese territoriali sul Nordirlanda, ai loro occhi, era poco più di un contentino), quanto di alcuni gruppi repubblicani dissidenti, che vedevano allontanarsi il loro principale obiettivo dietro un macchinoso processo di referendum e di trattative; ma, complice una certa stanchezza per trent’anni di conflitto, il successivo referendum sull’accordo vide lo stesso passare con il 71,1% dei voti, mentre l’attentato di Omagh ordito qualche mese dopo dai repubblicani dissidenti condannò questi ultimi a una posizione marginale. Gli anni successivi avrebbero visto il Nordirlanda seguire un percorso di sviluppo e stabilizzazione, ma con occasionali ondate di violenza, e in ogni caso sempre in bilico tra la voglia di una società unita e il permanere delle antiche diatribe. Ma ormai siamo già nell’attualità…

Verso il futuro

Com’è cambiato il Nordirlanda dai tempi di Stormont? Come anticipato nelle righe precedenti, i passi in avanti sono stati notevoli. Le strade di Belfast sono ormai tra le più sicure del Regno Unito, gran parte delle dispute su bandiere  e parate sono state risolte o quantomeno congelate, e sull’estuario del Lagan, il fiume di Belfast, si riflettono i simboli del recente sviluppo economico, oggi incentrato soprattutto su servizi e turismo ma con qualche realtà industriale di primissimo livello nei settori aerospaziale e della meccanica di precisione (vedi Bombardier). Prima della crisi economica del 2008, non di rado, il Nordirlanda veniva definito “la seconda tigre celtica”; e, sebbene la crisi abbia colpito duro anche qui, la ripresa è stata palese, e il tasso di disoccupazione è oggi praticamente pari a zero. Anche la situazione politica è nettamente più stabile. L’ascesa di DUP e Sinn Féin ai danni dei più moderati UUP ed SDLP alle elezioni del 2003 sembrava essere il segno di un’ulteriore radicalizzazione della vita politica del Paese, ma dopo lunghe trattative i due partiti giunsero agli Accordi di St Andrews del 2006, di fatto una leggera rettifica di Stormont a vantaggio unionista. Sinn Féin riconobbe l’autorità della PSNI, l’organo di polizia che aveva sostituito la RUC, del diritto nordirlandese[9] e dei relativi organi giudiziari, e il partito di Ian Paisley, in cambio, accettò quello che fino a qualche mese prima era l’Inaccettabile per antonomasia, ossia il governo condiviso con l’ex braccio politico dell’IRA (particolarmente incoraggiante, sotto questo punto di vista, fu l’amicizia che Ian Paisley instaurò con il suo ex arcinemico, l’ex capo dell’IRA Martin McGuinness divenuto Vicepresidente del Consiglio in un esecutivo per un anno diretto dallo stesso Paisley). Infine, ma non in ultima analisi, ogni discriminazione su base religiosa o di background è stata messa al bando.

Eppure, sotto altri aspetti, il Nordirlanda attuale ha fatto pochi passi in avanti dai tempi dei Troubles. Dietro le spettacolari architetture del nuovo Museo del Titanic e le gru del nuovo campus universitario, infatti, continua a celarsi una realtà fatta di settarismo, di tensioni irrisolte ma solo congelate e dove il voto e la vita politica continuano ad essere dominate da antiche lealtà e da non meno antiche controversie. I “Cattolici” apertamente unionisti, così come i “Protestanti” favorevoli all’Irlanda unita, restano casi isolati, e i tentativi di entrambi i fronti di estendere la loro base elettorale agli “altri” si sono rivelati al momento fallimentari (vedi NI21[10]). Né sono in grado di spostare l’asticella quelle grandi tematiche che, almeno in teoria, potrebbero causare trasferimenti di voti tra i due fronti. In un contesto in cui gli immigrati sono una porzione risibile della popolazione locale, di gran lunga inferiore a quella di città come Londra o Birmingham (il Nordirlanda, anzi, è tradizionalmente un luogo da cui si emigra), e non ci sono quartieri-ghetto, i temi legati al terrorismo islamico e ai grandi flussi migratori hanno ad esempio un peso praticamente nullo, e in ogni caso non spostano l’asticella. Non molto diverso è il discorso per i temi etici: è alquanto improbabile, ad esempio, che un Protestante favorevole ai matrimoni omosessuali voti Sinn Féin, o che un Cattolico pro-life voti il DUP, specie in virtù del fatto che entrambi hanno delle alternative che possono almeno in parte venire incontro alle loro istanze. Nel Nordirlanda, inoltre, si parla poco dei grandi temi economici e geopolitici internazionali, come l’ascesa della Cina, i rapporti con la Russia e la stessa Unione Europea al di là del tema Brexit. La politica statunitense non manca di suscitare un certo interesse, ma soprattutto in virtù del ruolo svolto dagli States nella politica del Nordirlanda (vedi Accordi di Stormont), e in misura minore per il forte ruolo svolto nello sviluppo degli Stati Uniti da parte degli emigranti di ascendenza irlandese e Ulster Scots.

Se nelle righe precedenti si è paragonato la situazione del Nordirlanda pre-Troubles a quella della Lettonia, quindi, per la situazione post-Troubles il paragone più calzante è con l’Ucraina o con la Bosnia-Erzegovina: un Paese che, pur non mancando di suscitare una certa attenzione internazionale, è tendenzialmente provinciale, fortemente incentrato su sé stesso e quasi impermeabile a quanto avviene nel resto del mondo. Il voto è essenzialmente identitario, il voto di opinione è quasi assente, e gli Accordi di Stormont, paradossalmente, non hanno fatto altro che cementare queste due peculiarità (prima dei Troubles esisteva un forte partito laburista). Gran parte dei risultati elettorali, pertanto, sono stati determinati dalla partecipazione al voto di Nazionalisti e Unionisti, mentre l’evoluzione generale della politica nordirlandese è stata spesso determinata dai rapporti in termini numerici tra Cattolici e Protestanti. Questi ultimi, da sempre in maggioranza, hanno fatto sì che per molti anni la scena politica nordirlandese fosse dominata dallo UUP, tradizionale balena bianca dell’unionismo nordirlandese, e più in generale dai partiti unionisti; ma la progressiva crescita della popolazione di stirpe cattolica, passata dal 33,5% nel 1937 (il suo punto più basso) al 45,1% del 2011[11], ha determinato una parallela crescita dei partiti nazionalisti. E mentre la Union Jack veniva rimossa dal Municipio di Belfast, nel cui consiglio gli esponenti nazionalisti formano ormai una maggioranza relativa, molti di loro iniziarono ad affermare con crescente sicurezza di sé che il loro giorno stava arrivando. Le tendenze demografiche del Nordirlanda sembrano piuttosto chiare: sebbene la crescita della quota percentuale della popolazione di stirpe cattolica si sia quasi arrestata, il “sorpasso” è ormai a portata di mano, e ciò può portare, se non a un referendum sull’Irlanda unita, quantomeno al ribaltamento dei rapporti di forza tra Nazionalisti e Unionisti a Stormont, dove già nel 2017 hanno perso la maggioranza assoluta.

Negli ultimi anni, però, nell’all’apparenza statico panorama politico nordirlandese è emersa una nuova tendenza: la crescita del voto di opinione. Non si tratta, al momento, di nazionalismo pragmatico o di unionismo pragmatico (Sinn Féin resta ancorato alle proprie roccaforti, senza conquistare nuovi seguiti tra gli unionisti liberali, e lo stesso discorso, in senso opposto, vale per il DUP), ma al contrario, come abbiamo visto, di una crescente importanza dei temi non identitari nel dibattito politico nordirlandese, ora non più del tutto impermeabile a quanto avviene nel mondo esterno né incentrato su temi in qualche modo legati all’identità. In una società che si va laicizzando, ad esempio, aumenta la sensibilità a temi quali aborto e matrimoni gay, le ondate di calore del luglio 2018, che hanno colpito anche il Nordirlanda con un’insolita siccità, hanno comportato una maggiore attenzione ai temi ambientali, mentre i partiti di estrema sinistra non settari raccolgono crescenti consensi da entrambe le comunità. Una convergenza verso il centro, e in generale quei partiti che di fatto accettano lo status quo istituzionale (Nordirlanda parte del Regno Unito fino a un eventuale referendum), che coinvolge anche i partiti tradizionali e che si verifica proprio mentre la possibile Brexit dovrebbe spingere verso il classico “o di qua, o di là”. Resta chiaramente molto spazio per il DUP, che anzi si consolida come il partito unionista, conservatore e pro-Brexit (il 44% della popolazione del Nordirlanda ha votato per l’uscita dall’UE), e allo stesso tempo Sinn Féin manterrà una vasta schiera di votanti tra i nazionalisti hardcore, ma la tendenza attuale è verso un sistema incentrato su tre partiti principali, dove il centro e i non-settari in generale tendono ad attrarre sempre più seconde preferenze[12] tra i votanti dei partiti identitari moderati (alle ultime elezioni europee, ad esempio, la maggior parte delle seconde preferenze dei voti dell’SDLP è andata verso l’Alliance anziché verso Sinn Féin)[13], e che, in generale, potrebbe regalare delle sorprese nelle prossime tornate elettorali.

Tuttavia lo spettro del voto identitario resta sempre all’orizzonte, soprattutto per via della Brexit. Già di per sé divisivo, il tema dell’uscita dalla UE lo è in particolar modo nel Nordirlanda, con la comunità unionista che si è espressa in maggioranza per il Leave e quella nazionalista che ha votato quasi esclusivamente Remain. Certamente il referendum è stato un primo esempio di quella tripartizione del voto di cui si è parlato in precedenza, con non pochi Protestanti – soprattutto nelle aree più abbienti di Belfast e della costa orientale – che hanno votato Remain (un fattore, questo, decisivo per la leggera prevalenza di quest’ultimo nel Nordirlanda) e People Before Profit, forte soprattutto tra i Cattolici, che invece ha sostenuto il Leave. La Brexit, di per sé, non implica il ritorno di quei rigidi controlli dell’epoca dei Troubles al confine al momento praticamente invisibile tra le due Irlande; gli stessi, infatti, erano legati esclusivamente alla guerra civile all’epoca in corso, e peraltro avvenivano in un’epoca in cui entrambi i Paesi facevano parte dell’allora CEE. Stesso discorso per la libera circolazione delle persone tra le due Irlande, regolata dalla precedentemente menzionata CTA che, peraltro, non prevede una politica migratoria comune. Mantenere il libero attraversamento del confine in un contesto in cui il Regno Unito, in caso di Brexit, uscirà anche dal mercato comune dei lavoratori sarà più difficile, ma non impossibile: garantire il libero attraversamento del confine, dopotutto, non impedisce allo Stato in questione di imporre dei requisiti legali per l’accesso al mercato del lavoro locale ai cittadini di un Paese terzo, o di procedere all’espulsione di lavoratori clandestini[14]. Ma, in un contesto in cui l’uscita dall’Unione Europea della Repubblica d’Irlanda è al momento alquanto improbabile, e lo stesso discorso vale per la permanenza del Regno Unito nell’Unione Doganale Europea in caso di Brexit – l’unica soluzione che renderebbe del tutto superflui i controlli al confine –, come abbiamo visto sopra, crea un trilemma impossibile tra il mantenimento del confine aperto tra le due Irlande, il mantenimento del confine aperto tra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito e una politica commerciale autonoma.

La permanenza del Regno Unito nell’Unione Doganale europea è attivamente promossa dal Partito Laburista, e in particolare dal suo leader Jeremy Corbyn, ma nella prassi è alquanto improbabile, in quanto uno degli obiettivi primari della Brexit è proprio il recupero della sovranità in termini di dazi doganali e accordi di libero scambio. Per poter mantenere un confine quanto più fluido possibile tra le due Irlande, ma senza al contempo intaccare l’unità del mercato britannico, il governo di Londra ha lanciato una serie di proposte che prevedono l’utilizzo di telecamere a circuito chiuso, dichiarazioni doganali precompilate, riconoscimento automatico delle targhe e monitoraggi dall’alto tramite droni. Queste soluzioni consentirebbero un passaggio fluido del confine di beni di produzione interna tra le due Irlande (previo mantenimento di un regime di libero scambio tra Regno Unito e Unione Europea anche dopo la Brexit), mentre le merci di Paesi terzi avrebbero dovuto sostenere controlli doganali che, secondo le intenzioni britanniche, sarebbero stati effettuati lontano dal confine. Si tratta del cosiddetto smart border, che prende spunto dall’esperienza di Svezia e Norvegia (il primo membro UE, il secondo parte dell’Area Economica Europea ma non dell’Unione Doganale Europea).

La proposta è stata però rigettata tanto dai partiti nazionalisti, quanto dal governo di Dublino, a cui Bruxelles ha di fatto concesso un diritto di veto sulla questione del confine. Questi, dal canto loro, hanno proposto uno status speciale per il Nordirlanda, con la permanenza di quest’ultimo nell’Unione Doganale Europea e in alcuni ambiti del Mercato Comune qualora le circostanze post-Brexit non consentissero il mantenimento di un confine completamente aperto. Si tratta del cosiddetto backstop, fortemente inviso tanto a Theresa May quanto agli unionisti del Nordirlanda (a partire dal DUP, ai cui dieci deputati il governo May deve la maggioranza); ma, se l’opposizione di questi ultimi non è mai venuta meno, la May, alle prese con un partito diviso e determinata ad uscire dalla UE con un accordo, è stata alla fine costretta a cedere. L’accordo di uscita, però, è stato più volte bocciato dal Parlamento, e l’assenza di una maggioranza parlamentare per un’uscita senza accordo o no deal (l’unica opzione, in queste circostanze, che avrebbe consentito allo stesso tempo l’uscita dall’Unione Europea e l’integrità del mercato britannico interno) ha spinto la May a chiedere una proroga della Brexit fino al 31 ottobre. Una mossa, questa, che gli storici probabilmente ricorderanno come l’atto finale della carriera politica di Theresa May, che, osteggiata tanto dai remainers quanto dai fautori della Brexit (seppure per motivi opposti), ha annunciato le dimissioni alla vigilia di quelle elezioni europee che le avrebbero dato scacco matto.

Come il lettore attento avrà intuito, a rendere particolarmente calda la battaglia per il confine sono soprattutto gli aspetti simbolici che ruotano attorno allo stesso. Il confine aperto tra le due Irlande, per i nazionalisti, è il simbolo dell’unità della nazione irlandese, in attesa della tanto agognata unità politica; l’integrità del mercato interno britannico, invece, è molto cara agli unionisti in quanto segno del mantenimento dell’unità tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. La battaglia finale, però, si giocherà essenzialmente sulla capacità di portare dalla propria parte anche un numero sostanziale di appartenenti all’altro gruppo. I nazionalisti hanno fatto largo uso del tema della paura, in particolare di quella di un ritorno alla violenza e ai rigidi controlli sul confine che caratterizzavano l’epoca dei Troubles; gli unionisti, dal canto loro, hanno spesso sottolineato come i rapporti economici tra il Nordirlanda e il resto del Regno Unito abbiano un peso di gran lunga maggiore di quelli tra le due Irlande, e non è escluso che, qualora un no deal dovesse provocare il tanto temuto aumento della violenza da parte dei repubblicani dissidenti, gli stessi unionisti possano farsi portatori di quel bisogno di sicurezza che caratterizza la società nordirlandese. La bocciatura del backstop e il rinvio della Brexit hanno posposto il dibattito, ma l’ormai non improbabile uscita senza accordo porterà inevitabilmente alla battaglia finale, che deciderà forse per sempre il mai risolto dilemma della posizione del Nordirlanda tra Regno Unito e Irlanda unita.


NOTE

[1] https://www.belfasttelegraph.co.uk/news/northern-ireland/time-drawing-near-for-ireland-border-poll-sinn-feins-mcdonald-tells-hunger-strike-event-37187121.html

[2] https://www.belfasttelegraph.co.uk/news/northern-ireland/sinn-feins-o-muilleoir-admits-he-got-stats-wrong-on-helping-unionist-community-37815196.html

[3] Stormont è la sede del Parlamento nordirlandese.

[4] Va detto, però, che nel corso degli anni vari esponenti politici irlandesi e il dublinese Reform Group (un’associazione apartitica) si sono espressi nel corso degli anni a favore del ritorno dell’Irlanda nel Commonwealth, da cui la stessa è uscita nel 1948.

[5] Fa eccezione il periodo dei Troubles quando, per motivi di sicurezza, l’attraversamento del confine era soggetto al superamento di rigidi controlli.

[6] Non sono mancate situazioni in cui la manipolazione delle frontiere elettorali consentisse ai Nazionalisti di ottenere più seggi del dovuto. Alle elezioni per il Consiglio Comunale di Londonderry del 1967, ad esempio, i Nazionalisti ottennero il 40% dei seggi, pur avendo ottenuto solo il 27,4% di voti.

[7] Nel 1949, a seguito della proclamazione della Repubblica da parte del governo di Dublino, il direttivo del partito ha votato per il mantenimento dell’unione col Regno Unito.

[8] La differenza tra unionisti e lealisti sta nel fatto che, a differenza dei primi, i secondi approvano il ricorso alla lotta armata. Stesso discorso dicasi, sul fronte opposto, per nazionalisti e repubblicani.

[9] Sul piano giuridico, il Regno Unito è diviso in tre giurisdizioni: Inghilterra e Galles (unica giurisdizione), Scozia e Irlanda del Nord.

[10] NI21 è un partito fondato nel 2013 da due transfughi dello UUP, di orientamento centrista e filoeuropeo e finalizzato a dar voce, secondo le intenzioni dei suoi fondatori, a un unionismo non settario. Come Presidente del partito fu nominata Tina McKenzie, figlia di un ex terrorista dell’IRA e quindi di background cattolico. Il partito ebbe un discreto successo alle elezioni del 2014, ma ben presto entrò in crisi sull’opportunità di definirsi ufficialmente come un partito “unionista” – cosa che gli avrebbe precluso la possibilità di andare al governo senza il sostegno di un partito nazionalista –, e nel 2016 cessò di fatto di esistere.

[11] https://cain.ulster.ac.uk/ni/religion.htm#1a

[12] Nelle elezioni locali e in quelle europee, nel Nordirlanda, si usa il voto singolo trasferibile, che prevede la possibilità di votare più candidati in ordine di preferenza. L’elezione è legata al raggiungimento di una quota, determinata volta per volta sulla base del numero dei votanti e dei seggi disponibili; qualora, a seguito della conta dei voti, rimanessero ancora dei seggi non assegnati, si procede ad aggiungere ai voti dei candidati ancora in lizza le seconde preferenze sia dei candidati che hanno superato la quota (in questo caso, si considerano soltanto i voti in eccesso), sia di quelli all’ultimo posto.

[13] http://www.eoni.org.uk/Elections/Election-results-and-statistics/Election-results-and-statistics-2003-onwards/Elections-2019

[14] Un esempio tra tutti è dato da San Marino, che al pari delle due Irlande ha un confine terrestre con l’Italia completamente aperto. Il governo sammarinese, infatti, garantisce un accesso preferenziale al mercato del lavoro ai cittadini e ai residenti di San Marino (coloro che hanno vissuto a San Marino, con un permesso di soggiorno o di lavoro, per almeno 5 anni), mentre l’assunzione di terzi è possibile soltanto qualora l’ente o l’azienda in questione non abbia trovato candidati appropriati tra le due categorie di cui sopra.


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Giuseppe Cappelluti, nato a Monopoli (Bari) nel 1989, vive e lavora in Turchia. Laureato magistrale in Lingue Moderne per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Bergamo, ha conseguito la laurea triennale in Scienze della Mediazione Interculturale presso l’Università degli Studi di Bari. Dopo aver trascorso periodi di studio presso l’Università di Tartu (Estonia) e a Petrozavodsk (Russia), nel 2016 ha conseguito un Master in Relazioni Internazionali d’Impresa Italia-Russia presso l’Università di Bologna. Dal 2013 ha pubblicato numerosi articoli su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e nel relativo sito informatico. Suoi contributi sono apparsi anche su “Fond Gorčakova” (Russia), “Planet360.info” (Italia), “Geopolityka” (Polonia) e “IRIB” (oggi “Parstoday”, Iran).