Aprile 2021: si segnala l’accentuazione della pressione occidentale nei confronti della Turchia, in bilico tra riallineamento atlantico (per il quale servirebbe però un significativo “cambio di regime” e una congrua rieducazione dell’opinione pubblica) e dialogo eurasiatico. Dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea giungono lezioni di morale – doverosamente improntate all’ideologia decadente del politicamente corretto – e di storia (relative al contenzioso fra Turchi e Armeni) miranti a riaffermare il pensiero unico consentito in tema di diritti civili e di ricerca storica. Prese di posizione polemiche, minacce e di tanto in tanto lusinghe che si aggiungono alle tensioni operanti nel Mediterraneo – dove già opera un’alleanza per estromettere la Turchia da ogni gioco – e nel Mar Nero, dove le intromissioni militari di Washington prevedono la collaborazione obbligata di Ankara in funzione antirussa. 

I

Il muro della NATO presenta alcune crepe e incrinature che non sempre risulta facile occultare o minimizzare: è per esempio il caso della Turchia, a proposito del quale i continui, intensi attacchi mediatici (e non solo) contribuiscono ad allargare la distanza fra mondo occidentale e mondo turco.

Dietro il lamentato – e grottesco – “sgarbo del sofà”[1] andato in scena ad aprile 2021 in occasione del vertice intercorso fra Turchia e Unione Europea sta innanzitutto l’ideologia del politicamente corretto, che si sposa con l’ostilità pregiudiziale verso ciò che è turco: ma c’è anche più in profondità un gioco geopolitico che riguarda in particolare gli scenari del Mediterraneo e del Mar Nero (vale a dire il “Mediterraneo in grande”) nel contesto del confronto russo-statunitense.

Sono scenari che coinvolgono direttamente la Repubblica Turca ponendola probabilmente di fronte a una scelta geopolitica decisiva per il suo futuro.

Ma prendiamo in considerazione l’altra e più pesante polemica antiturca venuta a deflagrare ad aprile 2021, quella dell’asserito genocidio degli Armeni, rilanciato con gran forza dal nuovo inquilino della Casa Bianca.

Joe Biden ha da sempre una storia personale di scarsa simpatia per la Turchia di Erdoĝan, ma anche per i Turchi in generale, considerati appunto come genocidi degli Armeni. Assieme a deputati e senatori di parte sia repubblicana che democratica – come Joe Knollenberg, George Radanovich e Nancy Pelosi – il senatore Biden si è distinto fin dal primo decennio del nostro secolo nella campagna per il riconoscimento di questo presunto sterminio, andando in ciò oltre la stessa volontà di Jerevan – più prudente rispetto alla diaspora armena dislocata in Occidente – e soprattutto della Chiesa armena avente sede in Turchia[2].

Nella campagna elettorale per l’elezione a Presidente degli Stati Uniti il candidato Biden ha ribadito la sua posizione, preannunciando ad agosto 2020 la sua intenzione di far riconoscere agli Stati Uniti il genocidio degli Armeni imputato ai Turchi.

Come è noto la Turchia non riconosce e contesta radicalmente questa tesi, addirittura perseguendo penalmente chi la sostenga – e ciò secondo una lezione che proviene dall’Occidente, dove spesso si pretende di chiudere la bocca e di incarcerare chi propone con coraggio ricerche storiche non allineate alle “verità” ufficiali.

Sia come sia la realtà storica della vicenda – certamente dolorosa ancorché controversa – la Turchia   ha sempre percepito questa grave accusa che le viene rivolta come un’inaccettabile e ingiustificata interferenza, lesiva della sua dignità nazionale. E ora si è compiuto un ulteriore passo in questa direzione, scandito dalla mondializzazione mediatica: il “New York Times” del 21 aprile ha informato per primo che il Presidente Biden ha deciso di “riconoscere come genocidio l’uccisione di un milione e mezzo di Armeni”, e che l’annuncio ufficiale sarebbe stato dato tre giorni dopo.

Così è stato: il 24 aprile Biden ha solennemente scritto che “il popolo americano onora tutti gli Armeni morti nel genocidio iniziato 106 anni fa”.

Il Presidente statunitense ha mostrato di voler attenuare il tono della dichiarazione – che riprende d’altra parte le analoghe mozioni approvate tra ottobre e novembre 2020 dal Congresso e dal Senato statunitensi, però non vincolanti – auspicando “la riconciliazione fra Armenia e Turchia” e una “normalizzazione dei loro rapporti”. Ma la reazione di Ankara, del suo Presidente e del suo ministro degli Esteri, è stata comprensibilmente dura e rabbiosa.

Nei fatti, però, la dichiarazione solenne di Biden va in un senso ben diverso dalla riconciliazione e dalla normalizzazione: interrompe quel faticoso tentativo di confronto – anche nel campo della ricerca storica – in atto fra Turchi e Armeni per calpestarlo e sentenziarne la fine, esacerbando le pulsioni nazionaliste degli estremisti dell’una e dell’altra parte.

Una recente, ragionevole dichiarazione pubblica di Erdoğan (“Con rispetto, ricordo gli Armeni ottomani che hanno perso la vita nelle dure condizioni della Prima Guerra Mondiale, ed estendo le mie condoglianze ai loro nipoti”) viene cancellata dalla “verità ufficiale” sancita da Washington, che interviene per eccitare gli animi: come sempre accade, specie nel Vicino Oriente.

Un altro attacco a Erdoğan il Presidente statunitense se l’era riservato in occasione dell’uscita della Turchia dalla cosiddetta Convenzione di Istanbul, ossia dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, in vigore dall’agosto 2014: una convenzione che la Turchia ritiene viziata da un orientamento ideologico ostile alla famiglia tradizionale sotto la veste del contrasto alla violenza.

Una scelta improvvisa e ingiustificata, mentre nel mondo assistiamo a un aumento dei casi di violenza domestica, comprese le notizie sull’aumento dei femminicidi in Turchia”, ha commentato Biden, che aveva già accusato Erdoğan di “autocrazia”, concetto che risulta essere del tutto assimilabile a quello di dittatura, anche se magari meno esplicito.

L’Unione Europea, come sua abitudine, si è adeguata all’accelerazione dei toni statunitensi: la commissione esteri del Parlamento europeo – per esempio – ha condannato Ankara per “le dichiarazioni provocatorie contro la UE e i suoi Stati membri, la politica ostile, l’allontanamento sempre più marcato dai valori e dagli standard europei, la continua incarcerazione di massa di giornalisti, difensori dei diritti umani e oppositori politici”; il ridicolo scandalo del sofà cui accennavamo in precedenza ha  poi rilanciato alla grande ogni motivo e pretesto di accusa contro il Paese della Mezzaluna.

Anche l’Italia, del resto, ha un ruolo nel fuoco di sbarramento antiturco – così come in quello antirusso e anticinese – ruolo testimoniato dal repentino attacco del Presidente del Consiglio Draghi al Presidente Erdoğan, definito nientemeno che “dittatore”, sulla scorta della continua, martellante campagna mediatica antiturca della grande stampa italiana.

Il ruolo italiano sembra quello indicato dal Segretario di Stato Blinken nell’incontro/convocazione del ministro degli Esteri Di Maio a Washington: una “forte collaborazione su Libia, Ucraina e Afghanistan”. “Italia e Stati Uniti condividono la preoccupazione per la presenza di forze straniere in Libia”, ha diligentemente confermato Di Maio, alludendo evidentemente a Turchia e Russia, considerati fastidiosi intrusi in un Paese che anche l’Italia ha contribuito a gettare nel caos più totale.

II

Tutto ciò prelude certamente a un ulteriore tentativo occidentale di cambio di regime in Turchia – stavolta magari per via elettorale, anziché tramite colpo di Stato militare – ma già da subito determina una forte pressione su Ankara[3], per indurla alla collaborazione nei confronti della politica estremista statunitense contro Russia, Cina e Iran[4].

Si diceva in precedenza dell’importanza degli scenari del Mediterraneo e del Mar Nero: se nel primo caso la punta di diamante della campagna di estromissione della Turchia è costituita dall’inedita alleanza Francia-Israele-Grecia (con il beneplacito esplicito dell’Unione Europea), nel secondo l’opzione di una “riabilitazione” turca è richiamata da Washington, sempre a suo agio nella politica della minaccia e della lusinga. In particolare gli statunitensi esigono in questa fase il passaggio delle loro navi da guerra – e ovviamente di quelle della NATO – attraverso gli Stretti (Bosforo, Dardanelli, Mar di Marmara) – verso il Mar Nero, zona cruciale in funzione antirussa; qui per l’estate è stata preannunciata la grande esercitazione USA-Ucraina- NATO Sea Breeze. Il ruolo attribuito alla Turchia dalla Convenzione di Montreux, che disciplina il passaggio attraverso gli “Stretti” è in questa prospettiva importante e decisivo.

Va riconosciuto che le relazioni fra Ankara e Kiev sono buone, ma a Washington questo non basta: nel contesto di un recente vertice del Consiglio di cooperazione turco-ucraino, Erdoğan ha infatti affermato che “Ankara è a favore di una rapida e pacifica risoluzione delle controversie presenti fra Russia e Ucraina per il tramite di negoziati”, al fine precipuo di “conservare la pace nel Mar Nero”.

Questa è una posizione piuttosto lontana da quella di Washington, che proprio non vuole sentir parlare di equidistanza tra Russia e Ucraina e cerca invece, come precisa il politologo e docente universitario turco Volkan Özmedir, di “favorire intenzionalmente l’aumento di queste tensioni, proseguendo una strategia che porti nuovamente dalla sua parte membri della NATO come Germania e Turchia[5].


NOTE

[1] Una oggettiva descrizione dell’evento, lontana dalle ipocrite rappresentazioni dei grandi media, in: Giuseppe Mancini, Il sofà della Von der Leyen: dietro lo scandalo inesistente c’è solo il protocollo, www.laluce.news 7 aprile 2021.

[2] In particolare per quanto riguarda gli Armeni di Turchia va tenuto conto di: Beraaa Gőktürk, Patriarche arménien de Turquie“L’exploitation de la douleur d’autrui nous attriste” www.aa.com.tr 23 aprile 2021. Il Patriarca Sahak Mashalian osserva che mettere la questione storica dell’asserito genocidio all’ordine del giorno di Parlamenti di altri Paesi “non serve al riavvicinamento di Armeni e Turchi, e anzi ne ritarda la riconciliazione”.

[3] Il 29 aprile il Segretario di Stato USA Blinken ha rincarato la dose preannunciando sanzioni in caso di un secondo acquisto dei sistemi difensivi S-400 di fabbricazione russa.

[4] Ma questo atteggiamento arrogante e semplicistico determina sempre più una diffusa insofferenza turca per le pretese occidentali e anche una maggiore consapevolezza storica e geopolitica. Citiamo per esempio Ibrahim Karagül su “Yeni Şafak” (il giornale più rappresentativo dell’area di governo) del 26 aprile 2021, il quale sottolinea che vi sono forze interne alla Turchia “a favore della tutela degli Stati Uniti e dell’Occidente sulla Turchia”. “Una tutela – spiega – richiesta fin dall’epoca ottomana dai liberali, dai conservatori e dagli islamisti filoamericani; gli Stati Uniti sono al centro dell’attacco alla Turchia (…) essi costituiscono uno Stato che si è affermato sul sangue di milioni di persone, che ha massacrato centinaia di migliaia di persone anche nel XXI secolo (…) ma non sono più al centro del mondo: stanno perdendo terreno nei confronti delle potenze emergenti del XXI secolo, e sono ai ferri corti con mezzo mondo, non hanno più credibilità (…) Gli Stati Uniti, l’Europa, Israele, tutte potenze disturbate e preoccupate per l’ascesa della Turchia, sostengono la battaglia (contro di essa) ancor più che con il tentato colpo di Stato del 2016”. Sempre su “Yeni Şafak” e negli stessi giorni Abdullah Muradoğlu afferma che “le false accuse di Biden contro la Turchia sono l’ultimo esempio di quanto sia vuota la comprensione del termine ‘alleato’ da parte degli Stati Uniti (…) Inutile dire che non c’era posto per una mentalità genocida nell’ordine stabilito dall’impero ottomano”; Muradoğlu riporta quindi dettagliatamente i precedenti della politica estera degli USA, in particolare i casi dei massacri della Seconda Guerra Mondiale, di Dresda e delle atomiche sul Giappone, per concludere che “gli Stati Uniti devono guardarsi allo specchio a lungo prima di predicare sul genocidio”.

[5] Su di ciò e sulle ricadute della Convenzione di Montreux (non sottoscritta dagli Stati Uniti) l’interessante Esperto turco: la Convenzione di Montreux ostacola gli USA nel Mar Nero, in www.it.sputniknews.com del 17 aprile 2021.


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Aldo Braccio ha collaborato con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” fin dal primo numero ed ha pubblicato diversi articoli sul relativo sito informatico. Le sue analisi riguardano prevalentemente la Turchia ed il mondo turcofono, temi sui quali ha tenuto relazioni al Master Mattei presso l'Università di Teramo e altrove. È autore dei saggi "La norma magica" (sui rapporti fra concezione del sacro, diritto e politica nell'antica Roma) e "Turchia ponte d’Eurasia" (sul ritorno del Paese della Mezzaluna sulla scena internazionale). Ha scritto diverse prefazioni ed ha pubblicato numerosi articoli su testate italiane ed estere. Ha preso parte all’VIII Forum italo-turco di Istanbul ed è stato più volte intervistato dalla radiotelevisione iraniana.