Orazio M. Gnerre, Materiali. Reinterpretare la Rivoluzione Conservatrice,
Editoriale Scientifica, Napoli 2021, pp. 122, € 14,00.

Uno dei mali della nostra epoca è indubbiamente il fatto che si scrivono troppi libri. Quantità immani di carta vengono sprecate per stampare testi che non possiedono alcun valore, non esprimono alcuna tesi di fondo, non assumono alcuna posizione, e si distinguono solo per contribuire a diffondere ulteriore confusione mentale in un momento storico in cui il carattere ansiogeno della nostra società è emerso con forza dirompente.

Questa raccolta di saggi sulla Konservative Revolution di Orazio Maria Gnerre (arricchita da un apparato fotografico di rilievo e quasi inedito) non rientra nella suddetta categoria e, nonostante la relativa brevità (altro valore ormai sconosciuto in questa parte del mondo in cui la prolissità viene erroneamente associata alla profondità), sostiene una tesi originale e per niente infondata: si può considerare la Rivoluzione Conservatrice tedesca come “scuola di pensiero” e dunque come una corrente specifica del pensiero politico? La risposta, secondo lo studioso campano, sembra essere affermativa.

Il merito di quest’opera (che si pone come naturale prosecuzione ed approfondimento del precedente Prima che il mondo fosse. Alle radici del decisionismo novecentesco, Mimesis 2018) è in primo luogo quello di indagare un fenomeno culturale (una “rivoluzione mancata”) che oggi è quasi ignorato nel suo stesso luogo d’origine e viene spesso interpretato con formule tanto semplicistiche quanto erronee. La Rivoluzione Conservatrice, al contrario, si presenta come una realtà filosofica estremamente complessa, differenziata e largamente indipendente dalle usuali associazioni con l’hitlerismo. Il rapporto con il nazionalsocialismo, infatti, per molti dei suoi esponenti fu piuttosto complesso ed ambiguo: dal completo rigetto di Ernst Niekisch al rapido passaggio dall’adesione alla disillusione di personalità come Martin Heidegger e Carl Schmitt, fino alle poco tenere parole che Oswald Spengler riservò nei confronti del Führer.

Ora, non si può comprendere il pensiero della Rivoluzione Conservatrice senza considerare il particolare contesto storico nel quale esso viene a crearsi. Tale contesto storico è quello che studiosi come Ernst Nolte (già studente di Heidegger) ed Eric Hobsbawm hanno definito nei termini di “guerra civile europea” o di “seconda guerra dei trent’anni” (trentuno per l’esattezza, 1914-1945). Una “guerra civile europea” nel corso della quale interviene anche una potenza extraeuropea, trasformando questo conflitto in uno “scontro tra civiltà” ante litteram, tra una presunta civiltà e la barbarie, andando ben oltre l’idea di Werner Sombart sulla contrapposizione tra la cultura eroica tedesca e quella mercantilista tipicamente anglosassone.

A questo proposito ci sono alcune importanti precisazioni da fare. L’idea di conservazione avanzata dagli esponenti della Rivoluzione Conservatrice non ha nulla a che fare con il conservatorismo liberale e moderato odierno, questo sì di origine anglosassone. Non ha nulla a che fare con l’idea infondata di un “capitalismo illuminato” del passato al quale bisognerebbe tendere per aggiustare le attuali distorsioni del sistema. L’idea di fondo della Rivoluzione Conservatrice è l’assoluta assonanza tra i termini “rivoluzione” e “conservazione”. Il rivoluzionario, in questo senso, è sempre un conservatore. È colui che conserva e protegge ciò che vale sempre ma che è stato nascosto. È colui che rilancia il valore che sta all’origine e che è stato allontanato e respinto dal trionfo dell’inautentico.

La Rivoluzione Conservatrice, in questo modo, si rivolgeva all’enorme platea del Mittelstand tedesco che abbracciava istanze sia rurali sia cittadine: un mondo eterogeneo legato dal profondo rigetto nei confronti del rapido ed aggressivo sviluppo del capitalismo in Germania, dal disprezzo antiliberale e dalla riscoperta dei miti eroici del passato riportati in auge dalla brutalità della guerra. Una guerra che da taluni venne interpretata proprio come una “crociata occidentale” per fare in modo che la stessa Germania divenisse “Occidente”.

La domanda che i pensatori tedeschi si ponevano nel momento del trionfo del caos informe del capitalismo era abbastanza chiara ed esplicita: cosa è necessario conservare? La risposta era altrettanto chiara: l’unica conservazione necessaria è quella antropologica. A loro modo di vedere era necessario (come lo è ancora oggi) restituire all’uomo la sua naturale dimensione: quella storica. A questo proposito le riflessioni di Ernst Jünger sull’uomo senza tempo come concreta manifestazione dell’età moderna sono emblematiche. Il vivere senza tempo è l’emblema della modernità titanica che divora i propri figli (si pensi al mito di Kronos). È l’emblema di una civiltà di schiavi (quella della tecnica) in cui l’uomo, privato della trascendenza, impiega il proprio tempo solo a produrre e consumare fino al momento della morte.

Il problema del titanismo della tecnica è centrale nel percorso teorico della Rivoluzione Conservatrice. L’uomo, di fatto, non riesce ad instaurare un rapporto libero con i prodotti della tecnica. La tecnica domina i ritmi dell’uomo; lo scardina dal suo ordine simbolico tradizionale; favorisce il crollo di ogni argine e lo inserisce in un mondo macchinale in cui la natura dell’essere umano è svilita dal sistema capitalistico al mero appetito. Non sorprende che sia stato il già citato Sombart (esponente di spicco di questa scuola di pensiero) a sviluppare un’analisi del capitalismo ben più esplicita di quella marxiana.

Qual è il solo modo per sfuggire all’alienante circolo vizioso del trionfo planetario del capitalismo? Quale istituzione può realmente conservare la natura autentica dell’uomo e restituire alla storia un valore umano? La risposta a queste domande, secondo Carl Schmitt, si ritrova nella riscoperta del mito concreto e dirompente dello Stato e della Nazione, al quale si associa la figura teologica del Katechon (il potere che frena): concetto che oggi viene sciaguratamente utilizzato proprio da taluni paladini di quel conservatorismo liberale apertamente disprezzato dai teorici della Rivoluzione Conservatrice. Il grande giurista tedesco, a questo proposito, elogiò profondamente la figura di Benito Mussolini, che, spezzando democrazia e sterile parlamentarismo, era riuscito a riscoprire il machiavelliano principio della realtà politica. Mantenere e riaffermare la dignità dello Stato nel contesto dello “scontro tra civiltà” della guerra civile europea (e dell’organizzazione capitalistica del mondo che ha nella crisi permanente la sua stessa natura) equivaleva a difendere la sua sovranità (dunque, secondo Thomas Hobbes, la sua stessa anima) dalla totale privatizzazione ed omologazione. Schmitt, come noto, individuò nel nazionalsocialismo una delle forme politiche attraverso cui si sarebbe potuta affermare la visione del mondo rivoluzionario-conservatrice. Tuttavia dovette rapidamente scontrarsi con la realtà di un’ideologia che poneva lo Stato come un mezzo (e non come il fine) per la difesa e l’incremento di una comunità di stirpe retta da ben precisi valori morali. Heidegger invece, prima di andare anch’egli incontro ad una delusione, lo percepì come lo strumento per il superamento del diritto romano e l’affermazione di un diritto tedesco puramente spirituale forgiato sul ritorno all’istante premetafisico della prima grecità. E di esso apprezzò l’iniziale “sconvolgimento della vita nazionale” in nome dell’instaurazione di un sistema che individuava nella responsabilità della decisione il principio fondante dell’azione politica.

Paradossalmente, si potrebbe quasi affermare che nella Cina contemporanea il pensiero schmittiano stia conoscendo una fortuna maggiore che nella Germania degli anni ‘30. Nella Repubblica Popolare, infatti, la comunità di stirpe assume (secondo un principio staliniano) un valore secondario, essendo la Cina un “recipiente” di cinquantasei differenti nazionalità. E qui il Partito diviene il mezzo per il conseguimento di un fine preciso: la salvaguardia e tutela della prosperità indivisibile dello Stato nell’era della “guerra civile mondiale” (ovvero, nel momento in cui le potenze emergenti minacciano il sistema globale omologante americanocentrico).

Questa poco ortodossa associazione tra il pensiero della Rivoluzione Conservatrice e la Cina contemporanea riporta ai saggi di Orazio M. Gnerre, il quale non si si esime dall’esaminare similitudini e dissonanze tra i vari Jünger, Heidegger, Schmitt, Sombart e Karl Marx. Appare infatti evidente come i primi si pongano in antitesi con quest’ultimo, pur utilizzando e sviluppando ulteriormente alcune sue categorie. Si è detto di Sombart e del concetto di capitalismo. Sarà utile ricordare che anche per Marx la società borghese-capitalistica mancava di eroismo e che fu lo stesso filosofo di Treviri ad avvertire la minaccia che i prodotti della modernizzazione tecnica esercitano contro la natura dell’uomo.

Fu Carl Schmitt ad affermare che, grazie al bolscevismo (soprattutto nella sua corrente staliniana), Hegel stava conoscendo una seconda vita a Mosca. E proprio Stalin fu capace di esercitare un fascino misterioso su Adolf Hitler. Non a caso, il nazionalsocialismo tedesco venne definito come una sorta di antibolscevismo bolscevico. Albert Speer, nelle sue Memorie del Terzo Reich, ricorda che Ribbentrop, al suo ritorno da Mosca, dichiarò di essersi sentito tra i bolscevichi come tra vecchi compagni di Partito.


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.


 

Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).