1. Il primo numero di “Eurasia. Rivista di studi geopolitica” contiene un “dossario” dedicato alla Turchia che ha provocato vivaci discussioni in Italia e altrove. Robert Steuckers, intervenendo in una discussione di cui si può trovare traccia sul sito informatico della rivista suddetta (www.eurasia-rivista.org), scrive:

“Il professor Mutti avanza una quantità di altre argomentazioni storiche inconfutabili, specialmente quando dice che i Turchi non sono i soli non ‘indoeuropei’ nell’UE, per cui, se si respingono i Turchi in quanto ‘uralo-altaici’, bisognerebbe espellere gli Ungheresi, che lo sono anche loro, così come gli ‘Ugrofinni’, che sono gli Estoni e i Finlandesi”.

A dir la verità, io non ho detto affatto che i Turchi sono “uralo-altaici”, per il fatto che, se mai, sotto il profilo linguistico i Turchi sono semplicemente “altaici”; né ho ristretto agli Estoni ed ai Finlandesi la presenza ugrofinnica in Europa. Ma questi sono particolari ininfluenti. Quello che interessa è invece il criterio invocato da Steuckers al fine di riconoscere agli Ungheresi la qualifica di Europei e negarla invece ai Turchi. Scrive Steuckers: “Egli (cioè Mutti, n.d.r.) dimentica di ricordare il Giuramento di Santo Stefano, col quale gli Ungheresi si sono impegnati a difendere l’Europa contro tutte le future incursioni ‘uralo-altaiche’ provenienti dalla steppa dopo la loro sconfitta a Lechfeld nel 955. Egli dimentica anche che i Turchi hanno rifiutato di prestare un analogo giuramento dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, quando Papa Pio II lo aveva loro proposto. La Turchia ha dunque scelto il suo campo. E ciò rende impossibile che essa aderisca all’Europa senza dolo”.

Steuckers invece dimentica di dire che Pio II, nella lettera da lui inviata nel 1469 a Mehmed il Conquistatore, non chiedeva affatto al Sultano di “difendere l’Europa”, ma lo riconosceva “imperatore dei Greci” de facto, in quanto successore dei basileis di Bisanzio e degli imperatori di Roma: “Fuerunt Itali rerum domini, nunc Turchorum inchoatur imperium”. Papa Enea Silvio Piccolomini proponeva quindi al Conquistatore di trasformare la situazione de facto in uno stato de jure, facendosi nominare da lui “imperatore dei Greci e dell’Oriente” mediante… “un pochino d’acqua (aquae pauxillum)”. Ma, se il principe magiaro Vajk si era fatto battezzare col nome di Stefano e aveva ricevuto da Papa Silvestro II la corona regale, Mehmed invece rimase Mehmed e trasmise ai suoi successori quell’autorità imperiale che gli era toccata per effetto dell’ordalia del maggio1453. A quanto risulta, tale autorità venne riconosciuta dall’Europa in maniera esplicita e ufficiale, fin dagli anni immediatamente successivi alla conquista di Costantinopoli. Secondo la Repubblica di Venezia, infatti, Mehmed II era imperatore di Costantinopoli, e quindi gli spettavano di diritto tutti i territori dell’impero bizantino, comprese le vecchie colonie greche della Puglia (Brindisi, Taranto e Otranto). Per quanto riguarda Firenze, Lorenzo il Magnifico fece coniare una medaglia sulla quale, accanto all’immagine del Conquistatore, si poteva leggere: “Mahumet, Asie ac Trapesunzis Magneque Gretie Imperat(or)”; dove per Magna Gretia si doveva intendere Bisanzio col suo vasto retroterra europeo. Altre due medaglie, che parlavano anch’esse un linguaggio inequivocabile per quanto concerne il carattere romano rivestito dall’imperium ottomano, furono fatte coniare nel 1481 da Ferrante d’Aragona; le iscrizioni qualificavano Mehmed II come “Asie et Gretie imperator” e “Bizantii imperator”. La scelta di campo dei Turchi era dunque chiara agli occhi dei contemporanei. Ma non era quella che dice Steuckers: si trattava infatti di una scelta di campo che faceva dell’Impero ottomano una grande sintesi eurasiatica. E quindi una potenza europea, come riconobbero ufficialmente nel congresso di Parigi del 1856, sia pure con qualche secolo di ritardo, le altre potenze europee.

Quanto alla difesa dell’Europa, non furono certo le potenze cristiane a difenderla dai Mongoli. Furono invece le milizie turche dei Mamelucchi, che nel 1260 respinsero a Ain Gialud la nuova invasione.

2. Ernesto Milá, alle contestazioni del quale abbiamo già avuto modo di replicare, ritorna alla carica con una Segunda respuesta a Claudio Mutti, pubblicata sul suo sito informatico personale (infoKrisis). Siccome credevamo di aver individuato, alla base delle sue argomentazioni, un apriorismo ideologico che ci sembrava coincidere con la tesi dello “scontro di civiltà” preconizzato dai teorici della Casa Bianca, Milá obietta che in realtà è “l’attuale mondo islamico”, dal quale procedono le minacce contro l’Europa, ad essere schierato dalla parte di Washington. Basti vedere, dice Milá, come “l’immensa maggioranza dei paesi arabi abbia un orientamento filoamericano”, anche se “è possibile (sic, n.d.r.) che vi siano movimenti popolari fortemente antiamericani”.

L’infondatezza di questa obiezione è evidente, per almeno tre motivi. Primo: perché il mondo arabo è meno di una quinta parte del mondo islamico, e quindi non è possibile stabilire una coincidenza tra le due aree. Secondo, perché l’orientamento filoamericano (sia nei paesi arabi che nei paesi musulmani non arabi) riguarda se mai le classi dirigenti, ma non i popoli. O sono filoamericani anche il popolo iracheno e il popolo palestinese? Terzo, perché non tutti i governi dei paesi musulmani (arabi e non arabi) sono filoamericani: in cima alla lista dei “paesi canaglia” ci sono infatti l’Iran, la Siria e il Sudan.

La curiosa teoria secondo cui l’Islam sarebbe uno strumento degli USA ha una fonte ben precisa, che Milá non evita di menzionare. Si tratta di quelle tesi che Alexandre Del Valle ha elaborate alcuni anni fa e ha diffuse negli ambienti della destra francofona (e non solo), riuscendo a convertire all’occidentalismo alcuni intellettuali che precedentemente avevano erano schierati sulle posizioni europeiste e antiamericane di Alain De Benoist (Cfr. Tahir de la Nive, Les Croisés de l’Oncle Sam, Avatar éd., Paris 2003). L’evoluzione di Del Valle (e, di riflesso, dei suoi allievi) è stata sinteticamente spiegata da Christian Bouchet, che in una recente intervista ha dichiarato: “Alexandre Del Valle ha scelto in maniera chiara e netta, coerentemente col suo antislamismo idrofobo, di attestarsi su posizioni di filosionismo militante. Non invento nulla: ci si può riferire ai testi che egli ha pubblicato sul ‘Figaro’ dell’11 aprile 2001, nel quindicinale ‘Le Lien Israel-Diaspora’, pubblicato dagli elementi più estremisti della comunità ebraica in Francia, o sul sito informatico vicino al Likud ‘Les Amis d’Israel’ (www.amisraelhai.org)”.

2. Ernesto Milá, però, quando si tratta di designare il nemico, non concorda con la dottrina ufficiale statunitense. “Gli USA – dice – hanno indicato come nemico il terrorismo islamico, non il mondo islamico. (…) Io non sto dicendo la medesima cosa: io parlo del mondo islamico, gli USA parlano del ‘terrorismo'”. Il nemico principale dell’Europa deve dunque essere individuato nell’Islam, che nella percezione di Milá sarebbe “una dottrina superstiziosa, ostile, senza nessuna profondità e nessun valore al di là del culto esteriore del formalismo più grossolano”. Questo, almeno, è l’Islam che Mila conosce: “ho potuto conoscere bene il mondo islamico”, afferma. Dove? In un paese musulmano? Nella moschea di Barcellona? No, Milá ha “potuto conoscere bene il mondo islamico in diverse carceri”, in particolare alla Santé di Parigi.

Anch’io ho avuto modo di frequentare diverse carceri e di conoscere parecchi affiliati della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta e della Corona Unita, i quali partecipavano devotamente alla messa domenicale; ma non per questo ritengo di aver potuto conoscere il cristianesimo a San Vittore, a Rebibbia e in altri istituti analoghi.

Quei particolari gruppi “fondamentalisti” che Milá identifica tout court con la comunità musulmana europea sono in realtà “sette pseudoislamiche, (…) eresie dottrinali che introducono nell’Islam tradizionale innovazioni non meno gravi di quelle che cercano di introdurvi i cosiddetti modernisti islamici”. In tali termini si è espresso ufficialmente lo Sheik-ul-Islam Talghat Tajuddin, supremo muftì, nonché rappresentante del Consiglio Centrale dei Musulmani per la Russia e i paesi dell’Est europeo della CSI. Abbiamo voluto citare le parole di questa autorevole personalità dell’Islam europeo perché Milá, mentre si dichiara nettamente contrario alla presenza di comunità musulmane in Europa, vede con favore un’alleanza dell’Europa con la Russia. Legga allora quello che scrive Aleksej Malashenko circa la situazione dell’Islam nella Federazione Russa: “i musulmani censiti nel 2003 sono quattordici milioni e mezzo; ma stime ufficiose, talvolta echeggiate dallo stesso presidente Vladimir Putin, optano per un totale di venti milioni” (“Limes”, 1, 2004, p. 229), ossia più di quanti ce ne siano in paesi arabi quali la Tunisia, la Libia, la Giordania o la Siria. Era logico, perciò, che la Federazione Russa chiedesse, come ha fatto recentemente, di aderire alla Conferenza Islamica.

3. All’inizio di questo scambio di idee, mi è capitato di dover correggere alcuni dati storici inesatti sui quali Milá fondava le sue argomentazioni. Milá obietta che si tratta di particolari secondari, i quali richiedono una competenza specifica “o la rilettura di testi non proprio brevi, come quello di Runciman”. (Anche se il Runciman che io avevo citato non era quello della Storia delle Crociate di millecinquecento pagine, bensì quello molto più breve della Caduta di Costantinopoli; ma non fa niente). All’attenzione per i “piccoli episodi” Milá contrappone quella per i “grandi vettori della storia”, poi però non cede alla tentazione di menzionare alcuni episodi che ai suoi occhi rivestono un pregnante valore simbolico e rappresentano le linee della macrostoria. Purtroppo, però, non lo fa in maniera ineccepibile, almeno in un paio di casi.

Infatti, per dimostrare che la civiltà bizantina e l’Ortodossia scomparvero dall’Impero Romano d’Oriente (che Milà si ostina a voler annettere all'”Occidente”), egli sceglie come fatto emblematico la trasformazione di Santa Sofia in moschea e sostiene che “oggi Santa Sofia è una moschea”. In questo primo caso l’errore di Milá è duplice. Primo, perché Santa Sofia non è più una moschea, in quanto Atatürk (l’eponimo di quel kemalismo che Milá apprezza in quanto avrebbe “temperato” l’Islam) la trasformò in museo, e tale essa è ancora oggi. Secondo, perché dopo il 1453 la civiltà bizantina non scomparve affatto: “il dominio ottomano non significava altro che una nuova Bisanzio, con un altro carattere religioso per la dinastia e per l’esercito”. Così scrive Nicolae Iorga (Byzance après Byzance, Paris 1992, p. 48), il quale ha individuato nella “Roma musulmana dei Turchi”, ossia nell’Impero ottomano, “l’ultima ipostasi di Roma”, così come Arnold Toynbee (A Study of History, London 1948, vol. XII, p. 158) ha potuto parlare di “un Impero romano turco-musulmano” e Franz Babinger (Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Torino 1967, p. 470) ha potuto scrivere: “Pareva veramente che al tempo del Conquistatore fosse tornata la sicurezza bizantina del glorioso passato, la pax Romana, e che tutti potessero goderne”.

Un analogo errore di Milá consiste nel parlare della “pulizia etnica” come di una pratica islamica, che sarebbe stata applicata, secondo lui, anche in Spagna, anche se non si può negare, aggiunge, che “alcuni nobili visigoti furono tenuti in considerazione”. Solo alcuni? Un autorevole studioso della Spagna musulmana fa notare che da un’antenata di Ibn al-Qûtiyyah, storico cordovano discendente dal penultimo re visigoto, Vitiza, trassero origine alcune delle più cospicue famiglie dell’aristocrazia ispano-musulmana; e, prosegue, “non diverso fu il caso dei più illustri magnati della Spagna islamica. Gli antenati di sesso maschile erano arabi o siriani, le antenate erano spagnole” (Claudio Sánchez-Albornoz, La España musulmana, Madrid 1978, p. 82). Pulizia etnica? Il medesimo studioso scrive: “I musulmani della Spagna, se discendenti di convertiti alla religione dei conquistatori, erano Spagnoli puri; altrimenti, per via dei frequenti incroci, prevaleva nelle loro vene l’antico sangue ispanico” (ibidem). Stando alla storia, dunque, la realtà è un po’ diversa dalla rappresentazione che ci viene fornita da Milá.

4. Riconosco a Milá un notevole grado di onestà intellettuale, in quanto ha riveduto e corretto alcune incaute affermazioni che gli erano sfuggite in un primo momento. Per quanto riguarda il tema principale, “il tema della Turchia e dell’inopportunità del suo ingresso nell’UE”, egli ribadisce invece le proprie posizioni. Siccome non voglio ripetere ciò che è già stato ampiamente argomentato sia nei miei interventi precedenti sia nel numero di “Eurasia” che ha dato origine alla discussione, mi limito a segnalare a Milá un paio di interventi sulla questione.

Il primo è un’intervista di Jörg Haider apparsa su “Der Standard” del 9 ottobre 2004. La giornalista, Elisabeth Steiner, chiede: “Lei è favorevole a un ingresso a pieno titolo della Turchia nell’UE?”. Risposta di Haider: “Far entrare la Turchia come associata a pieno titolo può essere solo nel nostro interesse”. Le ragioni addotte da Haider sono le seguenti: “Primo, perché si tratta di una questione di sicurezza per l’Europa. Secondo, perché i rifornimenti di petrolio e di gas naturali dal Caucaso o dalla regione araba possono arrivare in Europa solo attraverso la Turchia, altrimenti saremo dipendenti dal neocolonialismo statunitense. Terzo, perché nella regione anatomica c’è la culla della cultura europea. La nostra filosofia, la nostra musica, la nostra matematica hanno avuto origine in Asia Minore, giungendo in Europa attraverso i Greci”.

Il secondo intervento è quello di un deputato del gruppo Rodina alla Duma di Mosca, Shamil Sultanov, già redattore di un quindicinale (“Den'”, diretto da Aleksandr Prokhanov), che diffuse in Russia le tesi di Jean Thiriart. In un’intervista rilasciata ad “Eurasia” (che sarà pubblicata sul secondo numero della rivista) Sultanov dichiara: “L’asso nella manica della Germania in questa regione (nel Vicino Oriente, n.d.r.) è il suo tradizionale rapporto con la Turchia e, in particolare, la presenza di una numerosa comunità turca in Germania”.

A quanto pare, sia a Vienna sia a Mosca c’è chi prevede che un eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea porterà Ankara ad allinearsi con quei paesi (Germania ed Austria) che hanno con essa un rapporto privilegiato. E ciò non sarebbe certamente un guadagno per la nuova Cartagine.


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).