La sospensione dell’incontro calcistico tra Serbia e Albania sembra aver inaugurato una nuova stagione di gelo diplomatico tra i due rispettivi Paesi, nonostante nei mesi precedenti un effimero ritorno alla stabilizzazione dei rapporti politici aveva lasciato ben sperare l’intera comunità europea. Gli incidenti allo stadio di Belgrado hanno infatti prorogato la visita ufficiale, la prima dal 1948, del premier albanese Rama con il suo alter ego serbo Aleksandar Vučić.

Il drone, che ha sorvolato lo Stadion Partizana inneggiando un ritorno all’Albania, potrebbe essere stato pilotato da attivisti vicini ai movimenti di Kreshik Spahiu o Sali Berisha, i due leader del nazionalismo albanese che hanno promosso lo scorso anno dei referendum per l’annessione delle storiche parti balcaniche tutt’oggi a maggioranza albanese, soprattutto quelle presenti nella regione del Kosovo. Le rassicurazioni del premier Rama hanno però confermato l’assenza di qualsiasi progetto politico di “Grande Albania” poiché proprio Tirana, insieme agli altri due paesi confinanti Macedonia e Montenegro, ha già riconosciuto l’indipendenza del Kosovo subito dopo la sua dichiarazione del 2008.

Al di là dell’evento sportivo, le incomprensioni tra Serbia ed Albania celano argomenti politicamente ben più rilevanti ed oggi non solamente dipendenti dal consueto nazionalismo etnico che in passato si è manifestato anche al di fuori della sfera storica o politica.

A distanza di anni, infatti, una delle sfide più importanti tra i due rispettivi Paesi dei Balcani è la palese volontà di imporsi sull’apatico scenario che si sta evolvendo in Kosovo, terra storicamente e culturalmente legata alla Serbia, ma a maggioranza etnica albanese. Sempre la Serbia, coinvolta principalmente nelle vicende kosovare, ha negli ultimi mesi migliorato le proprie strategie di collaborazione con Priština rispetto al passato. Anche l’Alto Commissario europeo Catherine Ashton si è congratulata per i positivi risultati raggiunti.
Oggi il Kosovo rappresenta, non solo per Serbia e Albania, ma soprattutto per il proprio futuro, una delle sfide più importanti nei Balcani occidentali e non solo.

Gli avvenimenti che dopo la conclusione delle elezioni, da oltre cinque mesi, tengono in stallo i lavori parlamentati dell’Assemblea kosovara, per l’incapacità di eleggere il Presidente dello stesso Parlamento, sembrano confermare le convinzioni della Serbia in merito alla non comprovata legittimità politica e reale indipendenza di Priština e del suo governo. Belgrado non ha mai riconosciuto infatti la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, continuando a considerare tale regione come una propria provincia autonoma annessa ai suoi stessi confini nazionali.

Mentre l’attuale Presidente dell’Assemblea, Atifete Jahiaga, non esclude la possibilità di nuove elezioni, appellandosi all’art. 84 della Costituzione, l’ultima sentenza della Corte Costituzionale sembra sottolineare le carenze di un sistema politico nel suo sistema di funzionamento politico interno. Infatti, se da un parte la sentenza ha sancito la possibilità della maggioranza neoeletta di scegliere un Presidente legato al proprio gruppo parlamentare, dall’altra è impossibile non rilevare una grave discrasia nei rapporti istituzionali tra lo stesso sistema politico e quello giuridico. Oltre ad non esservi alcuna previsione costituzionale riguardante la mancata elezione del Presidente, che quindi non bloccherebbe i lavori dell’Assemblea stessa, l’estrema scelta di nuove elezioni dissolverebbe un parlamento eletto dai cittadini e disfatto solo perché composto da parlamentari non in grado di comportarsi nel modo auspicato.

Forse dal 18 febbraio 2008, data della dichiarazione unilaterale di indipendenza nei confronti di Belgrado, le autorità kosovare non hanno mai affrontato una crisi così forte del proprio sistema politico. Sebbene la comunità internazionale osserva inerte gli ultimi sviluppi in Kosovo, la stessa Assemblea è tutt’oggi un´istituzione di autogoverno amministrata dallo United Nations Interim Administration in Kosovo (UNMIK).
La presenza delle Nato in Kosovo non è mai stata legittimata da Belgrado che ne ha sempre denunciato, fin dal biennio 1998-99, l’ingerenza all’interno dei propri confini nazionali. In quell’occasione, nonostante la presenza dei caschi blu delle Nazioni Unite, la conferma di crimini efferati contro la minoranza serba al nord del Kosovo, eseguita dall’organizzazione terroristica dell’Esercito di Liberazione del Kosovo Albanese (UÇK), è rimasta una ferita aperta in Serbia.

Gli stessi requisiti di indipendenza del Kosovo vengono attualmente riconosciuti come casi emblematici non solo dalle istituzioni o dal popolo serbo, ma anche dalla dottrina del diritto internazionale. L’ex madre patria kosovara, non riconoscendo a Priština alcuna legittima politica, contestandone  in modo persistente  e  inequivocabile l’indipendenza stessa, ha condotto nel luglio 2010 la Corte internazionale dell’Aja ad esprimersi in modo favorevole al ricorso contro la stessa dichiarazione di indipendenza kosovara definita dai giudici «non illegale» ma nemmeno «legittima». Tale sentenza è stata ultimamente ribadita dalle parole del Commissario all’allargamento dell’Unione Europea, Stefan Fuele, che non ha imposto alla Serbia alcun obbligo di riconoscimento del Kosovo soprattutto dopo le ultime tensioni avvenute con l’Albania e lo stallo del Parlamento di Priština.
Sebbene tutto ciò sia un ulteriore conferma dell’incapacità politica delle istituzioni kosovare, proprio
l’attuale scenario non appare essere sottovalutato da Belgrado.

Il ritorno ad un Kosovo nuovamente serbo appare al momento quasi impossibile da realizzare; ma, viste l’inerzia della comunità internazionale e le critiche del senatore statunitense Christopher Murphy durante l’ultima visita proprio in Serbia, Belgrado potrebbe verosimilmente sostituirsi nel ruolo di partner regionale. La popolazione serba presente in Kosovo, maggioritaria nei distretti di Leposavic, Zvecan, Zubin Potok al nord e Strpce al sud, non preoccupa al momento le strategie di Belgrado.

Anche le sanzioni commerciali imposte a Mosca, conseguenti la crisi in Ucraina e la guerra civile in atto in Crimea, stanno giocando un ruolo fondamentale nel triangolo Belgrado-Priština-Tirana.
Lo scorso settembre il Kosovo, insieme a Macedonia e Montenegro, ha ufficializzato la propria favorevole posizione alle sanzioni contro Mosca, in linea con la politica dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America. Ciò che ha spinto le istituzioni kosovare a tale decisione è la comparazione, nonostante le abissali e molte differenze, tra lo scenario che si sta definendo in Crimea e gli avvenimenti accaduti tra Priština e Belgrado prima della dichiarazione del febbraio 2008. La Serbia, invece, appare l’unico Paese dei “Balcani occidentali” a non approvare le sanzione contro Mosca ed appoggiare la politica di Putin nel suo Paese ed in tutta la Federazione Russa.

Dopo le irrilevanti relazioni tra i due Paesi tra il 2000 ed il 2003, le sanzioni contro Mosca sembrano essere diventate la giusta chiave per una nuova e salda cooperazione tra Putin e Aleksandar Vučić, capace di trasformare una storica vicinanza politico-culturale in un forte legame sia sul piano economico che soprattutto geopolitico. All’interno di tale area, la posizione della Serbia in merito agli avvicendamenti di Priština è migliore rispetto a quella albanese.

Il presidente Putin non ha mai negato, ma l’ha sostenuta, la vicinanza tra il popolo russo e quello serbo, mantenendo salde le proprie idee sul non riconoscimento del Kosovo come Stato indipendente. L’assenza di qualsiasi tipo di relazione diplomatica o dialogo tra Mosca e Priština conferma ulteriormente la chiara posizione russa a sostegno di Belgrado.


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