Il debito pubblico italiano, nonostante la “cura Monti”, il “commissario tecnico” imposto al nostro Paese dai “mercati” e dalla Bce, “vola” ormai oltre il 130% del Pil, che quest’anno dovrebbe diminuire dell’1,9%. Ovvio pertanto che Standard & Poor’s abbia abbassato pochi giorni fa il rating di lungo termine dell’Italia, da BBB+ a BBB, con outlook negativo. Il che ha indotto il ministro dell’Economia e delle Finanze, Fabrizio Saccomanni, ad affermare che per ridurre il debito pubblico il Tesoro potrebbe decidere di vendere quote di società pubbliche – incluse Eni, Enel e Finmeccanica – o usare gli asset come collaterali. «Queste società – ha detto Saccomanni, che si trovava a Mosca per il G20 dei ministri finanziari – sono profittevoli e danno dividendi al Tesoro, quindi dobbiamo considerare anche la possibilità di utilizzarle come collaterale per gli schemi di riduzione del debito pubblico su cui stiamo ragionando. Ci sono una serie di ipotesi che stiamo prendendo in considerazione». (1) Come a dire che sarebbe necessario tagliarsi le gambe per poter correre più velocemente! Subito dopo è arrivata la solita smentita, che fa temere che la decisione di vendere sia stata già presa. Evidentemente non ha insegnato nulla la vendita delle nostre principali imprese pubbliche negli anni Novanta – anche allora motivata con la necessità di ridurre il debito pubblico, ma con i risultati disastrosi noti a chiunque – , tanto che Saccomanni, sempre secondo “Il Sole 24 Ore”, ha sostenuto che la vendita di quote delle nostre ultime imprese strategiche sarebbe «una delle nostre iniziative strategiche chiave»(sic!) per ridurre il debito e favorire la crescita.

Orbene, sia o non sia credibile la smentita di Saccomanni, non solo ormai si sa che il problema del debito pubblico dipende in gran parte dal fatto che non vi è alcuna “unione politica europea” (è palese infatti che l’andamento dello spread dipenda in gran parte dalla debolezza e dal rischio di disintegrazione di Eurolandia), ma che tale problema è diventato ancora più grave con l’introduzione dell’euro, in quanto la moneta europea ha enormemente accentuato gli squilibri tra il Nord e il Sud dell’Europa – squilibri, tra l’altro, che le stesse politiche di austerity non riducono ma accrescono. Non meraviglia affatto quindi che il presidente della Svimez, Adriano Giannola, abbia dichiarato: «Noi calcoliamo che nel 2013 ci sarà una caduta del prodotto interno lordo di circa il 2% e il Sud rischia di continuare ad esser più rapido in questa caduta con circa il 2,5%, quasi il 3% se va bene. Stiamo strutturalmente messi peggio rispetto a come ci raccontano. Molto peggio. Non si capisce che noi stiamo precipitando senza paracadute se si continua di questo passo. In meno di 10 anni, in questi ultimi due-tre anni, gli investimenti industriali sono caduti del 50% [e] un Paese che distrugge la base produttiva non ha destini rosei all’orizzonte». (2)

Facile quindi capire quali potrebbero essere le conseguenze derivanti dalle “iniziative strategiche” di Saccomanni e dei suoi colleghi di governo. Più difficile credere che nessuno di loro comprenda qual è la reale situazione in cui si trova l’Italia, che rischia di trasformarsi in un Paese “in via di sottosviluppo”, cedendo continuamente “quote di sovranità” non all’Europa, ma ai tecnocrati di Bruxelles e alla Bce. Ossia a dei centri di potere che tutelano determinati interessi, che non sono certo quelli della stragrande maggioranza degli italiani. Peraltro, prendendo in considerazione le “scelte strategiche” della nostra classe dirigente in questi ultimi due decenni, Roberto Buffagni ha giustamente ricordato che, pur con tutti i difetti e i limiti che aveva, la classe dirigente della Prima Repubblica «nel contesto di Yalta, cercava comunque di conservare un margine di sovranità (e infatti aveva, per esempio, una politica mediterranea rispondente agli interessi nazionali); e disponeva di strumenti di politica economica e monetaria. Poi, certo, faceva la cresta sulla spesa: però la spesa la portava a casa. Dopo il lancio delle monetine e la moralizzazione della vita politica nazionale, abbiamo un’Italia a) più debole b) più asservita a potenze straniere c) più corrotta d) più povera e) più oligarchica: e che dopo aver svenduto, nel corso di Mani Pulite, buona parte delle industrie pubbliche italiane, si prepara adesso, in questa operazione Mani Pulite 2, a svendere anche l’Eni». (3)

Posizioni non dissimili da quelle di Gianfranco La Grassa (uno dei primi, se non addirittura il primo insieme con Costanzo Preve, a “svelare” il significato politico di Mani Pulite, che Buffagni definisce «una delle operazioni più sporche dell’intera storia italiana» – ,(4) il quale nel 2009 scriveva che la sinistra «non farebbe un metro, sarebbe già stata distrutta dal “crollo del muro”, se dietro non ci fosse (fin dal 1992-93) una finanza di emeriti parassiti (come ricordo spesso: weimariana, cioè testa di ponte della finanza e politica statunitense) e l’industria decotta tipo Fiat, che dovrebbe essere fallita da anni, ma sopravvive appunto come i parassiti, dandosi agli Usa e adattandosi alle loro vecchie e nuove strategie di predominio». (5) E a La Grassa si deve pure il merito di aver elaborato un impianto teorico assai flessibile, che può essere sviluppato in diverse direzioni, ma che offre alcune delle chiavi strategiche essenziali per comprendere i processi reali che “regolano” i conflitti sociali, economici e (geo)politici in una fase storica contraddistinta dal declino relativo della potenza capitalistica  predominante, vale a dire una fase storica contrassegnata dalla fine dell’unipolarismo statunitense e dalla nascita di un sistema che tende ad evolversi “in senso multipolare” (benché si debba ammettere che si è ben lungi dal poter impedire quella geopolitica del caos su cui si basa tuttora la strategia statunitense). Si tratta di un mutamento geopolitico fondamentale (successivo – non lo si deve dimenticare – a due eventi epocali come la disintegrazione dell’Unione Sovietica e la riunificazione della Germania) e che si deve sempre tener presente, se non ci si vuole limitare a vedere i singoli alberi senza vedere il bosco.

E’ necessario dunque abbandonare definitivamente qualsiasi ottica di tipo economicistico, secondo la lezione di La Grassa che ha messo in luce la funzione eminentemente politica dell’economico, altrimenti le scelte e i comportamenti della “classe politica” italiana risultano del tutto incomprensibili. D’altra parte, è la totale subordinazione del nostro Paese alla volontà d’oltreoceano a dimostrare che l’interesse principale della nostra classe dirigente è quello di salvare sé stessa (nonché i ceti sociali più abbienti che rappresenta), sacrificando ogni interesse nazionale per garantire l’obiettivo principale dei circoli atlantisti, che ovviamente consiste nel saldare la Germania all’Atlantico evitando al tempo stesso sia che si possa formare un autentico polo geopolitico europeo sia che i Paesi dell’Europa meridionale possano cercare di riguadagnare la propria sovranità (in primo luogo geostrategica e geoeconomica). Sotto questo aspetto, trova pure la sua ragion d’essere la proposta di creare un mercato transatlantico, che consentirebbe agli Stati Uniti di  non perdere la “posizione dominante” confrontandosi con un molteplicità di appetiti, egoismi e interessi in contrasto tra di loro. Una proposta che è pure inconciliabile con quei luoghi comuni della peggiore retorica “europeista” con cui politici e giornalisti “embedded” cercano di giustificare la cancellazione dei diritti sociali ed economici di decine di milioni di europei. Comunque sia, al di là dei dubbi e certamente “minori” vantaggi economici (perlomeno per i Paesi europei più deboli), è logico che un siffatto mercato sarebbe fondato sulla supremazia del diritto statunitense, come prova il “caso Snowden” che dovrebbe chiarire anche ai sordi e ai ciechi quali sono gli effettivi rapporti di forza tra gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione Europea.

Con tutto ciò, non si deve giustificare nessuna visione semplicistica delle relazioni politiche tra i Paesi europei e gli Stati Uniti. Non è questione né di complotti né necessariamente di operazioni colorate. D’altronde, non pare nemmeno che sia necessario. Basta pensare alla vicenda grottesca degli F-35 (voluti ad “ogni costo”, trascurando non solo che il know-how di questi aerei, che non servono alla difesa nazionale, rimarrà saldamente nelle mani degli angloamericani, ma che l’Italia partecipa alla produzione dell’Eurofighter, un caccia europeo in grado di svolgere anche il ruolo di cacciabombardiere – ma si sa che l’Europa per la stragrande maggioranza dei nostri politici e giornalisti è solo un’appendice degli Stati Uniti) (6) o a quella dell’ex capocentro della Cia a Milano, Robert Seldom Lady (condannato dalla magistratura italiana per il rapimento di Abu Omar, ma già al sicuro negli Stati Uniti).

Due vicende che gettano ulteriore luce (casomai fosse necessario) sul grado di asservimento dell’Italia agli interessi d’oltreoceano, benché in qualche modo entrambe le vicende siano già state “coperte” dal “caso Ablyazov”. Al riguardo, quasi a confermare quel disordine mentale e quella “deriva intellettiva” che caratterizzano il nostro Paese, (7) è significativo che il parlamentare pentastellato Alessandro Di Battista abbia scritto: «Ho avuto negli ultimi giorni diversi incontri privati con numerosi Ambasciatori. Tutti quanti ragazzi, tutti quanti, mi hanno sollevato la questione kazaka […] Se non ci fossimo noi (parlo di cittadini a 5 stelle, non solo di deputati e senatori) chi svelerebbe queste porcate? Chi avrebbe il coraggio di definire Paolo Scaroni, il padrone dell’Eni, il “vero ministro degli Esteri”?[…] Chi avrebbe il coraggio di dire la verità, di dire che da Paese a sovranità limitata nei confronti degli Usa ci stiamo trasformando, contemporaneamente, a Paese a sovranità limitata nei confronti della Russia?» (8) A parte il riferimento alla Russia anziché al Kazakistan, vi è da chiedersi non solo se Di Battista viva in Italia, in cui vi sono decine di basi militari statunitensi, ma come sia possibile che, indipendentemente dalla questione del “dissidente” kazako (in realtà un oligarca ricercato per gravissimi reati finanziari e con rapporti tutt’altro che chiari con i servizi inglesi e italiani), un parlamentare italiano ignori (o faccia finta di ignorare) il significato dei termini che usa (dato che definire l’Italia «Paese a sovranità limitata nei confronti della Russia» equivale a sostenere che in Sicilia nel 1943 e in Normandia nel 1944 sbarcarono non gli angloamericani ma i sovietici travestiti da angloamericani), senza neppure che ciò susciti alcuna reazione da parte degli altri parlamentari del Movimento Cinque Stelle. Ma ancora più grave forse è il riferimento all’Eni, che mostra quale assurda idea della nostra sovranità e della nostra economia abbiano il “cittadino” Di Battista e la maggior parte dei pentastellati.

A questo proposito, può essere interessante ricordare che il Kazakistan non è una “dittatura” (termine con cui i media mainstream designano qualsiasi sistema politico diverso da quello angloamericano), ma un Paese in via di sviluppo, che ha pure dovuto far fronte ai terribili problemi derivanti dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nondimeno, il Kazakistan sta conoscendo tassi di crescita elevati (circa il 5%) e presenta un tasso di disoccupazione del 5,3%, cioè ben inferiore al tasso di disoccupazione a due cifre degli anni Novanta. Per quanto concerne invece la situazione politica di questo Paese, è da notare che nel gennaio 2012 il partito Nur Otan (il partito di Nazarbayev) ha nuovamente vinto le elezioni con l’80,7% dei voti (conquistando 83 seggi). Altre due formazioni politiche hanno superato lo sbarramento del 7%: Ak Zhol (partito della destra liberale), che con il 7,47% ha ottenuto 8 seggi ed il Partito Comunista del Popolo, che con il 7,19% ha ottenuto 7 seggi. L’Osce (che rappresenta gli interessi della Nato) ha denunciato alcune irregolarità, mentre gli osservatori della Csi hanno confermato la correttezza delle consultazioni elettorali. In definitiva, nulla di nuovo sotto il sole e gioco delle parti rispettato. Quello che però non si deve assolutamente ignorare è il fatto che il Kazakistan è una pedina fondamentale dell’Unione Eurasiatica e della Sco (Shanghai Cooperation Organisation), nonché “perno geografico” di quella zona dell’Eurasia che il geopolitico britannico Halford Mackinder definisce Heartland, il “cuore della terra”. Ma non è un mistero che il futuro della geopolitica energetica mondiale passa lungo la direttrice Russia-Kazakistan-Cina Se poi si tiene conto che i rapporti con il Kazakistan sono comunque essenziali per il nostro interesse nazionale, non è difficile intuire quali fossero gli ambasciatori preoccupati per i “diritti umani” della moglie del “dissidente” kazako (qui, sia chiaro, non ci interessa entrare nel merito di questo ennesimo “pasticciaccio all’italiana”, ci preme invece solo rilevare come viene trattato un “caso” così delicato per l’interesse nazionale, ossia in modo tale da offrire persino una immagine totalmente deformata della realtà pur di difendere sé stessi o, peggio, pur di danneggiare l’Eni e di conseguenza – piaccia o non piaccia, se ne sia consapevoli o no – gli stessi interessi del nostro Paese). (9)

Lo scopo di queste brevi considerazioni sulla “colonia Italia” e sui rapporti tra il nostro Paese e il Kazakistan, come si sarà capito, è soprattutto quello di mettere in evidenza come la crisi economica che minaccia di ridurre, mutatis mutandis, la Penisola come la città di Detroit (simbolo del “fordismo” – cioè di un modello di sviluppo obsoleto, incentrato sul settore automobilistico – e perciò anche di quello che può accadere ad un Paese industrializzato se non è in grado di affrontare con intelligenza strategica le difficili sfide della ”globalizzazione”, passando dal “centro” alla “periferia” del sistema produttivo mondiale) sia inseparabile dalla questione della sovranità in un’epoca che sarebbe forse meglio definire come l’epoca della complessità (geopolitica e geoeconomica). Non a caso, sono proprio gli economisti non “embedded”, ossia che non sono disposti a seguire pedissequamente gli schemi ideologici del politicamente corretto, a sottolineare l’importanza decisiva della sovranità per porre rimedio ai drammatici squilibri che caratterizzano Eurolandia. A tale proposito scrive Jacques Sapir, uno dei critici più intelligenti e seri dell’Eurozona, occorre riconoscere che non vi è opposizione «tra un sovranismo “di destra” e uno “di sinistra”: non c’è che un sovranismo». E, una volta rifiutato ogni estremismo nazionalista (che è tipico di una certa destra), si deve ammettere che «la sinistra, quella vera, avrebbe tutto l’interesse a riappropriarsi della Nazione come condizione necessaria all’esistenza della democrazia e della Res Publica. Beninteso, questa Nazione non è costituita su basi etniche ed è pronta ad accogliere in sé tutti coloro che vengono a farla vivere col loro lavoro ed energia, nel rispetto di leggi alla formazione delle quali contribuiscono». (10) Insistendo sulla necessità di far valere dei “confini” e sul fatto che la sovranità nazionale è condizione indispensabile per opporsi alla “pre-potenza” dei “mercati” e di attori geopolitici e geoeconomici al di fuori di ogni controllo da parte delle istituzioni politiche nazionali, Sapir non esita ad affermare che «l’esistenza della democrazia implica la chiusura dello spazio politico e che questa chiusura implica una “frontiera”. Dire questo non implica che non abbiamo niente in comune o che ci dobbiamo disinteressare di coloro che si trovano dall’altra parte del confine, che esso delimiti un’organizzazione o un paese. Ciò però consente di attribuire un senso alla distinzione membro/non membro, di conferirgli una pertinenza e quindi, per contrapposizione, di ritenere pericolose le idee che rifiutano questa distinzione». (11)

Se il riferirsi ancora ad una “sinistra vera” ad alcuni può apparire anacronistico, è tuttavia di estrema importanza rendersi conto che il “sovranismo” non può non essere a fondamento di qualunque posizione che si contrapponga seriamente ai progetti dei tecnocrati di Bruxelles e alla dittatura dei “mercati”. Un “sovranismo” che in nessun senso però (vale la pena ribadirlo) si deve confondere con quella “mistica della nazione” che ha causato innumerevoli sofferenze e immani disastri in Europa, ma che invece è il presupposto necessario di un autentico sistema policentrico, che non può non essere basato sul diritto alla differenza e sulla necessità di una cooperazione strategica tra diversi poli geopolitici. Ciononostante, si deve pur essere consapevoli che è inevitabile che non vi sia “equilibrio” che non sia in funzione di determinati interessi. Si tratta quindi di sapere quali sono gli interessi che si vogliono tutelare, perché li si deve tutelare, contro chi li si deve tutelare e come li si deve tutelare. E questo prova non solo che è proprio la molteplicità “irriducibile” degli interessi contrapposti che rende necessaria la funzione politica (e di conseguenza che vi è differenza tra razionalità strategica e razionalità strumentale, intesa come mero calcolo dei mezzi più “economici” per il raggiungimento di un determinato fine), ma anche e soprattutto che “dietro” l’apparente neutralità delle scelte dei “tecnici” vi è necessariamente una precisa “volontà di potenza”(e quella cui la Bce deve “rendere conto” non può certamente essere quella dell’Europa).

Battersi per la sovranità nazionale significa allora cercare, innanzi tutto, di restituire lo “scettro al principe”, e sotto questo aspetto il riferimento di Sapir alla democrazia e alla Res Publica sarà pure retorico ma oggi più che mai ci sembra utile e prezioso. In quest’ottica, la stessa Unione Europea dovrebbe configurarsi in modo nuovo, non essendo più possibile prescindere da una ridefinizione politico-strategica (e quindi economica) delle istituzioni europee, ossia da una rivalutazione di quelle aree geopolitiche e geoeconomiche (baltica, danubiana e mediterranea) che sono parti costitutive dell’Europa, in quanto ciascuna di esse è caratterizzata da specifici fattori culturali ed economici. (12) Certo comprendere l’importanza decisiva della questione della sovranità di per sé non basta per trasformare la realtà politica ed economica dell’Europa. Eppure è logico che fare chiarezza su tale questione dovrebbe almeno permettere di sapere su quale base è possibile costruire una (seria) alternativa all’euroatlantismo e di evitare di fidarsi di coloro che sul “sovranismo” mostrano di avere le idee confuse, anche perché, com’è noto, la strada che porta all’inferno è lastricata di buone intenzioni. Vi sarebbe invece bisogno di un’etica della responsabilità, che tenesse conto delle conseguenze delle nostre azioni, e di elaborare una razionalità strategica “adeguata” alle sfide del nostro tempo. Del resto, che la stessa crisi economica vada interpretata alla luce dei conflitti geopolitici (e sociali) dovrebbe essere pacifico una volta che ci si sia sbarazzati di “incapacitanti” schemi concettuali economicistici e si sia preso atto che la questione della sovranità nazionale è decisiva anche sotto il profilo economico, sempre che il “sovranismo” venga inteso correttamente, ovvero secondo una prospettiva multipolare fondata su un “equilibrato” realismo geopolitico.

 

 

 

1) http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2013-07-19/saccomanni-vendita-quote-enel-112452.shtml.

2) http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2013/07/20/Svimez-Pil-caduta-Sud-soffre-piu_9049581.html.

3) http://goofynomics.blogspot.it/.

4) Ibidem.

5) http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=26723.

6) Scrive un esperto come Gianandrea Gaiani, non sospettabile di nutrire “antipatie” per il mondo occidentale, che «forze aeree ben più ricche come quella francese e tedesca disporranno di un solo velivolo da combattimento (il Rafale in Francia e il Typhoon in Germania) impiegati sia come caccia sia per l’attacco al suolo. Il programma Typhoon, che all’Italia costa anche quest’anno oltre un miliardo di euro, sta subendo tagli consistenti per liberare risorse da destinare all’F-35. […]. Il paradosso è quindi che rinunceremo a un cacciabombardiere europeo del quale abbiamo già pagato i costi di sviluppo e produzione per prenderne uno americano il cui sviluppo è ancora tecnologicamente immaturo e i cui costi continuano a crescere» (http://www.analisidifesa.it/2013/07/f-35-chi-ha-paura-di-metterci-la-faccia/). Nettamente contrario all’acquisto degli F35 è pure Fulvio Gagliardi – un generale dell’aeronautica militare, ma non più in servizio e anche questo significa “qualcosa” se si considera quali sono i “centri di potere” a cui  i nostri vertici militari, di fatto, “devono rispondere” (http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/16/f35-aereo-di-attacco-non-ne-abbiamo-bisogno-ex-generale-raccoglie-firme-online/656308/).

7) Si veda http://www.conflittiestrategie.it/paese-in-deriva-intellettiva-di-glg-15-luglio-13.

8) Si tratta di un post pubblicato su facebook.

9) Sul Kazakistan, si veda Il perno geografica della storia,“Eurasia”, 3/2012 (numero dedicato appunto al Kazakistan), nonché il volume di Andrea Fais, L’aquila della steppa. Volti e prospettive del Kazakistan, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2012. Sull’Heartland si veda il nuovo libro di Alessandro Lattanzio, Heartland. Energia e politica nell’Eurasia del XXI secolo, Anteo, Cavriago  (Re), 2013 Per quanto riguarda quest’ultimo “pasticciaccio all’italiana” (naturalmente l’intera vicenda avrebbe un significato assai diverso se fosse stato espulso Ablyazov, anziché sua moglie e sua figlia) si veda anche il recente comunicato dell’ambasciata del Kazakistan in Italia, http://www.eurasia-rivista.org/informazione-del-ministero-degli-affari-esteri-della-repubblica-del-kazakhstan/19880/.

10) http://polemos-war.blogspot.it/2013/07/sovranita-e-nazione.html.

11) Ibidem.

12) Su questo punto insiste a ragione Bruno Amoroso, di cui vedi Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro, Dedalo, Bari, 2000.


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Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.