Chiunque abbia una qualche dimestichezza con il gioco del bridge sa come, in questo gioco, sia possibile vincere anche perdendo. Prima della partita, infatti, ad una delle due coppie di giocatori viene dato un contratto da rispettare, consistente in un numero di prese da compiere per poter vincere, e carte migliori, che almeno in teoria dovrebbero consentirle di raggiungere l’obiettivo. Qualora l’altra coppia riuscisse a far compiere agli avversari meno prese rispetto a quanto avrebbero dovuto, la vittoria e i punti andrebbero a lei a prescindere dal numero di prese eseguite. Il gioco del bridge ha molti punti in comune con la geopolitica: quest’ultima, infatti, prevede dei contratti non dichiarati da rispettare, e il loro mancato rispetto, non di rado, è equivalente a una sconfitta, a prescindere dal risultato complessivo.

Nella storia geopolitica del Novecento, un caso esemplare di vincitore sconfitto è dato dalla Finlandia. Attaccato dall’Unione Sovietica in seguito al Patto Molotov-Ribbentrop, che nel 1939 assegnò il Paese alla Patria del Socialismo Reale assieme al trio baltico e ad alcuni territori all’epoca polacchi o romeni, l’anno successivo, a seguito di alcune sconfitte, il Paese scandinavo fu costretto a cedere all’URSS alcuni territori in Carelia. Nel 1941 la Finlandia, divenuta alleata dei nazisti, dichiarò a sua volta guerra all’Unione Sovietica, al fine di recuperare i territori perduti e annettere i territori sovietici con forti minoranze etniche ugro-finniche (Grande Finlandia), ma una seconda sconfitta militare, tre anni più tardi, comportò per il Paese non solo la rinuncia definitiva alla Carelia meridionale, ma anche la cessione della zona di Petsamo (l’attuale Pečenga), in precedenza suo unico sbocco sull’Artico, e la concessione decennale di una base navale nei pressi di Helsinki.

Eppure la Finlandia viene oggi ricordata come un Paese vincitore. Malgrado la sua netta inferiorità militare rispetto al suo vicino orientale, dopotutto, il Paese scandinavo è riuscito ad evitare l’occupazione militare, e ciò gli ha consentito di evitare tanto la sorte delle Repubbliche Baltiche, annesse all’Unione Sovietica, quanto quello di quei Paesi dell’Europa centro-orientale nei quali la liberazione dal giogo nazista ha significato l’instaurazione di regimi comunisti. Il destino della Finlandia è stato piuttosto la sua “finlandizzazione”, ossia una relativa perdita di autonomia in politica estera in cambio del mantenimento di un sistema politico democratico, di un’economia di libero mercato e di stretti rapporti commerciali con l’URSS. Tutto ciò ha consentito al Paese di iniziare una fase di forte crescita economica che lo avrebbe portato ad allinearsi al resto della Scandinavia.

Il paragone tra l’attuale crisi ucraina e la Seconda Guerra Mondiale in Finlandia può sembrare a prima vista azzardato. Sebbene quella tra la Russia e gli Stati Uniti sia chiaramente una guerra asimmetrica, la sproporzione tra i due Paesi in termini di potenza è nettamente inferiore a quella a suo tempo esistente tra Finlandia e Unione Sovietica. Inoltre, a differenza della Finlandia, la Russia di oggi non vive minacce dirette alla propria indipendenza: sebbene a Riga, Varsavia e Washington non manchi chi spera in una frantumazione della Grande Madre (1), chi conta si “accontenta” della caduta di Putin, della perdita da parte della Russia di ogni influenza dominante sui propri vicini occidentali e di una sua finlandizzazione in senso filoccidentale. Inutile aggiungere che, per i falchi dell’antiputinismo, il paragone tra Putin e Mannerheim suona nel migliore dei casi come una bestemmia. Eppure le comunanze sono non meno importanti delle differenze. La contesa tra Russia e Stati Uniti, al pari di quella tra Finlandia e URSS degli anni Quaranta, è anche una lotta tra una forma di internazionalismo e una forma di pannazionalismo. È difficile non accorgersi dei traits d’union tra l’universalismo comunista e quello libertario-occidentalizzante oggi dominante, così come non mancano i punti in comune tra le mire russe sulla Crimea e quelle finniche sulla Carelia orientale. Tuttavia ad unire i due conflitti è soprattutto l’esito che oggi appare più probabile: malgrado l’Occidente disponga di carte migliori, la buona capacità della Russia di giocare le proprie fa sì che quest’ultima abbia buone chances di concludere la partita, se non da vincitrice, quanto meno da vincitrice sconfitta.

Per capire il perché di questa possibilità, è necessario fare qualche passo indietro. La crisi ucraina è iniziata ufficialmente il 21 novembre 2013, quando l’allora Primo Ministro ucraino Nikolaj (Mykola) Azarov ha annunciato la sua decisione di sottoscrivere un Accordo di Associazione con l’Unione Europea – che, tra le tante cose, avrebbe creato un’area di libero scambio tra Ucraina e UE dalla quale sarebbero però rimasti esclusi i prodotti agricoli – al fine di rafforzare i legami con la Russia e gli altri Paesi della CSI, ma le tensioni covavano da molto tempo. Se gli anni Duemila si sono chiusi all’insegna del “reset” tra USA e Russia, che sotto la guida di Obama e Medvedev sembravano sul punto di chiudere definitivamente l’epoca della Guerra Fredda per creare qualcosa di simile ad un’alleanza, nei primi anni Dieci le Primavere Arabe, il ritorno di Putin al Cremlino e l’ostilità dichiarata per lo Zar da parte dell’establishment a stelle e strisce hanno iniziato a far vacillare i rapporti tra i due Paesi. Il caso Snowden, le divergenze sulla guerra civile siriana e l’imminente lancio dell’Unione Economica Eurasiatica, paragonata da Hillary Clinton a “una nuova Unione Sovietica”, hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco, e alla vigilia di quel fatale 21 novembre 2013, sebbene ancora non si parlasse di una “nuova Guerra Fredda”, i rapporti tra il Cremlino e la Casa Bianca erano già piuttosto tesi.

Le proteste ucraine contro il passo indietro di Azarov sull’Accordo di Associazione, inizialmente pacifiche e circoscritte ma poi violente e massicce, hanno goduto dell’immediato supporto degli Stati Uniti e di alcuni Paesi europei, in primis Polonia e Repubbliche Baltiche ma anche di una Germania che, malgrado i suoi forti rapporti economici con la Russia, ha abbandonato quella pragmatica Ostpolitik che ha costituito il fondamento dei rapporti sovietico-tedeschi – e poi russo-tedeschi – da Brandt a Schröder per assumere una linea più schiettamente moralistica che, secondo l’analista russo Dmitrij Trenin, è legata anche alle ambizioni di Berlino di superare la tradizionale diarchia franco-tedesca e proporsi come Paese leader dell’Unione Europea (2). È molto difficile diventare il Paese leader dell’Unione Europea senza il supporto di Washington e di realtà emergenti – e tradizionalmente russofobe – quali la Polonia e il terzetto baltico, e ciò ha avuto delle inevitabili conseguenze sui rapporti con la Russia. Durante Euromaidan i leaders occidentali hanno spesso criticato il Cremlino per aver percepito la crisi ucraina come una sfida geopolitica alla Russia da parte di Stati Uniti e Unione Europea, cercando di rassicurarlo sull’assenza di intenzioni antirusse; ma le azioni dei vari Obama, Merkel, Kerry e Ashton non facevano che confermare i sospetti moscoviti, e una contesa geopolitica è un gioco a somma zero. Né hanno contribuito a rasserenare gli animi le polemiche sulle “minoranze sessuali”, che proprio nei giorni più caldi di Maidan hanno implicato ripetuti inviti al boicottaggio delle Olimpiadi Invernali di Soči, l’assenza di quasi tutti i leaders occidentali alla cerimonia inaugurale delle stesse (una notevole eccezione, sotto questo punto di vista, fu costituita dall’allora Primo Ministro italiano Enrico Letta) e la decisione di Obama di mettere due atlete lesbiche alla guida della delegazione statunitense. Quella che per gli attivisti LGBT e molti governi occidentali è una battaglia per i diritti umani, per il Cremlino è soltanto un pretesto per mettere la Russia in cattiva luce oltre che una forma di imperialismo culturale. Ma il punto di non ritorno è stato il 22 febbraio 2014, quando, in una sorta di congiura di palazzo (3), il Presidente Janukovič è stato dichiarato decaduto dal Parlamento e sostituito con un deputato del partito della Tymošenko. Stessa sorte è toccata qualche giorno dopo al governo Arbuzov (4), rimpiazzato da un nuovo esecutivo composto dai partiti che hanno guidato il Maidan, tra cui l’ultranazionalista Svoboda. Per il Cremlino è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Tralasciamo, a questo punto, i tragici eventi seguiti alla Rivoluzione Ucraina – la crisi in Crimea, la Guerra del Donbass, la guerra non convenzionale che Russia e Occidente stanno combattendo a colpi di sanzioni economiche e propaganda e quell’atmosfera di generale tensione da molti ribattezzata come la nuova Guerra Fredda – per spostare lo sguardo su un evento che, come e ancor più delle Olimpiadi di Soči, avrebbe dovuto consegnare l’immagine di un Cremlino isolato sul piano internazionale, o comunque tagliato fuori dall’Occidente: le celebrazioni per il 70° anniversario della fine di quella Grande Guerra Patriottica che da sempre occupa il posto d’onore nella mitologia storica nazionale, avvenute il 9 maggio 2015. Presenze e assenze, dopotutto, sembrano essere l’emblema del compimento di un processo che andava avanti già da diversi anni ma che ha vissuto una decisa accelerazione dopo lo scoppio della crisi ucraina: il progressivo riorientamento geopolitico del Paese verso Est. Da un lato un Occidente sostanzialmente assente, dall’altro un non-Occidente (5) presente con personalità del calibro di Xi Jinping, Abdel Fattah al-Sisi e Nicolas Maduro. Ciò, però, costituisce solo una parte del quadro: nei giorni successivi, infatti, alcuni pezzi importanti di quello stesso Occidente che aveva boicottato le celebrazioni sono tornati a Canossa. All’indomani della parata, infatti, Angela Merkel si è recata in visita a Mosca per incontrare Putin, e il 12 maggio è toccato al Segretario di Stato statunitense John Kerry prendere il volo per Soči per incontrare Putin e Lavrov. Entrambi, nel corso delle loro visite, hanno ricordato il ruolo dell’Armata Rossa nella sconfitta del nazismo, toccando una corda emotiva tuttora molto importante per il popolo russo, e ciò, assieme alle loro dichiarazioni concilianti, sembra essere sintomatico di una certa volontà di trovare quanto prima una soluzione alla crisi.

Particolarmente significativa è stata la visita di Kerry con annesso incontro con Putin, non solo perché rappresenta la prima in territorio russo di un alto funzionario statunitense dallo scoppio della crisi ucraina, ma anche in quanto totalmente inattesa. I più hanno sottolineato la presenza di forti interessi comuni tra Russia e Stati Uniti, in primis sulla lotta ad uno Stato Islamico tutt’altro che sconfitto e sulla questione del nucleare iraniano, in un contesto in cui la prospettiva di un Iran dotato di armi nucleari non viene vista di buon occhio neanche dalla Russia (6). Tuttavia non si può trascurare il ruolo di almeno altri quattro fattori. Il primo è il fattore C (Cina): i rapporti tra i due Paesi, forti già prima della crisi ucraina, hanno vissuto una notevole accelerazione dopo lo scoppio della stessa, complici le sanzioni contro la Russia e la comune ostilità nei confronti del predominio statunitense. In economia, a differenza che nella geopolitica, le relazioni tendono a svilupparsi secondo logiche di win-win, ed è proprio puntando su questo fattore che il fu Celeste Impero sta puntellando la propria ascesa geopolitica. Ciò vale anche nei rapporti con la Russia, e non è un caso che i due Paesi non vedano in termini antagonistici i loro piani strategici, come dimostra l’accordo per coordinare lo sviluppo dell’Unione Economica Eurasiatica e della Nuova Via della Seta voluta da Pechino, sottoscritto durante la visita di Xi Jinping a Mosca nel maggio scorso (7). Il secondo è il rischio di una pace separata tra Russia e Unione Europea, cosa che richiede un ruolo attivo di una Germania che ha assunto la leadership europea anche nei rapporti con la Russia. Secondo George Friedman, Direttore dell’agenzia di intelligence Stratfor, uno dei principali moventi delle mosse degli Stati Uniti in Ucraina è stato quello di impedire la formazione di un asse economico e strategico tra Russia ed Unione Europea basato sulla condivisione di risorse naturali e hard power da un lato e di capitali, tecnologie e soft power dall’altro (8). La Germania, e in generale l’Europa, è di gran lunga più interessata a una pacificazione dell’Ucraina e a una normalizzazione dei rapporti con il Cremlino di quanto non lo possano essere i suoi partner d’Oltreatlantico, e una pace separata implicherebbe una forte perdita di credibilità degli States nonché, agli occhi dei non-Occidentali, la fine del mito dell’unità di un Occidente che in più occasioni, anche recentemente, ha mostrato forti divergenze.

La terza è il sostanziale fallimento della politica delle sanzioni. L’obiettivo delle stesse è stato sin dall’inizio politico, e l’imposizione di sanzioni economiche era legato alla speranza che, in un contesto in cui la popolarità di Putin è dovuta anche, se non soprattutto, al significativo miglioramento delle condizioni di vita della popolazione russa negli anni della sua presidenza (la Russia è oggi annoverata dalla Banca Mondiale tra i Paesi ad alto reddito (9)), un peggioramento delle condizioni economiche del Paese avrebbe spinto i Russi a rivoltarsi contro il loro Presidente. Ciò, tuttavia, presuppone un popolo russo sostanzialmente disinteressato alla crisi ucraina e guardante all’Occidente come a una sorta di giudice. Una logica chiaramente assurda, e chiunque abbia una conoscenza anche solo elementare della Russia e della sua cultura difficilmente sarà rimasto stupito del fatto che la politica occidentale verso Mosca abbia risvegliato i mai sopiti timori storici di un’invasione da ovest e aumentato in patria la popolarità di Putin, per il quale è stato sin troppo facile ergersi a paladino della riscossa nazionale e accusare l’Occidente di voler affossare la Russia. Viste le dichiarazioni intrise di Schadenfreude sullo stato dell’economia russa da parte di numerosi esponenti politici occidentali (soprattutto americani), dopotutto, non si può parlare di mera retorica putiniana. Ciò si ricollega a un ultimo punto: gli Stati Uniti, malgrado l’avanzata di potenze quali Cina e India e di attori non statali dichiaratamente ostili alle stelle e strisce, a cominciare dal fondamentalismo islamico, restano la prima potenza mondiale, ma la loro leadership morale è in crisi, e sono ormai in molti a vedere gli States come un giocatore che pretende di essere un arbitro.

È tuttavia ancora presto per festeggiare la fine della crisi ucraina. Il cessate il fuoco continua ad essere fragile, e da entrambi i fronti si registrano frequenti violazioni, specie nelle zone di Doneck e Mariupol; ma, più ancora delle violazioni del cessate il fuoco, ad essere particolarmente preoccupanti sono le motivazioni di fondo di Russia e Occidente. La prima, infatti, non punta a ridisegnare la mappa dell’Ucraina seguendo le linee di faglia etnico-culturali sulla falsa riga di quanto avvenuto, ad esempio, in Bosnia; se è vero che Putin punta a fare del Donbass una sorta di variante ucraina della Repubblica Serba di Bosnia, è anche vero che, a differenza che per la Jugoslavia di Milošević, a cui la Russia attuale è stata frequentemente paragonata, ciò per la Russia non costituisce il fine, ma soltanto un mezzo, laddove il fine è fare in modo che l’Occidente riconosca lo spazio ex-sovietico come una zona di influenza russa e l’Ucraina riconosca l’illusorietà dei suoi sogni europei. Allo stesso modo, l’Occidente non punta tanto a preservare l’Ucraina come Stato unitario, bensì ribadire la sua leadership globale, costringere la Russia ad accettare lo status di potenza di secondo piano a cui i Paesi occidentali, USA in primis, hanno cercato di relegarla sin dalla fine della Guerra Fredda e mandare un messaggio chiaro a tutti i rivali reali o potenziali degli States, a partire da una Cina che, anche per questo, non vuole vedere una Russia sconfitta. Indicative, sotto questo punto di vista, sono le recenti dichiarazioni di Angela Merkel secondo cui “non si parla di sfere di influenza nell’Europa del XXI secolo”: fine delle sfere di influenza, in concreto, significa riconoscimento della vittoria di un’area di influenza su un’altra, e la Merkel, con queste parole, ha di fatto abbracciato le motivazioni americane sulla crisi ucraina.

Probabilmente la tendenza generale sarà verso un rasserenamento, e nei prossimi mesi non è improbabile un alleggerimento delle sanzioni antirusse; ma, al momento, resta molto limitata la probabilità di raggiungere in tempi brevi quella Dayton in salsa ucraina da molti auspicata per mettere fine alla crisi che da ormai un anno e mezzo attanaglia il Paese dell’Europa Orientale. In Ucraina, a differenza che nella Bosnia-Erzegovina, la guerra non è solo il frutto avvelenato dello scontro tra nazionalismi reciprocamente ostili, ma scaturisce anche, e forse soprattutto, da questioni di natura geopolitica. È probabile, anzi, che quella in corso nel Donbass rimarrà una guerra a bassa intensità fino al verificarsi di almeno una di queste condizioni: un cambio di regime in Russia, un serio impegno pacificatore del governo ucraino e/o un cambiamento delle priorità geopolitiche dell’Occidente, soprattutto degli States. Una conclusione della guerra attraverso la caduta di Putin e l’insediamento di un governo filoccidentale al Cremlino costituisce l’obiettivo primario dell’Occidente, ma è da escludersi per i motivi già visti in precedenza. Per l’Occidente, anzi, la carta del cambio di regime è altamente rischiosa: come afferma il blogger Aleksej Naval’nyj, che pure non è certo un ammiratore dell’attuale Presidente russo, chiunque cerchi di sostituire Putin dovrà compiere mosse ancora più nette e decise di quelle dell’attuale Presidente russo per poter raggiungere la sua popolarità (10). Il verificarsi della seconda o della terza posizione, d’altro canto, darebbe alla Russia un forte potere negoziale; e, sebbene sia difficile prevedere i termini della pacificazione, è molto probabile che tra gli stessi ci saranno la neutralità dell’Ucraina, il riconoscimento dell’autorità delle Repubbliche Popolari di Doneck e Lugansk sul territorio da esse controllato, sia pure nel contesto dello Stato ucraino, e l’accettazione del ritorno della Crimea alla Russia – o perlomeno la non-opposizione allo stesso –. Ciò, per la Russia, costituirebbe una vittoria anche qualora il bilancio complessivo dovesse essere negativo. Per l’Occidente, invece, rispettare il contratto consiste nell’imporre alla Russia i propri termini di pace, al più con qualche concessione su temi secondari quali la questione linguistica. L’Occidente deve rispettare il contratto perché gioca con le carte migliori, e il mancato raggiungimento dell’obiettivo si trasformerebbe automaticamente in una sconfitta.

NOTE
1) In un articolo sul bimestrale di geopolitica The American Interest, ad esempio, l’analista statunitense di origini polacche Janusz Bugajski afferma che “è possibile indebolire la mano forte del Cremlino sostenendo un vero federalismo, il decentramento, i diritti delle minoranze, l’autodeterminazione delle varie regioni e i vari movimenti indipendentisti attivi in una Federazione Russa fin troppo estesa ma ancora allo stato embrionale” (fonte: http://www.the-american-interest.com/2014/09/01/russias-choice-putinism-or-progress/).
2) http://carnegie.ru/eurasiaoutlook/?fa=57511
3) Secondo la Costituzione ucraina, la procedura di impeachment del Presidente prevede una denuncia formale nei confronti dello stesso, l’approvazione della denuncia da parte della Corte Costituzionale e un successivo voto a maggioranza qualificata (3/4 del totale dei deputati, ossia non meno di 338 deputati) da parte della Verchovna Rada, il Parlamento ucraino, per ratificare la destituzione. La destituzione di Janukovič, avvenuta con un semplice voto della Rada con 328 voti favorevoli, è quindi da considerarsi illegale.
4) Sergej (Serhij) Arbuzov ha sostituito Azarov alla guida del governo ucraino il 28 gennaio 2014.
5) Va comunque precisato che, a dispetto di quanto vuole una certa retorica terzomondista, i Paesi non-occidentali non costituiscono un blocco compatto; al contrario, malgrado la possibile presenza di interessi convergenti, le differenze reciproche tra i Paesi non-occidentali hanno spesso un peso non inferiore a quelle tra questi ultimi e i Paesi occidentali.
6) D. Trenin, Post-Imperium: a Eurasian story, Carnegie Endowment for International Peace, Washington DC 2011, p. 125.
7) http://oilprice.com/Energy/Energy-General/Could-The-New-Silk-Road-End-Old-Geopolitical-Tensions.html
8) http://www.pandoratv.it/?p=3256
9) http://data.worldbank.org/about/country-and-lending-groups#High_income
10) http://www.forbes.com/sites/dougbandow/2015/05/11/ukraine-fight-flares-again-u-s-should-keep-arms-and-troops-at-home/4/


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Giuseppe Cappelluti, nato a Monopoli (Bari) nel 1989, vive e lavora in Turchia. Laureato magistrale in Lingue Moderne per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Bergamo, ha conseguito la laurea triennale in Scienze della Mediazione Interculturale presso l’Università degli Studi di Bari. Dopo aver trascorso periodi di studio presso l’Università di Tartu (Estonia) e a Petrozavodsk (Russia), nel 2016 ha conseguito un Master in Relazioni Internazionali d’Impresa Italia-Russia presso l’Università di Bologna. Dal 2013 ha pubblicato numerosi articoli su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e nel relativo sito informatico. Suoi contributi sono apparsi anche su “Fond Gorčakova” (Russia), “Planet360.info” (Italia), “Geopolityka” (Polonia) e “IRIB” (oggi “Parstoday”, Iran).