“There are now 2,500 U.S. service members in Iraq and 2,500 in Afghanistan. It is the lowest number of U.S. troops in Afghanistan since operations started there in 2001. (…) At its high point in 2011, there were 98,000 U.S. troops in the country.”[1]

La tesi di chi scrive è che l’intervento occidentale in Afghanistan sia stato la più grande “drôle de guerre”, la più grande guerra-farsa, dell’intera storia contemporanea. Il bilancio finale dell’intervento sul piano militare dimostra come gli Stati Uniti e i loro satelliti non abbiano mai davvero tentato di vincere la guerra.

Drôle de guerre

Fingiamo che il governo di Kabul – per quanto alleato, anzi fantoccio dell’Occidente – non sia corrotto fino al midollo e in preda agli eterni signori della guerra del feudalesimo afghano, i gattopardi che controllano il paese fin dalla guerriglia antisovietica degli anni ’80.

Fingiamo che i talebani – a loro volta molto più interessati al narcotraffico che non al ripristino di un puro Islam delle origini – non godano di un consenso reale tra la popolazione del paese, specie nelle aree popolate dall’etnia pashtun, ma anche ovunque vi sia insofferenza verso la voracità e l’inefficacia dei funzionari del governo internazionalmente riconosciuto. Evitiamo poi di parlare dell’appoggio tribale, logistico e di intelligence di cui i talebani afghani hanno potuto godere in Pakistan, alleato degli USA sin dalla Guerra Fredda[2]! Chiamarla “missione di pace” e non “guerra” quando si è sotto il fuoco nemico, e quindi puntare non all’annientamento del nemico ma alla propria ritirata, avvantaggia il nemico non solo per quanto riguarda il morale, ma sul piano militare effettivo: egli sa che gli basterà aspettare un lustro in più, un anno in più, un mese in più, ma la vittoria è già certa.

Il bilancio strategico-militare

In una “missione di pace” si arma e si addestra la polizia e l’esercito satellite, sperando che a quegli uomini venga voglia di combattere (possibilmente contro i talebani e non volgendo le armi contro i propri “alleati”) e di combattere per lealtà ad uno Stato che tale è più, e non per lealtà verso il proprio gruppo etnico, il clan, il patrono locale. Si mettono in atto missioni “reattive” uscendo dal fortino per respingere un attacco, riconquistare il terreno perduto, al massimo per qualche azione di decapitazione dei vertici nemici – meglio se però condotta da droni. Attenzione: non stiamo sostenendo la tesi infondata che in vent’anni USA e alleati non abbiano condotto missioni offensive, né che le loro truppe satelliti locali non abbiano combattuto né registrato perdite. Stiamo constatando gli effetti velleitari di queste operazioni, che possono aver riportato qualche successo tattico nel quadro di un annunciato – e voluto – disastro strategico[3]. Gli USA sembrano aver voluto davvero combattere in Afghanistan a cavallo tra il 2010 e il 2011[4], quando comunque, stando a quanto sappiamo, il numero di truppe statunitensi non superò quello delle truppe sovietiche (l’apporto degli alleati, se escludiamo UK e pochi altri, non è stato determinante ai fini bellici). Sappiamo tutti come andò a finire da quelle parti, per l’URSS[5]. Nessuna lezione appresa? Con non più di 100.000 uomini non si controlla un paese come l’Afghanistan, al di là delle singole fasi e stagioni offensive. Con 100.000 uomini si controllano al massimo le principali strade e i principali centri urbani, gestendo specifiche offensive di volta in volta. Schierando così pochi uomini su un territorio vasto e dalla complicatissima orografia non solo non si possono assestare colpi decisivi al nemico, ma gli si segnala di non volergliene assestare: proprio gli errori già commessi dai Sovietici, al di là di tattiche più o meno efficaci[6]. Non lo si segnala solo al nemico, ma anche alla popolazione civile – la quale sa già chi sarà il vero vincitore: se i soldati americani possono tornare a casa, i civili afghani no, e quindi si attivano per collaborare con il futuro padrone del paese.

Proprio qui sta il punto, in quello che la letteratura militare chiama “punto di equilibrio” del nemico: nel caso di un’insorgenza, è la popolazione civile. È la popolazione civile che deve vedere la propria sicurezza garantita da un monopolio sicuro della forza, alla quale va impedito di relazionarsi col nemico (e viceversa)[7]. I civili vanno isolati dal nemico, persuasi con la presenza costante delle proprie truppe su ogni territorio (ebbene sì: con la forza, e non con i pacchi dono!) del fatto che egli non vincerà, persuasi del fatto che non sarà lui a garantire domani la loro sicurezza. Il nemico va isolato dai civili, impedendogli di raggiungerli, non concedendogli santuari, ma dandogli costantemente la caccia e trasformando il guerrigliero da predatore a preda[8]. Un lavoro che in Afghanistan non è stato fatto con continuità, ma – peggio! – segnalando al nemico di non voler sopportare i costi di farlo.

Un bilancio geopolitico

Perché questa mancanza di voglia di combattere? Sull’indisponibilità di europei e americani a voler sostenere i costi di conflitti interminabili in paesi dal nome impronunciabile si sono sprecate fabbriche di carta e di inchiostro. Eppure, americani ed europei quelle guerre le hanno fatte.

Più raffinate le riflessioni di Edward Luttwak sull’”era post-eroica”, il momento a partire dal quale società anziane e dalla demografia stagnante diventano indisponibili alla violenza.

Eppure, Americani ed Europei a quella violenza erano ben disponibili quando in Afghanistan ci sono andati, e così erano disponibili i Russi a sacrificarsi in Cecenia per salvare il proprio paese dalla disgregazione: un tasso di sopportazione della violenza superiore a quello dimostrato in Afghanistan nel decennio precedente.

È innegabile e inconfutabile: società più giovani tendono ad essere assai più propense all’uso del fucile; ma non tutte le società più giovani lo sono automaticamente e non tutte quelle anziane non lo sono. Molto dipende dalle opportunità che ai giovani si offrono; molto dipende dalla posta in gioco.

Quale è stata, in Afghanistan, la vera posta in gioco? Parliamo di geopolitica senza addentrarci nei tortuosi meandri dei retroscena della caccia a Bin Laden, morto nella sua villetta in una sonnacchiosa cittadina pakistana come un “borghese piccolo piccolo”. Portare gli stivali in Afghanistan serviva a mostrare all’opinione pubblica americana ed europea che “si stava davvero facendo qualcosa” contro il terrorismo; e serviva a piantare la propria bandiera nel cuore del continente eurasiatico, nell’area più caotica del “Grande Medio Oriente”. Da subito, l’obiettivo principale non è stato in realtà l’Afghanistan, ma l’Iraq, e cioè l’Oriente Vicino! Ora che il Grande Medio Oriente e l’Oriente Vicino non presentano più forze nemiche in grado di sfidare gli USA frontalmente, basta adottare la strategia del “leading from behind”, delegando la tutela dell’area ora ad alleati, ora a satelliti, e favorendovi il più possibile il caos. La Cina la si affronta dall’Indopacifico, non dall’Asia Centrale: va benissimo, dunque, che il grattacapo di un Afghanistan instabile al confine con il Sinkiang sia tutto sulle spalle della Cina, e su quelle di Mosca e di Teheran: mai vi fu momento più propizio per il disimpegno dal paese. Il pretesto secondo cui “si fa qualcosa contro il terrorismo e per il futuro degli Afghani”, via via sempre meno utile, sarà presto dimenticato.

Troppa spesa per un semplice pretesto? Non è stata una semplice “narrazione”: è stato l’effetto di un momento strategico in cui l’intervento diretto del Grande Medio Oriente era la strategia USA. Non è stata nemmeno troppa spesa; o meglio, è stata immane sul piano finanziario, ma sul piano militare in realtà non ha mai superato i 100.000 uomini.

“By 1969 more than 500,000 U.S. military personnel were stationed in Vietnam”[9].


NOTE

[1] Jim Garamone, U.S. Completes Troop-Level Drawdown in Afghanistan, Iraq, www.defense.gov, 15 Gennaio 2021

[2] Per quale motivo Islamabad dovrebbe mai rinunciare ad avere un governo a Kabul sotto il proprio controllo e non, ad esempio, filoindiano come quello attuale, così da evitarsi l’accerchiamento su due fronti e garantirsi un retroterra geopolitico?

[3] Gastone Breccia, Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, Il Mulino, 2020

[4] The Associated Press, A timeline of U.S. troop levels in Afghanistan since 2001, www.militarytimes.com, 6 Luglio 2016

[5]The Afghan War quickly settled down into a stalemate, with more than 100,000 Soviet troops controlling the cities, larger towns, and major garrisons and the mujahideen moving with relative freedom throughout the countryside.” In Encyclopedia Britannica, Soviet invasion of Afghanistan 1979, www.britannica.com

[6] Gianluca Bonci, La guerra russo-afgana (1979-1989), LEG Edizioni, 2017

[7] David Kilcullen, Counterinsurgency, C Hurst & Co Publishers Ltd, 2010

[8] Daniele Raineri, Come si fa la guerra al Califfo: l’Iraq come la Rhodesia?, www.analisidifesa.it, 10 Maggio 2015

[9] Encyclopedia Britannica, Vietnam War 1954–1975, www.britannica.com, voce a cura del Prof. Ronald H. Spector.


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Amedeo Maddaluno collabora stabilmente dal 2013 con “Eurasia” - nella versione sia elettronica sia cartacea - focalizzando i propri contributi e la propria attività di ricerca sulle aree geopolitiche del Vicino Oriente, dello spazio post-sovietico e dello spazio anglosassone (britannico e statunitense), aree del mondo nelle quali ha avuto l'opportunità di lavorare e risiedere o viaggiare. Si interessa di tematiche militari, strategiche e macroeonomiche (si è aureato in economia nel 2011 con una tesi di Storia della Finanza presso l'Università Bocconi di Milano). Ha all'attivo tre libri di argomento geopolitico - l'ultimo dei quali, “Geopolitica. Storia di un'ideologia”, è uscito nel 2019 per i tipi di GoWare - ed è membro della redazione del sito Osservatorio Globalizzazione, centro studi strategici diretto dal professor Aldo Giannuli della Statale di Milano.