Una delle polemiche minori che scalda, a suo modo, gli osservatori internazionali e i politologi quando si discutono gli effetti della globalizzazione sugli impianti democratici è sicuramente il multilateralismo.

Il suo impatto sui regimi la cui sovranità popolare sia, nel migliore dei casi, in via di definizione, è considerato positivo e stabilizzante. Le dinamiche di una politica internazionale di concerto comportano, secondo alcuni, l’implicita aderenza a dei codici comportamentali che, il più delle volte e come nel caso di istituzioni a livello regionale o globale, prendono in prestito dinamiche di stampo prettamente democratico. Con la conseguenza di limitare l’influenza, a livello nazionale, di lobby e specifici gruppi d’interesse.

Altri, al contrario, pongono l’accento sulla dimensione apparentemente elitaria della global governance che, secondo questi, accentuerebbe il distacco tra la base popolare e la politica stessa. Con la conseguente disaffezione o, nel peggiore dei casi, smembramento dell’impianto democratico.

Uno dei Paesi che rappresenta maggiormente la tensione tra queste due scuole di pensiero è sicuramente il Kazakistan post-1991, data la non conformità del suo ordinamento politico rispetto agli schemi dell’universalismo democratico . La chiusura di Respublika, il principale organo d’informazione antagonista del regime, alla fine del 2012, giunta al termine di una campagna minatoria a tratti sopra le righe, ha riacceso il tema della libertà d’espressione in un Paese in cui le radio e le TV sono saldamente in mano al governo.

Eppure le premesse per la costruzione di una solida base democratica avevano fatto ben sperare gli analisti quando, già nei primi anni 90, il processo di democratizzazione del Paese continuava inesorabile a dispetto delle difficoltà incontrate da nazioni vicine come il Tajikistan, Uzbekistan e Kyrgyzstan. Già nel 1995, le 1.410 testate nucleari lasciate in eredità dall’Unione Sovietica erano state riconsegnate ai legittimi proprietari e la base di Semipalatinsk era stata parzialmente smantellata e riconvertita per usi non militari. A ciò aveva fatto seguito un’apertura graduale ma decisa nei confronti dei mercati che ha visto, nel 2011, quasi 20.000 tonnellate di uranio, materia prima di cui la repubblica centro-asiatica è il maggior esportatore al mondo, partire con destinazione Giappone, Cina e Russia. L’aderenza del Kazakistan a programmi come lo START-I, il Trattato di Non Proliferazione Nucleare e il Comprehensive Test Ban Treaty (CTBT), se all’apparenza contraddice la politica intrapresa da Astana, dall’altro favorisce l’inserimento della giovane democrazia nei circoli internazionali. Inserimento culminato nel 2010 con la presidenza dell’OSCE, che è valso alla Repubblica centro-asiatica un ruolo di mediazione nel conflitto del Nagorno-Karabakh ma che, soprattutto, ha fatto sì che i recenti incontri fra i 5+1 e l’Iran, proprio in tema di nucleare, si siano tenuti proprio nell’ex capitale del Kazakistan, Almaty.

La posizione strategica del Paese ha sicuramente contribuito a rendere un territorio vasto quanto l’Europa Occidentale, abitato da poco meno di 17 milioni di persone, un’importante pedina nel complesso scacchiere politico di una regione storicamente divisa da etnie e odi religiosi. Se la Russia, infatti, considera il Kazakistan un valido alleato, è anche e soprattutto per merito di una stretta alleanza militare (il Collective Security Treaty Organization) tra i due vicini e Armenia, Bielorussia, Kyrgyzstan e Tajikistan che, se da un lato funge da agente stabilizzatore nell’area, dall’altro contribuisce a tenere vive le (mai sopite) aspirazioni russe di egemonia in Asia Centrale. Contrapponendosi, di fatto, alla temuta espansione della NATO in una zona che Mosca considera ancora sotto la propria influenza. Seppur con le dovute precauzioni. Le recenti considerazioni sul calo demografico in Russia, infatti, confermano la politica di Mosca secondo cui la stabilità regionale abbia la priorità sul processo di democratizzazione in atto, oramai da decenni, a quelle latitudini. La paura russa di un libero flusso  migratorio dal Kazakistan o dal Tajikistan, entrambi a maggioranza musulmana, preoccupa la leadership del Cremlino che, storicamente, vive l’ossessione tutta occidentale per la democrazia come un eccesso di ‘atlantismo’ del tutto inopportuno.

In cambio della sua alleanza militare, il Kazakistan ha piena libertà di commercio con i Paesi aderenti al Patto Atlantico. Gli USA, dopo aver offerto un aiuto economico in fase di smantellamento delle testate missilistiche intercontinentali, hanno goduto del supporto logistico kazako nella guerra in Afghanistan usufruendo liberamente, tra le altre cose, del suo spazio aereo. Gli Stati Uniti, dal canto loro, vedono da sempre di buon occhio una diversificazione delle rotte degli oleodotti che offra un’alternativa al (quasi) monopolio russo. Ed è per questo motivo che la decisione di far passare il petrolio kazako per la pipeline che da Baku (Georgia) porta il petrolio a Ceyhan, in Turchia e nel bacino del Mediterraneo, è stata salutata da Washington come una vittoria diplomatica.

Il rapporto che lega gli Stati Uniti con il Kazakistan è sintetizzato in maniera efficace dal recente scandalo che ha coinvolto il Congresso americano e la potente società di consulenza APCO Worldwide, la quale ha svolto un lavoro di mediazione tra il governo kazako e il Central Asia-Caucasus Institute della John Hopkins University per la realizzazione di 3 report in cui si incensavano la ‘nascente middle-class kazaka’ e il benessere di un Paese dalle ingenti riserve petrolifere. L’impellenza della creazione di una nuova immagine a livello internazionale era nata nel 2007, quando l’allora ministro degli Esteri di Nazarbayev aveva chiesto agli USA di redimere la controversia tra il Presidente e il potente genero Rakhat Aliyev, accusato del rapimento di due esponenti di uno dei maggiori istituti bancari del Paese.

A Washington non si perse tempo e un team di avvocati accorse anche a seguito della richiesta (poi resa pubblica da Wikileaks) di aiuto da parte dell’allora ambasciatore americano in Kazakistan, Richard E. Hoagland, in cui si accusava Nazarbayev di voler manipolare i diplomatici statunitensi a suo vantaggio.

In tutta risposta (e a salvaguardia di affari petroliferi a nove zeri), un numero imprecisati di uomini del Congresso si attivò per supportare la causa di Nazarbayev e uno di loro, il repubblicano Darrell Issa, arrivò persino a proporne la candidatura al Nobel per la pace.

La leadership kazaka, dunque, resta saldamente al comando per volere di una ristretta cerchia di oligarchi ma anche e soprattutto perché Nazarbayev è il garante di una stabilità politica che rende un Paese pericolosamente ricco di risorse affidabile e aperto al mercato internazionale. L’OSCE, dal canto suo, ha definito le elezioni presidenziali del 2012 ‘poco trasparenti’ e non passerà troppo tempo prima che la Cina rivolga il suo sguardo alle risorse dell’Asia Centrale rovesciando gli equilibri come sta già facendo in altre parti del mondo. Una prima fase è iniziata nel 2009 con la realizzazione della sezione Kenkiyak-Kumkol dell’oleodotto che dal Kazakistan-China porta il prezioso liquido in un Paese che ne è letteralmente assetato.

Può il multilateralismo aiutare la politica interna kazaka? La chiave di volta, come ormai appare sempre più ovvio, è sì la successione di Nazarbayev, ma anche e soprattutto la gestione delle ingenti somme provenienti dall’esportazione delle risorse del Paese. La concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi grandi nomi della finanza kazaka fa sì che un numero limitato di gruppi d’affari impedisca il fiorire della piccola impresa. Con le ovvie ripercussioni, sul piano politico, che una mancata liberalizzazione storicamente comporta.

 


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