Nel rispetto di una prassi ormai consolidata sotto l’amministrazione Trump (e già collaudata con alterne fortune nei confronti di potenze nucleari come Cina, Corea del Nord e Russia), dopo aver mostrato i muscoli il Leviatano talassocratico nordamericano ha cercato di aprirsi una finestra di dialogo con l’Iran, per potersi presentare come la parte “costretta alla guerra” e non come quella che l’ha imposta. Questa volta però la fermezza della Repubblica Islamica può smascherare l’ennesimo bluff della Casa Bianca, mostrandone il volto puramente aggressivo, nonostante certa retorica pseudopopulista cerchi di dimostrare il contrario.

Per fugare una volta per tutte ogni dubbio circa il quesito se l’attuale amministrazione di Washington sia più o meno bellicosa ed aggressiva rispetto alle precedenti, è necessario far presente, in primo luogo, che le sanzioni rientrano pienamente nella categoria delle “armi economiche volte ad indurre uno Stato ad accettare la volontà di chi le applica”[1]; e che le guerre commerciali sono guerre a tutti gli effetti, seppur combattute con altri mezzi.

Inoltre, a chi insiste sul fatto che gli Stati Uniti, sotto la guida di Donald J. Trump, non abbiano effettuato alcuna aggressione militare e che, al contrario, abbiano cercato di praticare una politica isolazionista, sarà altresì utile ricordare: 1) l’attacco missilistico alla Siria dell’aprile 2018 (cui si aggiunge il desiderio, mai negato, del Presidente USA di assassinare il suo pari grado siriano Bashar al-Assad)[2] ed il mai avvenuto ritiro delle truppe dal territorio siriano, nonostante i trionfanti proclami di sconfitta dello Stato Islamico; 2) l’aggressione allo Yemen – ed a questo proposito è utile fare riferimento anche al veto opposto dal Presidente USA alla risoluzione del Congresso volta ad interrompere il sostegno logistico e di intelligence alla coalizione a guida saudita; 3) la guerra commerciale alla Cina, dagli esiti non esattamente favorevoli, che sta conoscendo una ulteriore fase di recrudescenza; 4) l’aggressione al Venezuela (per ora fallita, anche se il golpista Juan Guaidò continua a non escludere la richiesta di un intervento militare diretto nordamericano); 5) l’inasprirsi del regime sanzionatorio e la minaccia di attacco militare all’Iran.

A questo proposito, ad oggi, il numero di sanzioni imposte alla Repubblica islamica, dopo l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare del 2015, è di 7.967 (numero suscettibile di ulteriori variazioni verso l’alto)[3].

Ora, è bene chiarire che le sanzioni hanno un ruolo del tutto particolare. Il direttore di “Eurasia” Claudio Mutti, in un editoriale pubblicato già nel 2014, ebbe modo di dimostrare come già all’epoca della Guerra del Pelopponeso questo strumento fu ampiamente utilizzato da quella che era la potenza talassocratica dell’epoca: la democrazia ateniese. In quell’occasione, lo storico greco Tucidide (non a caso ampiamente apprezzato negli ambienti politico-intellettuali nordamericani ed atlantisti per il suo carattere filotalassocratico), cercò di attribuire a Sparta le cause del conflitto, mettendo in ombra il blocco commerciale imposto da Atene a Megara, alleata degli Spartani[4].

Oggi, il ruolo delle sanzioni è esattamente lo stesso. Oltre a voler strangolare l’economia della Repubblica Islamica nella speranza di provocarne l’implosione, col regime sanzionatorio e l’embargo petrolifero gli Stati Uniti si prefiggono l’obiettivo di scatenare una reazione iraniana, in modo tale da poter giustificare l’azione militare diretta (se necessaria) o di imporre la neutralizzazione della stessa per mezzo di una nuova capitolazione negoziale.

La reazione iraniana non si è fatta attendere; ma ha avuto il merito di mantenere una linea strategica assolutamente coerente. Oltre a mettere in discussione alcuni punti dell’accordo sul nucleare per far sì che le parti europee prendessero una posizione definitiva per aggirare le sanzioni unilaterali nordamericane, i vertici di Teheran, consci del fatto che gli USA non possono rischiare di scatenare una nuova guerra (anche perché molti dei loro militari sono potenzialmente esposti ad attacchi in Paesi dove l’influenza geopolitica iraniana è notevole, come l’Iraq e la Siria) hanno fatto sapere per bocca di Yadollah Javani (Vice Capo dell’Ufficio Affari Politici della Guardie Rivoluzionarie) che non ci sarà alcun nuovo negoziato con l’America a causa della sua sostanziale inaffidabilità.

È chiaro che il successo della linea iraniana dipenderà dalla cooperazione delle altre componenti del “blocco eurasiatico”. Russia, Cina, ed anche India, non possono permettersi di abbandonare uno dei loro principali alleati commerciali e strategici (come invece sperano gli strateghi di Washington); anche, e soprattutto, perché nessuno garantisce loro che ciò che avviene oggi nei confronti dell’Iran un domani non possa accadere nei loro stessi confronti.

Tuttavia permangono elementi, maggiormente connessi alla progettualità geopolitica di Washington, i quali fanno presupporre che l’attuale nuova aggressione all’Iran si protrarrà più a lungo del solito. In primo luogo, non sorprende affatto notare che i mezzi di informazione occidentali e la retorica di molti politici ed intellettuali asserviti ai disegni geopolitici del trumpismo e non, stanno costituendo una sorta di fronte unico nella criminalizzazione e demonizzazione dell’Iran. È un sistema di propaganda che negli ultimi giorni ha toccato nuovi vertici di falsità e calunnie. L’emittente Fox News (nota per la diffusione di notizie false e per la sua vicinanza agli ambienti neoconservatori nordamericani), ad esempio, avrebbe portato alla luce documenti (ottenuti nella presunta incursione contro l’abitazione del capo di al-Qaeda Osama bin Laden in Pakistan nel 2011) che rivelerebbero una pluriennale collaborazione tra l’Iran e l’organizzazione terroristica. Una collaborazione fondata sull’addestramento, da parte di alti esponenti di Hezbollah e delle Forze al-Quds delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, di militanti di Hamas, del Gihad Islamico, di al-Qaeda (sic!) e, addirittura, di agenti dei servizi segreti cubani e venezuelani (sic!) in una sorta di riedizione del celebre “axis of evil” reso famoso dall’amministrazione Bush Jr.[5]

In questo contesto non è necessario mettere in luce la palese incongruenza di simili affermazioni. Basterà ricordare lo “sforzo” (inteso proprio nel senso etimologicamente corretto del concetto teologico di “gihad”) che l’Iran ha effettuato per contrastare il terrorismo sostenuto dagli USA e dai loro alleati regionali tanto in Iraq quanto in Siria.

Preso atto della sostanziale disonestà intellettuale e politica con la quale, spesso e volentieri, l’Occidente si rapporta all’Iran, si rende ora necessario comprendere le ragioni di questa nuova aggressiva operazione statunitense. Che l’Iran rientri tra quelle “antiche e combattive civiltà dell’Eurasia” che impensieriscono l’egemonia globale nordamericana è cosa nota sin dall’elaborazione teorica dello “scontro delle civiltà” da parte dell’ideologo Samuel P. Huntington, elaborazione teorica di cui l’attuale visione geopolitica trumpista altro non è che una ulteriore ed estrema volgarizzazione.

Qui, inoltre, non si vuole mettere in discussione il fatto che possa esistere una certa dialettica, tutta interna all”’impero” (il minuscolo e le virgolette sono necessari), che taluni (sbagliando clamorosamente) hanno cercato di utilizzare a proprio vantaggio. Tale dialettica, infatti, si attua nello scontro tra chi pensa di poter ridisegnare l’ordine globale in modo da poter comunque mantenere una certa preminenza nordamericana all’interno del futuro mondo multipolare e chi invece desidera mantenere inalterata l’attuale e pressoché totale egemonia statunitense, spezzando sul nascere le reni degli avversari. Ciò che molti analisti odierni non comprendono (ed in molti casi non vogliono comprendere) è il fatto che queste due “visioni” altro non sono che le due facce della stessa identica medaglia; che entrambe si nutrono di quella idea messianica di “destino manifesto” che guida l’orientamento metapolitico di Washington; ma, soprattutto, che un ordine multipolare a trazione nordamericana è una contraddizione in termini.

Dunque, cosa ha realmente spinto gli USA ad inasprire in questo momento lo scontro con il Paese degli ayatollah, a portare i suoi bombardieri B-52 nella base di al-Udeid in Qatar (la più grande base statunitense nella regione) ed a dispiegare la portaerei USS Abraham Lincoln nelle vicinanze del Golfo Persico?

È opportuno iniziare dalla motivazione decisamente più “abbietta”. Nessuno può mettere in dubbio il fatto che il potente Consigliere alla Sicurezza John Bolton, dopo il terribile fiasco venezuelano, avesse necessità di dare in pasto all’opinione pubblica una nuova emergenza per distrarla dal “patio trasero”: una tattica ben nota anche ai molti epigoni europei del trumpismo, che sull’emergenza permanente costruiscono le loro fortune elettorali.

In termini prettamente geopolitici, l’ossessione iraniana, oltre che con la volontà di annientare un modello alternativo alla civilizzazione tecnico-capitalistica occidentale, si spiega con la necessità di garantirsi un dominio energetico che possa assicurare agli USA qualche altro decennio di egemonia globale. In questo senso è altrettanto evidente che una qualsiasi forma di destabilizzazione della massa continentale eurasiatica ha anche lo scopo di ostacolare e ritardare la realizzazione del colossale progetto infrastrutturale cinese noto come Nuova Via della Seta; tale progetto è in grado di attuare una rivoluzione geopolitica spaziale e di garantire inedite (quanto pericolose per gli USA) forme di collaborazione all’interno del continente.

Nella volontà di dominio energetico si inscrivono anche l’attacco al Venezuela bolivariano e la penetrazione nel mercato petrolifero libico, grazie alla fallace promessa di una “cabina di regia congiunta” fatta all’Italia[6]. E questo obiettivo geoeconomico è inevitabilmente collegato con il progressivo sgonfiamento della cosiddetta “shale oil revolution”: ovvero, la bolla finanziaria e geopolitica che si nasconde dietro la fratturazione idraulica per estrarre il gas e l’olio di scisto. Un sistema che ha posizionato “artificialmente” gli USA davanti a Russia e Arabia Saudita come principale produttore di petrolio al mondo, un’operazione che ha prodotto un altrettanto artificiale indipendenza energetica degli USA.

In realtà questa industria, dopo quasi un decennio di generoso sostegno economico da parte delle banche di investimento su pressione della Federal Reserve in quanto settore strategico, ha iniziato a perdere pesantemente utili e le previsioni sulla produzione sono state abbondantemente tagliate[7]

A ciò si aggiunga la convinzione di molti ambienti neoconservatori che una nuova guerra, potenzialmente catastrofica (come inevitabilmente sarà quella contro l’Iran) possa riaffermare l’egemonia globale degli Stati Uniti.

Non è inoltre da sottovalutare il fatto che le rinnovate pressioni sull’Iran sono finalizzate a rimuovere gli ostacoli che si frappongono a quello che viene presentato come “l’accordo del secolo”. Il progetto, preparato dal genero e consigliere di Donald J. Trump, l’ultrasionista Jared Kushner, vorrebbe porre fine una volta per tutte alla questione arabo-israeliana, da una parte garantendo sicurezza all’entità sionista con l’assicurarle le fresche annessioni di Gerusalemme e delle Alture del Golan, dall’altra offrendo ai Palestinesi uno pseudo-Stato a sovranità limitatissima. Allo stesso tempo, però, la Casa Bianca ha fatto sapere che, se la componente palestinese non dovesse accettare l’accordo, gli USA sosterranno qualsiasi azione sionista volta al loro totale annientamento[8].

Se per tale operazione il trumpismo è riuscito a garantirsi, ancora una volta, la complicità del wahhabismo, garantendo a Riyadh la possibilità di costruirsi armi nucleari, difficilmente potrà fare lo stesso con una Nazione che grazie all’Islam ed alla lotta contro l’oppressione, è stata capace di recuperare, in termini heideggeriani, il suo “Esser-ci autentico”.

Il popolo iraniano, rigettando nel 1979 un modello di civilizzazione ad esso alieno, ha sfidato apertamente l’universalismo uniformante occidentale ed ha optato per ristabilire la verità nella propria esistenza. L’immane sacrificio di questo popolo, sottoposto a vili regimi sanzionatori e ad aggressioni terroristiche e mediatiche di vario genere, alla pari del sacrificio dell’Imam Hussein a Kerbala, non fa altro che rappresentare il prodigarsi dell’umanità nella salvaguardia delle sue necessità principali: la verità e la giustizia.


NOTE

[1]Claudio Mutti, Talassocrazia e sanzioni, “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”, II/2014.

[2]Ben Jacobs, Trump Wanted Assad Assassinated: Key Claim in Bob Woodward’s Book, su www.theguardian.com.

[3]Kathy Gilsinan, A Boom Time for U.S. Sanctions, su www.theatlantic.com.

[4]Talassocrazia e sanzioni, ivi cit.

[5]Hollie McKay, More Evidence Emerges of Iran – al-Qaeda Ties, su www.foxnews.com.

[6]Si veda NOC Inaugurates its First Headquarter in Houston, su www.libyaobserver.ly.

[7]Alfredo Jalife-Rahme, Si sgonfiano le società del fracking negli Stati Uniti, su www.controinformazione.info.

[8]Jonathan Cook, The ‘Deal of the Century’: US blessing for Israel’s land theft and ghettoisation of the Palestinians, su www.middleeasteye.com. Si veda anche Medio Oriente: quotidiano israeliano pubblica dettagli accordo di pace proposto da Trump, su www.agenzianova.com.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).