Claudio Mutti

 

Il testo pubblicato qui di seguito ricostruisce l’intervento tenuto dal direttore di “Eurasia” il maggio 2016 a Modena, per presentare gli ultimi due numeri di “Eurasia” (“Migrazioni” e “I Balcani”).

Gli ultimi due numeri di “Eurasia” (il 40 e il 41) sono dedicati a due temi ben distinti, attinenti a due realtà di diversa natura: uno riguarda il fenomeno degli spostamenti di popolazione da una sede ad un’altra, l’altro riguarda una regione dell’Europa, la penisola balcanica.

Tuttavia fra questi due termini, migrazioni e Balcani, esiste un certo rapporto, che, vedremo, non consiste semplicemente nel fatto che attraverso la cosiddetta “rotta balcanica” si è inoltrata in Europa l’ondata migratoria proveniente dal Vicino Oriente.

Ma cerchiamo innanzitutto di definire sia l’uno sia l’altro termine.

 

Balcani e balcanizzazione

Propriamente, Balcani (dal turco balkan, “montagna”) è un oronimo, ossia il nome di un sistema montuoso: è la catena montuosa che si estende dal fiume Timok, affluente di destra del Danubio, fino al Capo Emine sul Mar Nero.

Di qui le denominazioni Balcania e Penisola balcanica, con le quali i geografi indicano la penisola limitata ad est dal Mare Egeo, a sud dal Mediterraneo, ad ovest dallo Jonio e dall’Adriatico. A nord, l’interpretazione più estensiva fissa il confine di questa penisola in corrispondenza della linea immaginaria Trieste-Odessa; ma per lo più si tende ad assumere come limite settentrionale la linea segnata dal corso inferiore del Danubio, da quello della Sava e del suo affluente Kupa (tra Slovenia e Croazia, non lontano da Fiume).

In conformità di questo secondo punto di vista, possono essere considerati paesi balcanici a pieno titolo la Bulgaria, l’Albania, la Grecia e gli Stati successori della Jugoslavia (tranne la Slovenia, che viene inserita nel gruppo dei “paesi alpini”, ma è ritenuta parte integrante dei Balcani per varie ragioni). Paesi parzialmente balcanici, infine, sono la Romania e la Turchia.

Su questo territorio è stanziata una decina di popoli, nonché vari gruppi etnici minori; vi si parlano idiomi di diversa origine (tre o quattro lingue slave, il romeno, l’albanese, il neogreco, il turco) e vi si praticano confessioni religiose diverse (l’Ortodossia, il Cattolicesimo, l’Islam).

Il complesso mosaico costituito da una tale varietà etnica e culturale ha offerto agli strateghi dello “scontro delle civiltà” la possibilità di teorizzare, a fini pratici, quel genere di conflitti che uno studioso statunitense, Samuel Huntington, ha chiamati “guerre di faglia”: ossia i conflitti fra Stati o gruppi etnici appartenenti a civiltà diverse.

A volte, scrive Huntington, le “guerre di faglia” hanno come obiettivo il controllo di popolazioni. “Più di frequente, – prosegue – la posta in palio è il controllo territoriale. Obiettivo di almeno uno dei belligeranti è conquistare territorio e liberarlo da chi vi abita mediante espulsione coatta, eliminazione fisica, o entrambe le cose, vale a dire mediante operazioni di ‘pulizia etnica’. Simili conflitti tendono ad essere particolarmente violenti e brutali, con il ricorso da entrambe le parti al massacro, al terrorismo, allo stupro e alla tortura. Spesso il territorio oggetto di contesa è per uno o per entrambi i contendenti un simbolo vitale della propria storia ed identità, terra sacra sulla quale vantano un diritto inviolabile: la Cisgiordania in Palestina, il Kashmir, il Nagornyj-Karabach, la valle della Drina, il Kosovo”. Ebbene, è stata proprio la costruzione statale più rappresentativa di tutto il mosaico balcanico, ossia la Federazione Jugoslava, a fornire il terreno per “il più complesso, confuso e variegato intreccio di guerre di faglia dei primi anni Novanta”. (Samuel P. Huntington, op. cit., p. 419).

La realtà balcanica possiede dunque tutti i titoli necessari perché il termine Balcani, in quanto nome della rispettiva regione, possa dar luogo a quella metafora geopolitica che Zbigniew Brzezinski (consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter, dal 1977 al 1981) ha applicata ad una sua teoria particolarmente eversiva e distruttiva: la teoria dei “Balcani eurasiatici”.

I Balcani eurasiatici (The Eurasian Balkans) è il titolo di un capitolo del libro La grande scacchiera (The Grand Chessboard), dove Brzezinski, indicando quelli che il sottotitolo stesso dell’opera definisce come gli “imperativi geostrategici” della superpotenza nordamericana, suggerisce ai politici statunitensi di favorire e di utilizzare l’anarchia etnica, religiosa e politica allo scopo di dominare l’intero continente eurasiatico.

“In Europa – scrive Brzezinski a p. 123 – la parola Balcani evoca immagini di conflitti etnici e di rivalità regionali di grandi potenze. Anche l’Eurasia ha i suoi Balcani, ma i Balcani eurasiatici sono molto più estesi, più popolosi, ancor più eterogenei sotto il profilo religioso ed etnico. Si trovano in quell’ampia ed oblunga area geografica che contrassegna la zona centrale di instabilità globale (…) che abbraccia porzioni dell’Europa sudorientale, l’Asia centrale e parti dell’Asia meridionale, l’area del Golfo Persico e il Medio Oriente”.

Brzezinski ritiene che gli Stati Uniti debbano balcanizzare lo spazio compreso tra Nordafrica e Asia Centrale, se vogliono impedire il consolidamento della grande alleanza tra Russia, Cina e Iran, alleanza che presidierebbe il continente eurasiatico e ridimensionerebbe in maniera decisiva la potenza statunitense.

Brzezinski formula la seguente ipotesi (p. 35): “Se lo Spazio Centrale [“the middle space“, lo Spazio di Mezzo del continente eurasiatico] respinge l’Occidente, diventa un’unica imperiosa entità [“an assertive single entity”] ed acquisisce il controllo sul Sud o stabilisce un’alleanza col grande protagonista orientale [“the major Eastern actor“, ossia con la Cina], allora il primato dell’America in Eurasia crollerà in maniera drammatica. Avverrebbe la stessa cosa – aggiunge Brzezinski – se i due protagonisti orientali dovessero in qualche modo unirsi”.

In altre parole: se la Federazione Russa riuscisse a respingere ed a far indietreggiare l’avanzata dell’Alleanza Atlantica e cercasse di riorganizzare lo spazio ex sovietico secondo una qualche forma di confederazione o di blocco sopranazionale, guadagnando influenza nel Vicino Oriente o stabilendo un’alleanza con la Repubblica Popolare Cinese, allora l’influenza di Washington in Eurasia verrebbe definitivamente eliminata.

Ora, è chiaro che lo “Spazio Centrale”, la Russia, sta recuperando il peso geopolitico che aveva perduto col crollo dell’Unione Sovietica. Non solo, ma lo “Spazio Centrale” (la Russia) e il “Paese di Mezzo” (Zhongguo, la Cina) hanno coordinato da tempo le loro forze.

Ciò è avvenuto già prima che si formasse l’Unione Eurasiatica. Alla fine degli anni Novanta la Federazione Russa e una parte dello spazio postsovietico cominciarono a stabilire con la Cina un’intesa che ha prodotto l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e il coordinamento strategico di Pechino con Mosca al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il grande accordo russo-cinese del gas naturale non è se non un risultato di questa alleanza fra lo “Spazio Centrale” e il “Paese di Mezzo”.

Se Brzezinski ha fatto uso della metafora dei Balcani applicandola al suo progetto di frammentazione dello “Spazio Centrale”, nel vocabolario geopolitico esiste un lemma specifico – balcanizzazione – che è applicabile sia alla condizione di un’area afflitta da instabilità e disordine cronici dovuti a conflitti etnici e religiosi, sia al processo di disgregazione degli Stati che tale condizione spesso comporta.

Per citare un solo esempio: analizzando il fenomeno della frammentazione degli Stati e della corrispondente proliferazione di entità statuali minori, il geopolitico François Thual (Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro) applica il concetto di balcanizzazione sia all’emergere delle nazioni dell’America latina, sia alla devoluzione della parte araba dell’Impero ottomano.

Questo termine, balcanizzazione, nacque nelle cancellerie europee alla fine della prima guerra mondiale, che segnò la scomparsa di quattro imperi e la nascita di entità statuali mai esistite prima d’allora: fra le quali, nella Penisola Balcanica, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, che poi si chiamerà Jugoslavia; ma già nei cento anni precedenti (intercorsi fra la rivolta serba del 1815 e la fine della seconda guerra balcanica, nel 1913) l’Europa aveva assistito all’ultima fase dell’indebolimento ottomano ed alla nascita di sei nuovi Stati nella Penisola Balcanica: Grecia, Serbia, Montenegro, Romania, Bulgaria, Albania.

         Alla fine della prima guerra mondiale, dunque, l’Europa orientale ed il Vicino Oriente furono sottoposti a una serie di dissezioni territoriali. Sia l’Impero ottomano sia le tre grandi potenze dell’Europa centrale ed orientale – Impero austro-ungarico, Impero prussiano ed Impero russo – furono ridotti territorialmente o suddivisi in Stati minori. L’Impero ottomano e l’Impero austro-ungarico furono propriamente balcanizzati.

Quanto all’ex Impero russo, esso era già stato mutilato nel 1918, col Trattato di Brest-Litovsk, che aveva sancito la vittoria degli Imperi centrali sul fronte orientale, la resa della Russia e la sua uscita dalla guerra. Il Trattato di Brest-Litovsk fu di fondamentale importanza nel determinare la nascita di sei nuovi Stati, giustificata in base ai concetti di “democrazia” e di “autodeterminazione” proclamati dai Quattordici Punti di Woodrow Wilson: Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania , Polonia e Ucraina.

 

La “testa di ponte” per il controllo dell’Eurasia

L’importanza dell’Ucraina nella strategia del controllo americano sull’Eurasia è stata lucidamente evidenziata da Brzezinski circa vent’anni fa, quando non era facile immaginare il ruolo centrale che questo paese avrebbe assunto sulla “grande scacchiera” eurasiatica.

Eppure il geopolitico americano aveva indicato chiaramente la funzione di “perno” (pivot) svolta dall’Ucraina e la sua importanza vitale per la Russia e per l’intera Eurasia.

“L’Ucraina, un nuovo ed importante spazio sullo scacchiere eurasiatico, – possiamo leggere in The Grand Chessboard (p. 46) – è un perno geopolitico, perché la sua esistenza stessa come paese indipendente serve a trasformare la Russia. Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. La Russia senza l’Ucraina può ancora lottare per uno statuto imperiale, ma allora diventerebbe uno Stato imperiale prevalentemente asiatico, più facilmente trascinabile in conflitti debilitanti con le risorte popolazioni dell’Asia centrale (…) Comunque, se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina, coi suoi 52 milioni di abitanti e le sue grandi risorse, nonché l’accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente ritrova il modo per diventare un potente Stato imperiale, esteso sull’Europa e sull’Asia”.

Per Brzezinski, l’importanza dell’Ucraina è dovuta al fatto che essa agisce da scudo difensivo dell’Europa centrale e controlla i confini occidentali e meridionali della Russia.

Questo è lo sfondo strategico dell’interesse americano per l’Ucraina, espresso nel documento che la NATO e l’Ucraina hanno siglato nel 1997 per formalizzare il loro rapporto di partenariato.

In questo documento possiamo leggere: “Il ruolo positivo della NATO consiste nel mantenimento della pace e della stabilità in Europa, nella promozione di maggiore fiducia e trasparenza nell’area euro-atlantica, nell’apertura alla cooperazione con le nuove democrazie dell’Europa centrale e orientale, di cui è parte inseparabile l’Ucraina”.

Sono quasi vent’anni, dunque, che gli Stati Uniti considerano l’Ucraina come una parte del campo atlantista.

Quanto alla strategia dettata da Brzezinski, è evidente che essa si ispira alla visione geopolitica di Sir Harold Mackinder, dal quale, d’altronde, il geopolitico statunitense riprende espressamente questa formula celeberrima:

Who rules East Europe commands the Heartland;

Who rules the Heartland commands the World-Island;

Who rules the World-Island commands the world”.

Ovvero:

“Chi governa l’Europa orientale, domina il Territorio Centrale [dell’Eurasia];

Chi governa il Territorio Centrale dell’Eurasia, domina l’Isola-Mondo [ossia il complesso Eurasia-Africa];

Chi governa l’Isola-Mondo, domina il mondo”.

Per questo motivo gli Stati Uniti devono impedire ad ogni costo che Mosca recuperi la propria egemonia sull’Ucraina.

Da parte loro l’Unione Europea e le cancellerie di alcuni paesi europei, appoggiando il colpo di Stato di Maidan, fornendo aiuto politico e militare al regime golpista di Kiev ed appoggiando le iniziative antirusse del governo statunitense, hanno collaborato attivamente alla realizzazione del piano elaborato dallo stratega della Casa Bianca, secondo il quale l’Europa costituisce la “testa di ponte democratica” degli Stati Uniti nel continente eurasiatico. Testualmente: “Europe is America’s essential geopolitical bridgehead on the Eurasian continent”.

“Un’Europa allargata e una NATO allargata – afferma esplicitamente Brzezinski a p. 199 – serviranno bene, entrambe, gli obiettivi di breve e di lungo termine della politica statunitense. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana (…) senza creare, allo stesso tempo, un’Europa politicamente così integrata che sia subito in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni geopolitiche di grande importanza per l’America in altre regioni, in particolare nel Medio Oriente”. Un anno prima che il geopolitico Brzezinski assegnasse all’Europa il ruolo di “testa di ponte” (bridgehead) per la conquista americana dell’Eurasia, l’ideologo dello “scontro delle civiltà”, Samuel Huntington, aveva teorizzato in relazione all’Ucraina la necessità di “un forte ed efficace sostegno occidentale, che a sua volta potrebbe giungere solo qualora i rapporti tra Russia e Occidente si deteriorassero come ai tempi della Guerra Fredda”.

L’obiettivo degli Stati Uniti in Europa è sempre quello: creare tensioni geopolitiche per allontanare l’Unione Europea da Mosca. Così, anche la secessione dell’Ucraina è stata appoggiata per impedire la contiguità fra l’Unione Europea e l’Unione Eurasiatica e la loro collaborazione.

 

Balcanizzazione del Vicino Oriente e del Nordafrica

Anche nel Vicino Oriente la strategia americana ha alimentato e utilizzato le tensioni per indebolire gli alleati della Russia e, in particolare, per impedire il formarsi di un’alleanza guidata dalla Repubblica Islamica dell’Iran, considerata una minaccia mortale sia dal regime sionista sia dalle monarchie petrolifere.

Se sul fronte ucraino il progetto statunitense si è avvalso della collaborazione scoperta e diretta dell’Unione Europea, sui fronti del Vicino Oriente e del Nordafrica la strategia del “caos creativo” (il “creative chaos”) teorizzato dai neocons utilizza i movimenti eterodossi e settari di matrice wahhabita e salafita, tra i quali è infine emerso il sedicente “Stato Islamico in Iraq e nel Levante”, noto sotto l’acronimo arabo di Daesh e sotto quello anglosassone di Isis.

La natura eterodossa e settaria di queste forze è perfettamente funzionale agli obiettivi degli strateghi del caos, tant’è vero che ha scatenato una sorta di guerra intraislamica (forse potremmo chiamarla una “guerra civile islamica”) che contribuisce potentemente a destabilizzare l’area compresa fra la Tunisia e l’Iraq e attraverso il terrorismo minaccia la stessa sicurezza dell’Europa.

Considerato da una prospettiva geopolitica, tutto ciò può essere inserito nello scenario disegnato dall’americano Nicholas J. Spykman (1893-1943), del quale ricordo una celebre formula: “Chi controlla il territorio costiero dell’Eurasia [Rimland] governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo”. Spykman suggerisce perciò agli Stati Uniti di concentrare il loro impegno sul Rimland, quella lunga fascia semicircolare che abbraccia il “territorio centrale” dell’Eurasia (il mackinderiano Heartland) dalle coste atlantiche dell’Europa fino al Giappone.

Siccome le coste meridionali e orientali del Mediterraneo sono un segmento del Rimland, Spykman ritiene necessario che esse vengano mantenute in uno stato di perenne disunione e instabilità.

In altre parole, gli Stati Uniti devono balcanizzare l’area mediterranea.

Oggi, pur concedendo che i movimenti di protesta e di eversione nel Nordafrica e nel Vicino Oriente abbiano avuto un’origine endogena e un’esplosione imprevista, non si può non constatare che gli Stati Uniti, dopo alcune iniziali esitazioni del loro Presidente, li hanno guardati con simpatia, li hanno patrocinati e sostenuti.

Le organizzazioni non governative e le varie associazioni dirittumaniste sostenute dalla CIA e dal Dipartimento di Stato hanno intensificato le loro attività nella regione, in conformità con la raccomandazione che fin dal 1993 Samuel Huntington aveva rivolta al governo americano: allacciare stretti legami con tutti coloro che, all’interno del mondo islamico, difendono i valori e gl’interessi occidentali.

Lo stesso “New York Times” ha riconosciuto che “alcuni movimenti e capi politici direttamente impegnati nelle rivolte del 2011 nel Nordafrica e in Medio Oriente (…) hanno ricevuto addestramento e finanziamenti dall’International Republican Institute, dal National Democratic Institute e dalla Freedom House”. Quest’ultima organizzazione, in particolare, già nel 2010 aveva accolto negli USA un gruppo di attivisti egiziani e tunisini, per insegnar loro a “trarre beneficio dalle opportunità della rete attraverso l’interazione con Washington, le organizzazioni internazionali e i media”.

Anche il National Endowment for Democracy ha comunicato ufficialmente, tramite il suo sito informatico (www.ned.org), di aver versato nel 2010 più di un milione e mezzo di dollari ad organizzazioni egiziane impegnate nella difesa dei “diritti umani” e nella promozione dei “valori democratici”.

Ai finanziamenti del National Endowment for Democracy e di altri enti statali americani si sono aggiunti i fondi stanziati dalla Open Society Foundation di George Soros, che nel 2010 ha finanziato organizzazioni e movimenti in tutto il mondo arabo e in particolare in Egitto e in Tunisia. Se poi si risale al 2009 e ci si limita a considerare l’Egitto, il bilancio dei fondi dell’USAID destinati alle organizzazioni democratiche e dirittumaniste ammonta complessivamente a 62.334.187 dollari. Una cifra enorme, che in Egitto è stata superata soltanto dai cento milioni di dollari elargiti dall’Emiro del Qatar ai Fratelli Musulmani.

Le reti eversive finanziate dagli USA hanno rovesciato i governi della Tunisia e dell’Egitto. Quanto alla Libia, i gruppi eversivi locali (Fratelli Musulmani, Al-Qaida e residui della Senussia filobritannica) hanno collaborato con gli aggressori occidentali per abbattere Gheddafi e realizzare lo scenario che il geopolitico François Thual aveva paventato in un suo libro del 2002, da me pubblicato in italiano nel 2008: “sul tracciato delle vecchie reti senussite, – scriveva Thual – l’agitazione islamista potrebbe provocare l’esplosione di questo paese artificiale e recente. Nella Cirenaica si concentrano le ricchezze petrolifere; e il regime di Gheddafi irrita certe capitali occidentali che non vedrebbero male una divisione della Libia”.

Infine, distruggendo la Libia, gli esecutori europei della strategia statunitense del “caos creativo” hanno aperto un varco attraverso cui milioni di africani si riversano sul territorio europeo.

Sul versante orientale del Mediterraneo, invece, nonostante l’appoggio statunitense, britannico, francese, turco, saudita e catariota, il terrorismo e la lotta armata non sono riusciti ad abbattere il governo di Damasco.

Grazie al soccorso fornito dalla Russia e dalla Repubblica Islamica dell’Iran e grazie al sostegno dato da Hezbollah, la Siria è ancora in piedi.

Con l’irruzione della Russia sulla scena del Vicino Oriente e col suo impegno a combattere il terrorismo (sia quello del Daesh sia quello dei cosiddetti “ribelli moderati”), la strategia di Brzezinski sui “Balcani eurasiatici” ha subito un duro colpo, poiché è stata bloccata la destabilizzazione nell’apice siriano-iracheno del cosiddetto “arco di crisi” descritto dallo stesso Brzezinski.

 

Uno strumento di balcanizzazione: le migrazioni

Un effetto collaterale della destabilizzazione e della balcanizzazione del Vicino Oriente e del Nordafrica è la fiumana migratoria che ha investito l’Europa, la quale oggi si trova ad essere balcanizzata a sua volta, nella misura in cui per balcanizzazione si intende il processo di frammentazione geopolitica causato da condizioni di instabilità e di disordine.

La fiumana incontrollata di profughi di guerra e di “migranti economici”, proveniente da Paesi destabilizzati dalle ‘primavere arabe’ e dal terrorismo alimentato dagli USA e dai loro alleati, ha creato in Europa il più grande caos sociale del periodo seguito alla seconda guerra mondiale, un caos che ha costretto alcuni Paesi europei a ripristinare le barriere confinarie di Stato all’interno dell’Unione Europea.

Esistono fondati motivi per ritenere che l’Europa abbia a che fare con quelle che un’ex assistente del senatore John Kerry ed ex consulente del Pentagono, Kelly M. Greenhill, chiama coercive engineered migrations, ossia “migrazioni progettate coatte”.

Kelly Greenhill è autrice di uno studio, Weapons of Mass Migration, che mostra come in certi casi il fenomeno migratorio abbia un carattere non naturale, ma artificiale, e rappresenti un mezzo di coercizione nei rapporti interstatali.

Le “migrazioni progettate coatte” (coercive engineered migrations) si configurano perciò come un’arma non convenzionale, usata per combattere quella che due polemologi cinesi, i colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui, in un’opera ormai diventata “classica”, hanno chiamata “guerra senza limiti”.

(È degno di nota il fatto che questi due polemologi accostano esplicitamente a Bin Laden il famigerato George Soros, il quale è stato citato dal primo ministro ungherese Viktor Orbán in relazione al massiccio arrivo in Europa di sedicenti profughi provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente.

“Il nome di Soros – ha detto Orbán – rappresenta forse il caso più noto di coloro che sostengono tutto ciò che sovverte il tradizionale stile di vita europeo”, mentre gli attivisti delle sue organizzazioni, fornendo assistenza legale e pratica agl’immigrati clandestini, “diventano inavvertitamente parte della rete internazionale di contrabbando di esseri umani”).

Nell’epoca della “guerra senza limiti”, l’individuazione ed il costante studio di armi asimmetriche è un compito di ricerca sociologica estremamente importante.

Se Mahdi Darius Nazemroaya, nella sua monografia dedicata alla storia della NATO ed alla progressiva estensione geografica del quadro operativo dell’Alleanza all’intero globo, ha richiamato l’attenzione sulla vulnerabilità delle società globali di fronte a nuove forme di pressione e coercizione esterna, Kelly Greenhill considera il fenomeno migratorio come un mezzo politico impiegato per opere di ingegneria sociale, un’arma della guerra asimmetrica.

L’indagine sull’impiego e sulla strumentalizzazione del fenomeno migratorio come minaccia mediatica o politica effettiva è condotta dalla Greenhill con una notevole perizia sociologica, accompagnata da un’ampia ricerca empirica. La casistica presentata in questa sua prima monografia sul tema comprende ben 64 casi di Paesi coinvolti nella “guerra migratoria” nell’arco di oltre cinquant’anni.

Alla luce dello studio condotto dalla Greenhill, le migrazioni di massa che stanno investendo l’Europa rivelano la loro natura di arma non convenzionale, finalizzata a scardinarne l’assetto sociale al fine di perpetuare l’assoggettamento dell’Europa al dominio atlantico.

D’altronde, tutto quanto il dramma della fiumana migratoria è orchestrato dai centri studi della NATO.

L’8 ottobre 2015 tra il grande flusso di centinaia di migliaia di immigrati clandestini che inondavano la Germania, nel corso di una trasmissione televisiva Angela Merkel proclamava di “avere un piano”.

Tutte le azioni apparentemente inspiegabili della Merkel sembrano risalire all’adozione di un documento di 14 pagine preparato da una rete di gruppi di riflessione affiliati alla NATO e intitolato “Piano Merkel”.

Quello che la cancelliera tedesca non disse ai telespettatori fu che “il suo” piano le era stato consegnato solo quattro giorni prima (come documento intitolato Piano Merkel) da un neonato centro studi internazionale chiamato Iniziativa per la Stabilità Europea (ESI).

Secondo il Piano attribuito alla Merkel, la Germania, oltre al milione e passa di rifugiati accolti nel 2015, dovrebbe “accettare di concedere asilo a 500.000 rifugiati siriani registrati in Turchia nei prossimi 12 mesi”. Inoltre, essa “dovrebbe accettare le richieste provenienti dalla Turchia (…) e fornire un trasporto sicuro ai candidati (…) già registrati presso le autorità turche (…)”. Infine “la Germania dovrebbe accettare di aiutare la Turchia ad avere esenzioni sul visto di viaggio per il 2016”.

L’Iniziativa per la Stabilità Europea nasce dai tentativi della NATO di trasformare il Sud-Est Europa dopo la guerra che negli anni ’90 portò alla balcanizzazione della Jugoslavia e alla creazione della base di Camp Bondsteel nel Kosovo.

L’attuale presidente dell’Iniziativa per la Stabilità Europea, direttamente responsabile del documento finale Piano Merkel, è il sociologo austriaco Gerald Knaus, membro del Consiglio Europeo per le Relazioni Estere (ECFR) e della sorosiana Fondazione per una Società Aperta.

Fondato a Londra nel 2007 sotto l’alto patronato del Filantropo Massimo, il Consiglio Europeo per le Relazioni Estere è un’imitazione dell’influente Council on Foreign Relations di New York, il centro studi creato dai banchieri Rockefeller e JP Morgan nel 1919 per coordinare la politica estera globale anglo-statunitense.

Tra i membri scelti del Consiglio: Joschka Fischer, ex-ministro degli Esteri del Partito dei Verdi, l’ex-segretario generale della NATO Xavier Solana, l’ex-ministro della Difesa tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg; Annette Heuser, direttrice esecutiva del Bertelsmann Stiftung di Washington DC; Wolfgang Ischinger, presidente della Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera; Cem Ozdemir, presidente dei Buendnis90/Die Gruenen; Alexander Graf Lambsdorff, deputato del partito liberale tedesco (FDP); Michael Sturmer, corrispondente Capo del Die Welt; Andre Wilkens, direttore della Fondazione Mercator; il commesso viaggiatore delle “rivoluzioni colorate” Daniel Cohn-Bendit.

Da un’indagine sull’Iniziativa per la Stabilità Europea effettuata da Frederick Engdahl, che fa parte del Comitato Scientifico di “Eurasia”, risulta che il centro studi presieduto da Gerald Knaus e collegato a Soros è finanziato da un’impressionante serie di donatori. Oltre alla Fondazione per una Società Aperta, vi è la Mercator Stiftung tedesco legata a Soros, e la Robert Bosch Stiftung. Altra fonte di finanziamento è la Commissione europea. Poi, curiosamente la lista dei finanziatori comprende un’organizzazione dal nome orwelliano: lo United States Institute of Peace.

Questo sedicente “Istituto della Pace” è presieduto da Stephen Hadley, ex-consigliere dell’US National Security Council dell’amministrazione Bush-Cheney. Il suo consiglio di amministrazione comprende Ashton B. Carter, l’attuale segretario della Difesa dell’amministrazione Obama; il segretario di Stato John Kerry; il Maggiore-Generale Federico M. Padilla, presidente della National Defense University degli Stati Uniti.

Altro finanziatore dell’Iniziativa per la Stabilità Europea è il German Marshall Fund, che, nonostante il suo nome, è tutt’altro che tedesco, poiché ha sede a Washington.

Dalla ricerca di Engdahl apprendiamo che “il principale obiettivo del German Marshall Fund, secondo la sua relazione annuale del 2013, è sostenere l’agenda del Dipartimento di Stato nelle cosiddette operazioni di costruzione della democrazia nei Paesi ex-comunisti dell’Europa orientale e sud-orientale, dai Balcani al Mar Nero. Nella maggior parte dei casi, il German Marshall Fund collabora con l’USAID (collegato al Dipartimento di Stato) e con la Stewart Mott Foundation (che finanzia la National Endowment for Democracy)”. La stessa Stewart Mott Foundation finanzia il Piano Merkel dell’Iniziativa per la Stabilità Europea; così pure il Rockefeller Brothers Fund.

Tutto ciò dovrebbe far capire da chi e per quali obiettivi è stato firmato l’accordo Merkel-Erdogan sulla crisi dei rifugiati nell’UE. La fazione Rockefeller-Bush-Clinton intende utilizzarlo come un grande esperimento d’ingegneria sociale per creare caos e conflitti sociali in Europa, mentre le loro organizzazioni non governative, come NED, Freedom House e fondazioni sorosiane, si agitano nel mondo musulmano.

 

 


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).