Alessandro imprigiona Gog e Magog

(…) tra due monti grande era, di rosso
bronzo, una porta (…)
(…) Il figlio dell’Ammone
la incardinò, per chiudere gli immondi
popoli (…)
(G. Pascoli, Gog e Magog)

Nel suo resoconto della conquista romana della Commagene al tempo di Vespasiano, Giuseppe Flavio rievoca il saccheggio della Media e dell’Armenia ad opera degli Alani, popolo nomade di stirpe iranica che abitava le steppe a nord-est del Mar d’Azov, tra il Don e il Mar Nero. “Il popolo degli Alani – scrive lo storico ebreo – dei quali abbiamo dichiarato in precedenza che sono Sciti che vivono presso il Tanai e la palude Meotide, avendo in quei tempi progettato di invadere la Media e le regioni situate oltre di essa per saccheggiarle, intavola trattative col re degli Ircani; costui infatti è padrone dell’accesso che il re Alessandro sbarrò con porte di ferro (pýlai sideraí)” (1). Il luogo d’accesso alla Media, controllato dal re degl’Ircani che da poco si era sottratto al dominio partico, era costituito dal valico delle Porte Caspie (Kaspiádes Pýlai), l’odierno passo di Firuzkuh alle pendici orientali dell’Alborz.
La menzione delle “porte di ferro” costruite da Alessandro Magno ci rimanda a un celebre episodio che ha come protagonista il sovrano macedone: l’imprigionamento delle orde di Gog e Magog all’interno di un’altissima muraglia. La storia, alla quale Giuseppe Flavio fa cenno, è narrata in maniera sintetica ma completa nei versetti 84-101 della coranica Sura della Caverna, dove si parla di un conquistatore divinamente ispirato, indicato come Dhû’l-qarnayn (“Possessore delle due corna”) e identificato generalmente con Alessandro Magno. Nel brano coranico si legge che Dhû’l-qarnayn, dopo aver portato a termine una campagna militare in Occidente e dopo avervi instaurato un governo fondato sulla giustizia e sul rispetto della Legge divina, si rivolse verso l’Oriente. Imbattutosi in un popolo semiselvaggio ma tranquillo, il Bicorne non cercò di cambiarne il tipo di vita, ma lo lasciò vivere secondo i suoi costumi. Infine giunse in un luogo situato tra due montagne, i cui abitanti gli fecero questo discorso: “O Dhû’l-qarnayn, in verità Ya’ğûğ e Ma’ğûğ diffondono la corruzione in questa terra (mufsidûna fî’l-ard); dobbiamo versarti un tributo, perché tu metta una barriera tra noi e loro?” (2) Il Bicorne accolse la loro richiesta, dicendo: “Il potere che il mio Signore mi ha conferito è meglio del vostro tributo; ma voi aiutatemi con la forza delle vostre braccia e io metterò tra voi e loro una muraglia. Portatemi dei blocchi di ferro” (3). Quando fu colmato lo spazio tra i versanti delle due montagne, il Bicorne ordinò agli operai di soffiare coi loro mantici, finché la massa divenne incandescente; quindi fece portare del rame liquefatto e ve lo fece versare sopra, sicché gli assalti di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ vennero frustrati. Disse infine il Bicorne: “Questa è misericordia del mio Signore; ma quando verrà il Giorno promesso dal mio Signore, Egli ridurrà in polvere la muraglia. E la promessa del mio Signore è verità” (4). Oltre a ciò, due versetti della Sura dei Profeti evocano lo scatenamento delle orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ alla fine dei tempi: “E c’è un’interdizione (harâm) su ogni popolazione che abbiamo distrutta: non ritorneranno fin quando non sarà data via libera a Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, i quali si precipiteranno giù da ogni altura” (5).
Il Profeta Muhammad, avuta la visione di un’apertura che si era prodotta nella barriera di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, ammonì: “Guai (wayl) agli Arabi! Facciano attenzione a un gran male che si sta avvicinando”; alla domanda che gli venne fatta (“Periremo anche se tra noi vi sono dei santi?”) rispose: “Sì, se la turpitudine si fa troppo grande”. In ogni caso, alla fine dei tempi il rapporto fra i seguaci del Profeta e le orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ sarà di 1 a 999: “sarete tra la gente come un pelo nero sul fianco di un toro bianco”, dice un hadîth.  Secondo un altro hadîth, alla fine dei tempi Dio aprirà la muraglia che rinchiude le orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, le quali usciranno a portare la devastazione in ogni luogo. “I primi di queste orde – prosegue il hadîth – berranno le acque del lago di Tiberiade e lo prosciugheranno; poi berranno le acque del Tigri e dell’Eufrate. Distruggeranno e mangeranno ogni cosa sulla faccia della terra. Allah, benedetto sia l’Altissimo, annienterà poi queste orde malefiche e le spazzerà via dalla faccia della terra” (6).
Sostanzialmente fedele ai termini coranici è l’esposizione della tradizione persiana del Sadd-e Sekander (“Barriera di Alessandro”) che troviamo nell’Eskandar-nâmè di Nezâmî di Gangè (1141-1204).
Ya’ğûğ e Ma’ğûğ corrispondono ovviamente ai biblici Gog e Magog. Nella visione di Ezechiele (7), Gog è il re di una non meglio precisata regione settentrionale, “la terra di Magog”, che reca il nome di uno dei sette figli di Jafet (8); nell’Apocalisse di Giovanni, Gog e Magog rappresentano le nazioni che, dopo aver dato l’assalto al campo dei santi e alla città prediletta, vengono distrutte dal fuoco celeste (9).
Ma l’analogia esistente fra il binomio biblico di Gog e Magog e quello coranico di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ si estende anche all’ambito indiano: nel Kalki-Purâna si racconta infatti come l’ultimo avatâra di Vishnu riesca ad uccidere due démoni di nome Koka e Vikoka (10).
Dalla presenza del tema in esame in testi tradizionali diversi consegue che “una caratteristica del complesso di Gog e Magog è quella di essersi diffuso in tutte le aree culturali dell’Eurasia” (11). Mentre la storia coranica del Bicorne, contaminata con la versione siriaca dello Pseudocallistene, dà origine a una rigogliosa letteratura che interessa sia il mondo musulmano, dalla Spagna alla Malesia, sia le aree cristiane dell’Egitto e dell’Etiopia (12), in Occidente l’elaborazione della leggenda di Gog e Magog ha il suo testo di maggiore rilievo nelle Rivelazioni dello Pseudometodio (13), che, inizialmente diffuse in greco o in siriaco intorno alla metà del VII secolo d. C., furono poi tradotte in latino.

Un popolo o un’orda di démoni?

Il suo vero nome era, pare, Goggins (…) Alla fine della guerra era uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti, cioè del pianeta.
(G. Papini, Gog)

Nell’età antica e in quella medioevale, sia la cultura giudaica sia quella cristiana identificano le genti di Gog e Magog con diversi popoli barbari provenienti dal nord, perché le sedi dei nemici d’Israele sono ubicate a nord, in particolare nella dorsale che collega l’Europa nordorientale al Caucaso ed al Caspio. Il Dio di Israele dice infatti a Gog, signore del paese di Magog: “Sono con te Gomer e tutti i suoi, la casa di Tergama dell’estremo settentrione e tutti i suoi, popoli numerosi. (…) verrai dalla tua regione dell’estremo settentrione” (14). Tergama, o Togarma, è l’Armenia. Per quanto riguarda Gomer, primogenito di Jafet e quindi fratello di Gog, dovrebbe trattarsi dell’antenato dei Galati, dal momento che Giuseppe Flavio scrive nelle Antichità giudaiche: “Si chiamavano Gomeriti, da Gomer, quelli che ora sono chiamati Galati dai Greci. Magog chiamò Magoghi i suoi, mentre i Greci li chiamano Sciti” (15). Nella Guerra giudaica, come si è visto, il medesimo autore identifica negli Alani (“Sciti che abitano presso il Tanai e la palude Meotide”) il popolo situato olte le Porte Caspie, cioè oltre l’accesso alla Media che era stato sbarrato da Alessandro. E alani saranno i popoli di Gog e Magog anche per un ebreo del XII secolo, Beniamino di Tudela (16).
Non solo sciti e alani: Gog e Magog furono volta a volta unni, ungari, cumani, peceneghi, turchi, tartari, mongoli. Gli Ungari, diventati cristiani, dovettero ricollegare la loro origine all’albero genealogico dell’umanità tracciato dai testi biblici, cosicché accettarono di riconoscersi discendenti di Magog. Nelle prime pagine delle Gesta Hungarorum, redatte dall’anonimo P. Magister all’inizio del XII secolo, leggiamo: “Nella regione orientale vicina alla Scizia c’erano le genti di Gog e Magog, che Alessandro Magno isolò dal mondo rinserrandole (…) Il primo re della Scizia fu Magog, il figlio di Jafet, e dal re Magog quella nazione prese il nome di magyar. Dalla discendenza di questo re germogliò il famosissimo e potentissimo re Attila. (…) Molto tempo dopo, dalla stirpe del medesimo re Magog nacque Ügyek, padre del duce Álmos, dal quale sono discesi i re e i duci dell’Ungheria” (17). Anche l’autore del Chronicum pictum del 1358 ripropone la tesi della discendenza da Magog, ma contamina la storia biblica con la tradizione magiara, inserendo Hunor e Magor, mitici antenati degli Unni e degli Ungari, nella genealogia desunta dalla Genesi biblica (18). La stessa tesi è ribadita dalla Cronaca quattrocentesca di Thuróczi: “Dunque, come afferma la Sacra Scrittura e come dicono i maestri (doctores), gli Ungari sono discesi da Magog figlio di Jafet, il quale – come riferisce il vescovo San Sigilberto nella cronaca antiochense delle nazioni orientali – nell’anno 58 dopo il diluvio entrò nella terra di Eiulath e da sua moglie Enech generò i già menzionati Hunor e Magor, da cui gli Unni e i Magiari hanno tratto la stirpe ed il nome” (19). E ancora nel 1905 il poeta ungherese Endre Ady si dirà “figlio di Gog e di Magog”.
Secondo la Povest’ vremennych let, cronaca russa del XII secolo, alle orde imprigionate da Alessandro deve essere ricondotta l’origine dei popoli turchi. Rievocando le incursioni cumane avvenute nell’anno 6604 (=1096) nei dintorni di Kiev, il cronista, al fine di inquadrare la stirpe degli invasori pagani, riporta questo brano di Metodio di Patara: “Alessandro, imperatore macedone, giunse nei paesi orientali e fino al mare, nel paese detto del Sole, e vide qui uomini impuri della tribù di Jafet, dunque vide le loro oscenità (…) Avendo visto ciò Alessandro il Macedone, temendo che essi si moltiplicassero e profanassero la terra, li respinse nei paesi a settentrione tra le alte montagne, e, per volere di Dio, le grandi montagne si strinsero attorno ad essi, non si unirono le montagne soltanto per 12 braccia, e qui vennero erette porte di bronzo, e vennero unte con il sunklit (20): né il fuoco può bruciarlo né il ferro espugnarlo. Negli ultimi giorni verranno fuori otto tribù dal deserto di Jatreb, e verranno fuori anche questi popoli immondi, che sono tra le montagne boreali per volere divino” (21). Basandosi sull’autorità di Metodio, la Povest’ afferma che delle otto tribù del deserto di Jatreb quattro sono state distrutte al tempo di Gedeone, mentre dalle altre quattro hanno tratto origine i Turcomanni, i Peceneghi, i Turchi, i Cumani. “E Ismaele generò dodici figli, dai quali discesero i Turcomanni, e i Peceneghi, e i Turchi e i Cumani, cioè i Polovcy, che sono venuti dal deserto. E più tardi, queste otto tribù, al limitare del mondo hanno generato uomini impuri murati nella montagna da Alessandro il Macedone” (22). In tal modo la cronaca russa innesta sull’albero iafetico la progenie di Ismaele.
Fra i testi medioevali che identificano le genti di Gog e Magog con i Turchi, particolarmente degna di nota è la Cosmographia attribuita ad Etico Istrico. I Turchi, che secondo una paretimologia proposta da questo testo si chiamano così perché sono un “popolo truculento” (gens truculenta) (23), alla fine dei tempi devasteranno la terra. E Alessandro il Macedone, che in un anno e quattro mesi riuscì a rinchiuderli nelle terre del Nord, al di là delle Porte Caspie, può esser detto “Magno” proprio per aver inventato “tanti strumenti utili a respingere la follia degli uomini selvaggi (agrestium hominum vesaniam), che un giorno verranno certamente liberati, quando giungerà il tempo dell’Anticristo (temporibus antechristi), perché perseguitino i popoli pagani e puniscano i peccatori (in persecutionem gentium vel ultionem peccatorum)” (24).
Nel Milione si legge che la provincia di Tenduc, sulla quale regna Giorgio, un discendente del Prete Gianni, è lo stesso luogo “che noi chiamamo Gorgo e Magogo, ma egli lo chiamano Nug e Mungoli” (25). Marco Polo, che sulla scorta dei viaggiatori musulmani identifica il Muro di Alessandro con la Grande Muraglia cinese, identifica i “Nug” (“Ung” nella versione francese del Milione) con la tribù nestoriana degli Öngüt, e i “Mungoli” coi Tartari.
Mentre ebrei e cristiani hanno creduto di ritrovare le caratteristiche delle bibliche genti di Gog e Magog nei vari popoli che, affluendo dal cuore dell’Eurasia verso occidente, hanno minacciato lo spazio da loro abitato, la cultura islamica è stata meno propensa ad assegnare un preciso contenuto etnico all’archetipo coranico di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ. Infatti il Corano, come si è visto, si astiene completamente dal fornire una qualche indicazione che possa contribuire a identificare le orde in questione con una o con più popolazioni storiche. Nel planisfero disegnato nel 1154 da Al-Idrîsî per il Kitâb Ruğâr (26), le genti di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, localizzate in due porzioni dell’estrema periferia terrestre, sono ben distinte dagli Alani, così come dai Peceneghi e dagli altri popoli turchi. Ibn Khaldûn, che si basa sulla carta geografica di Al-Idrîsî, si limita a fornire dati relativi all’ubicazione delle sedi di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, ma non si impegna affatto nel compito di precisarne l’appartenenza etnica. “Vi sono nel Nord, – scrive Ibn Khaldûn – nazioni e razze distinte tra loro e chiamate con nomi diversi: Turchi, Slavi, Tughuzghuz, Cazari, Alani, Franchi, Gog e Magog” (27). I paesi di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ occupano la decima sezione della sesta “zona” (iqlîm, dal gr. klíma); nella nona sezione della sesta zona, a separare Ya’ğûğ e Ma’ğûğ dai Kimäk, dagli Adhkish, dai Türgish, dal deserto, dalla Terra fetida e dai Peceneghi, si trova il Muro di Alessandro, a proposito del quale Ibn Khaldûn riferisce il seguente episodio. “Il geografo ‘Ubayd-Allâh b. Khorradazbeh racconta che Al-Wâthiq vide, in sogno, che il Muro era aperto. Spaventato, inviò sul luogo l’interprete Sallâm, che ne riportò una descrizione e delle informazioni. È una lunga storia, che qui non ha nulla a che vedere” (28).
L’apertura vista in sogno da Al-Wâthiq era già stata vista dal Profeta Muhammad (29). Si tratta della fessura “attraverso cui penetreranno, all’approssimarsi della fine del ciclo, le orde devastatrici di Gog e Magog, le quali d’altronde esercitano continui sforzi per introdursi nel nostro mondo” (30).

Signore dell’Oriente e dell’Occidente

Victor utriusque regionis.
(Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni)

Abbiamo già avuto modo di notare (31) come l’Islam, tanto nel Corano e negli ahâdîth quanto nelle tradizioni e nelle letterature dei popoli musulmani, abbia narrato la storia di Alessandro attribuendo un particolare risalto alla valenza simbolica degli elementi che la compongono, per cui anche le orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ sono state più che altro considerate come il simbolo delle influenze inferiori, caotiche e distruttive che cercano di insinuarsi nel mondo umano.
L’eloquenza del simbolismo di cui è ricca la storia di Alessandro non poteva sfuggire a uno scrittore come Ernst Jünger, il quale ha visto nel fendente vibrato a Gordio “un principio spirituale che è in grado di disporre in modo nuovo e più conciso del tempo e dello spazio” (32), sicché la spada di Alessandro diventa “lo strumento di una decisione libera e risolutiva ma anche di un potere sovrano” (33). Infatti la decisione, come insegna Carl Schmitt, è l’atto con cui un soggetto fornito di sovranità esprime la volontà di vincere il caos instaurando un ordine politico e giuridico in cui possa avere vigore la norma, il nòmos.
Nel caso di Alessandro, alla funzione di decisore è correlata quella di raffrenatore (katéchon), funzione che egli svolge alle Porte Caspie, dove trattiene e raffrena il mistero del disordine, dell’empietà, dell’iniquità (mystérion tês anomìas). È noto che le espressioni greche ho katéchon, tò katéchon, mystérion tês anomìas sono state usate da San Paolo nella seconda epistola ai Tessalonicesi (34) e che diversi esegeti del testo paolino, tra cui Tertulliano, Lattanzio, Giovanni Crisostomo, Girolamo e Giovanni Damasceno (35), hanno individuato nell’Impero romano “colui che trattiene” (ho katéchon) e la forza “che trattiene” (tò katéchon).
Tale ermeneusi può trovare conferma nella “leggenda di Alessandro”, in quanto nell’impero romano e negli imperi che successivamente ne riprendono l’eredità si riflette l’archetipo dell’impero fondato da “colui che trattiene” le orde di Gog e Magog. Il sacro romano imperatore Federico II di Svevia venne paragonato dai musulmani – e non solo da loro – a Iskandar Dhû’l-qarnayn (36); il Conquistatore ottomano, che umanisti e cronisti italiani del Quattrocento erano soliti equiparare a quello macedone, elesse come proprio modello Alessandro, “di cui vita e gesta gli erano probabilmente familiari fin dalla gioventù in base alle leggende islamiche” (37); e Napoleone, che già da Primo Console “accarezzava piuttosto l’idea di Alessandro, che si ripresenta ricorrentemente alle soglie di ogni civilizzazione” (38), nel 1812 fu tentato dall’idea di emulare il Macedone spingendosi alla conquista dell’India.
Ma cos’è che fa di Alessandro la Gestalt imperiale per eccellenza, cui si connettono intimamente i ruoli di decisore e di katéchon?
Come abbiamo già avuto modo di far notare (39), secondo la leggenda Alessandro percorse la terra in tutta la sua estensione orizzontale, da occidente ad oriente, per poi ascendere fino alla sfera del fuoco, percorrendo la direzione verticale complementare ed opposta a quella lungo cui era disceso quando si era calato in fondo al mare. Denis Roman ha dunque potuto osservare: “A questa espansione nel senso della ‘ampiezza’ può aggiungersi una ‘esaltazione’, simboleggiata dall’ascensione del conquistatore (…) La figura di Alessandro può essere così rapportata a una dottrina completa del Sacro Impero, integrante le due dimensioni, individuale e sopraindividuale, del simbolismo della Croce” (40). “Ampiezza” ed “esaltazione”, con cui Denis Roman traduce i vocaboli arabi inbisât e ‘urûj, termini tecnici del lessico esoterico dell’Islam, “corrispondono rispettivamente alle due parti del Viaggio Notturno del Profeta, simbolo per eccellenza del viaggio iniziatico: la prima, chiamata Isrâ’ (trasporto notturno), da Mecca a Gerusalemme, corrisponde alla dimensione orizzontale della croce, mentre la seconda, quella celeste, designata col termine Mi‘râj (mezzo d’ascensione, scala), corrisponde alla dimensione verticale e giunge al Signore della Gloria Onnipotente” (41). Secondo Fadlallâh al-Hindî al-Burhânapûrî (m. 1620), “sia l’esaltazione (‘urûj) sia l’ampiezza (inbisât) hanno raggiunto la loro pienezza nel Profeta, che Allâh lo benedica e gli dia la pace” (42), sicché è il Profeta Muhammad a rappresentare il modello esemplare dell’Uomo Perfetto (al-insân al-kâmil); ma lo stesso Profeta avrebbe detto che, tra tutti gli uomini, il più simile a lui è stato Dhû’l-qarnayn. Infatti il Bicorne realizzò sia la dimensione dell’“ampiezza” sia quella dell’“esaltazione”: se la Sura della Caverna pone in risalto l’ampiezza di un itinerario che si estese da Occidente ad Oriente, un hadîth riferito da ‘Amr ibn al-‘As fornisce il dato relativo all’esaltazione: dopo la fondazione di Alessandria in Egitto, “l’Altissimo inviò a lui (a Dhû’l-qarnayn) un angelo che lo prese e lo innalzò in cielo”, fino a mostrargli tutto il creato compreso tra l’Oriente e l’Occidente.
Le “due corna” evocate dall’epiteto coranico Dhû’l-qarnayn sono infatti – così come le due teste dell’aquila bicipite – il simbolo di “un duplice potere esteso sull’Oriente e sull’Occidente” (43). Due corna d’ariete erano il principale attributo di Ammone, del quale Alessandro si era riconosciuto figlio: “E vide ancora Ammone, con l’aspetto di un vecchio, con la barba d’oro e le corna d’ariete sulla fronte, che gli disse: Febo ti parla, che ha corna d’ariete” (44). E corna taurine erano quelle di Dioniso, che prima del suo emulo Alessandro aveva conquistato l’India e percorso l’Asia: “Le campagne dei Lidi ricche d’oro – ho lasciato e dei Frigi, e dalle plaghe – assolate di Persia e dalle rocche – della Battriana giunto all’invernale – terra dei Medi e all’Arabia Felice, – tutta l’Asia ho percorso” (45).
La figura del Bicorne si colloca dunque sullo sfondo dello spazio eurasiatico, che non costituisce soltanto lo scenario della sua impresa, ma la proiezione spaziale stessa dell’idea di impero.

Il retaggio di Alessandro

“Impero” significa qui il potere storico che riesce a trattenere l’avvento dell’Anticristo.
Carl Schmitt, Il nomos della terra

Sulla fronte della Torre del Trabucco, che si erge sulla destra della facciata del Duomo di Fidenza (già Borgo San Donnino), si trova incastrata una formella consunta, nella quale Benedetto Antelami ha raffigurato l’ascensione di Alessandro alla sfera del fuoco. In San Marco a Venezia, nella cattedrale d’Otranto ed altrove si trovano analoghe rappresentazioni del medesimo episodio, che in età medioevale conobbe un’ampia diffusione dalla Francia all’Etiopia (46).
Alla stessa altezza della formella di Alessandro, sulla base sinistra della volta del protiro, si trova una lastra scolpita a bassorilievo in cima alla quale sta l’iscrizione “Fortis Hercules”; vi è infatti raffigurato Eracle, che con la destra tiene sollevato per la coda un leone. Come la figura di Alessandro che ascende al cielo, così anche quella del suo antenato Eracle richiama la dottrina dell’impero, in quanto pure l’Alcide realizzò le due dimensioni della croce: l’”ampiezza” con la decima fatica (che lo portò dall’estremo occidente alle montagne orientali del Caucaso) e l’”esaltazione” con la dodicesima fatica (discesa al Tartaro) e con la successiva ascensione all’Olimpo.
Con Eracle volle identificarsi, assumendo l’appellativo di Herculeus, Marco Aurelio Valerio Massimiano (240-310), la cui figura compare tre volte sulla facciata della cattedrale fidentina, che è dedicata a San Donnino, cubicularius dello stesso Massimiano. Questo imperatore fu per i cristiani un pagano e un persecutore; e, per quanto in particolare concerne la vicenda del patrono di Fidenza, fu proprio un suo ordine a causarne il martirio. Tuttavia il rilievo “tipico” delle figure scolpite dall’Antelami induce a vedere rappresentata nell’immagine dell’imperatore più una funzione che non un particolare personaggio storico. Nell’icona di Massimiano Erculio bisogna probabilmente scorgere un simbolo dell’autorità imperiale, ossia di un potere la cui legittimità fu riconosciuta anche dai cristiani, come ci viene emblematicamente ricordato dal bassorilievo in cui è lo stesso San Donnino a posare la corona sul capo dell’imperatore.
Sul frontone del portale di sinistra, infine, troviamo un rilievo suddiviso in tre scene, nella prima delle quali troneggia, indicata dalla scritta “Karolus Imperator”, la figura di Carlo Magno, con la corona in capo, lo scettro nella destra e il globo nella sinistra. Carlo Magno è qui celebrato per i privilegi che concesse alla chiesa di Borgo; ma soprattutto egli rappresenta, nel contesto delle immagini, la nuova fase imperiale venuta a succedere alle due precedenti, rispettivamente simboleggiate da Alessandro e da Massimiano.
Il significato che si sprigiona dalla rete dei simboli conferma il fatto che nella coscienza medioevale è “ben salda l’idea della provvidenzialità di Roma, il cui Imperium non è visto come l’istituzione ‘diabolica’ persecutrice del Cristianesimo, ma l’Orbe nel quale il Cristo aveva scelto di nascere ed ove, grazie alla ‘pax’ assicurata dai Cesari, la nuova fede poté porre salde radici e permeare di sé il reggimento civile” (47). Ma la sinfonia delle immagini antelamiche esprime in modo ben chiaro anche un’altra idea: quella della continuità essenziale della funzione imperiale attraverso le varie epoche storiche. Al prototipo rappresentato da Alessandro e dal suo impero eurasiatico succedono l’imperium di Roma e quindi il Sacro Romano Impero, che nel corso dell’età moderna diventerà l’Impero austro-ungarico e come tale protrarrà la sua esistenza fino alla prima guerra mondiale. Sul tronco dell’Impero Romano d’Oriente si innesterà quell’”impero romano turco-musulmano” (48) che con la sua stessa esistenza smentirà quanti avevano identificato i Turchi con Gog e Magog.
Infatti ciascuna di queste manifestazioni storiche dell’idea di impero, indipendentemente dalla propria dimensione territoriale e dall’appartenenza religiosa della dinastia regnante, ha rinnovato l’azione del katéchon archetipico, tenendo a freno le spinte del caos e della dissoluzione. Solo il venir meno della forza “frenante” di cui erano depositari gl’imperi distrutti nella prima guerra mondiale ha consentito che si aprissero delle fessure decisive nella barriera che era stata eretta dal katéchon bicorne, sicché le orde di Gog e Magog, per riprendere le parole del hadîth, hanno bevuto le acque del lago di Tiberiade e poi quelle del Tigri e dell’Eufrate.

 

NOTE

1. Giuseppe Flavio, De bello judaico, VII, 7, 4.
2. Corano, XVIII, 94.
3. Corano, XVIII, 94-95.
4. Corano, XVIII, 97-98.
5. Corano, XXI, 95-96.
6. Al-Bukhârî, Sâhîh, 4741.
6. Il primo hadîth si trova nel Sahîh di Al-Bukhârî, che ne riporta sette varianti (LX, 7, 3346 e 3347; LXI, 25, 3597; LXVIII, 24, 5293; XCII, 4, 7059; XCII, 29, 7135 e 7136); il secondo hadîth è registrato anch’esso da Al-Bukhârî, come LXV, 4741; per il terzo hadîth cfr. Dâr al-Burhâniyyah, Il Mahdi e l’Anticristo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1988, p. 16.
7. Ezechiele, 38-39.
8. Genesi, 10, 5.
9. Apocalisse, 20, 7-10.
10. Kalki-Purâna, VII, 14-30. cfr. Le Kalki-Purâna, Première traduction du sanskrit en langue occidentale de Murari Bhatt et Jean Rémy suivi d’une étude d’André Préau. Préface de Jean Varenne, Arché, Milano 1982, pp. 116-117 e 206.
11. Giorgio R. Cardona, Indice ragionato, in : Marco Polo, Milione, Adelphi, Milano 1975, p. 640.
12. Dario Carraroli, La leggenda di Alessandro Magno, Tipografia G. Issoglio, Mondovì 1892, rist. anast. Arnaldo Forni Editore, Bologna 1979, pp. 150-208.
13. Die Apokalypse des Ps.-Methodios, hrsg. von A. Lolos, Meisenheim a. Glan 1976; E. Sackur, Sibyllinische Texte und Forschungen. Pseudomethodius, Adso und die Tiburtinische Sibylle, Halle a. S. 1898, rist. anast. J. Trumpf, Stuttgart 1974, pp. 144-148.
14. Ezechiele, XXXVIII, 6 e 15.
15. Antiquitates judaicae, I, 11.
16. „Jewish Quarterly Review“, 17 (1905), pp. 517-525.
17. A magyar középkori irodalma, Szépirodalmi könyvkiadó, Budapest 1984, pp. 10-11.
18. A magyar középkori irodalma, cit., p. 168.
19. Thuróczi János, A magyarok krónikája, Helikon, Budapest 1986, p. 13.
20. Sostanza che preserva dal ferro e dal fuoco.
21. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, Einaudi, Torino 1971, p. 146. L’episodio è presente anche nella favolistica russa: cfr. Aleksandr N. Afanasev, Antiche fiabe russe, Einaudi, Torino 1974, pp. 78-79.
22. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, cit., p. 132.
23. Alessandro nel Medioevo occidentale, a cura di Mariantonia Liborio, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori Editore, Milano 1997, pp. 322.
24. Alessandro nel Medioevo occidentale, cit., pp. 326-327.
25. Marco Polo, Milione, Adelphi, Milano 1975, p. 106.
26. La carta di al-Idrîsî si trova riprodotta, corredata dalla Clef de la Carte du Monde e la Légende de la carte di F. Rosenthal, in: Ibn Khaldûn, Discours sur l’Histoire universelle, Sindbad, Paris 1978, t. I, pp. 107-110.
27. Ibn Khaldûn, op. cit., t. I, p. 170.
28. Ibn Khaldûn, op. cit., t. I, p. 161.
29. Il Corano, Edizione integrale a cura di Hamza R. Piccardo, Newton & Compton, Roma 2001, p. 261 nota 39.
30. René Guénon, Il Regno della quantità e i segni dei Tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 209-210.
31. Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005, pp. 73-74.
32. Ernst Jünger – Carl Schmitt, Il nodo di Gordio, Il Mulino, Bologna 1987, p. 32.
33. Ernst Jünger – Carl Schmitt, op. cit., p. 33.
34. 2 Thessalonicenses, 2, 6-7.
35. Massimo Maraviglia, La penultima guerra. Il “katéchon” nella dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 2006, pp. 179-203.
36. Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore, Garzanti, Milano 1976, pp. 190 e 200.
37. Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Einaudi, Torino 1970, p. 548.
38. Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 1957, p. 255.
39. Claudio Mutti, L’Antelami e il mito dell’Impero, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986, pp. 25-29; Idem, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, cit., pp. 70-79.
40. Denis Roman, Les Revues, “Études traditionnelles”, gennaio-febbraio 1975, p. 140. Trad. it. Il tabot etiopico, in : Michel Vâlsan, Il cofano di Eraclio, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1985, p. 55.
41. Michel Vâlsan, Références islamiques du “Symbolisme de la Croix”, “Études traditionnelles”, marzo-aprile e maggio-giugno 1971, p. 53.
42. Le Traité de l’Unité dit d’Ibn ‘Arabî, Paris 1977, p. 53.
43. René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1994, p. 172.
44. [Pseudocallistene,] Il Romanzo di Alessandro, a cura di Monica Centanni, Arsenale, Venezia 1988, pp. 41-43.
45. Euripide, Le Baccanti, trad. di Carlo Diano, in Il teatro greco. Tutte le tragedie, Sansoni, Firenze 1980, p. 1008.
46. Claudio Mutti, L’Antelami e il mito dell’Impero, cit., pp. 12-23.
47. Angelo Terenzoni, L’ideale teocratico dantesco, Alkaest, Genova 1979, p. 44.
48. “The Greek Christian Roman Empire fell to rise again in the shape of a Turkish Muslim Roman Empire” (Arnold Toynbee, A Study of History, 2a ed., London – New York – Toronto 1948, vol. XII, p. 158). Cfr. Claudio Mutti, Roma ottomana, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. I, n. 1, ott.-dic. 2004, pp. 95-108.


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).