Fonte: “TomDispatch”, 18.02.10

Perché la gente è così fissata con l’esercito tedesco

se non ha più vinto una guerra dal 1871?”

Tom Clancy

Mi sono sempre interessato alle forze armate tedesche, in particolare la Wehrmacht della Seconda Guerra Mondiale. Da ragazzino costruivo molti modellini, non solo dei carri armati tedeschi Panther e Tiger, ma pure dei famosi aeroplani della Luftwaffe. Vero che costruivo pure quelli di carri ed aerei statunitensi – Sherman, Thunderbolt e Mustang – ma i modelli tedeschi mi sembravano sempre più “forti”, con quel tocco d’esotismo e l’aspetto “predatorio”. E i militari tedeschi, nella mia immaginazione d’adolescente, sembravano ammirevolmente duri ed agguerriti: lottatori valorosi, assolutamente professionali, in grado di resistere anche quando le prospettive di vittoria s’allontanavano, soprattutto contro le stesse orde di “comunisti senzadio” con cui noi Statunitensi avevamo a che fare nella Guerra Fredda.

In seguito, com’è ovvio, un po’ di conoscenza circa gl’incubi del nazismo e della persecuzione ebraica distrussero gran parte della mia ammirazione per la Wehrmacht ma, ad essere completamente onesti, un residuo di rispetto sopravvive involontariamente ancora oggi: non ho più i miei modellini, ma possiedo tutt’ora i libri di guerra illustrati della Ballantine, che da ragazzo comprai per un dollaro o due, i quali spesso celebravano i successi delle forze armate tedesche, con titoli tipo Panzer Division o Afrika Korps o anche Waffen SS.

Come recita la Bibbia, siamo inclini a porre da parte le cose fanciullesche quando diveniamo adulti, e di certo tra quelle c’è pure una superficiale fascinazione per la militaria e la simbologia del Terzo Reich. Ma quando nel 1981 entrai nei Reserve Officers Training Corps [unità di studenti liceali ed universitari addestrati per formare ufficiali della Riserva, ndt] dell’Aviazione, e poi nel 1985 in servizio attivo, scoprî con sorpresa ma anche compiacimento che un gran numero di militari statunitensi condividevano il mio interesse per le forze armate tedesche. Citerò un solo esempio. Quand’ero cadetto, alle esercitazioni sul terreno del 1983 (ed in seguito, nel 1992, alla Scuola Ufficiali di Squadrone) presi parte a quello che conoscevamo come “Progetto X”. Noi cadetti ci passevamo la voce, bisbigliando: «Domani ci sarà il “Progetto X”: è davvero forte!».

Il Progetto X, un’esercitazione destinata ai comandanti ed incentrata sulla risoluzione dei problemi, consisteva in numerosi scenari con annessi compiti. Lavorando in piccoli gruppi, bisognava risolverli entro un tempo preciso. Ciò che rendeva il progetto eccitante e più d’un semplice riempitivo – tipo le marce senza fine, la lucidatura delle scarpe e dei pavimenti – era il suo essere basato sui metodi tedeschi per sviluppare ed inculcare le capacità di comando, lavoro di squadra ed adattabilità a livello d’unità minori. Se funzionò con i Tedeschi, i “migliori soldati al mondo” durante la Seconda Guerra Mondiale, avrebbe funzionato anche con noi, o almeno così pensava la maggior parte di noi, me incluso.

Il Progetto X fu, in fondo, soltanto una delle rituali manifestazioni della fascinazione statunitense per i metodi e la mistica militare germanica. Quando cominciai ad insegnare storia militare ai cadetti dell’Accademia dell’Aviazione, nel 1990, acquistai presto familiarità con un florido “culto di Clausewitz”. Carl von Clausewitz ed il suo libro Sulla guerra erano ovunque: sembrava che noi statunitensi non avessimo mai prodotto nostri teorici militari. Divenni familiare con la regolare esaltazione dell’Auftragstatik (l’idea di massimizzare la flessibilità e l’iniziativa ai livelli tattici inferiori). Clausewitz e l’Auftragstaktik divennero così predominanti che, negli anni ’80 e ’90, il pensiero militare statunitense sembrò ridursi all’idea che la “guerra è la continuazione della politica” ed al credo che la vittoria arrida a chi investe dell’autorità i propri “caporali strategici”.

La guerra come atto creativo

La fascinazione statunitense per i metodi militari ed i modelli di pensiero germanici solleva numerose questioni. Retrospettivamente, la cosa per me più fastidiosa è che i militari abbiano mandato giù la nozione clausewitziano-tedesca della guerra come arte dialettica o creativa, in cui comandanti ben addestrati ed altamente motivati possono imporre la propria volontà sugli eventi.

Da tale prospettiva, la guerra non è più distruttiva ma costruttiva. Non diventa l’ultima risorsa dei monarchi, bensì lo strumento prediletto dei “creativi” signori della guerra, i quali dimostrano la propria maestria coltivando flessibilità, adattabilità e rapidità. Si cerca di penetrare nel “ciclo decisionale” del nemico, il cosiddetto OODA loop – la versione Air Force della Auftragstaktik – coltivando nel contempo un “ethos guerriero” entro la casta dei militari professionisti, destinata a stare al di sopra e separata dai comuni cittadini.

L’idolatria dell’esercito tedesco era un segnale eclatante del crescente militarismo in seno alla società statunitense, inconsapevole di come si strangolasse lentamente il suo ideale del cittadino-soldato. Allo stesso tempo i militari statunitensi cominciarono a glorificare la nuova generazione di capi-guerrieri tramite una lettura selettiva del passato. Lo stesso “Old Blood and Guts” (“Vecchio sangue-e-fegato”), il capo-guerriero George S. Patton – il comandante ch’è artista, creatore e genio – veniva celebrato; Omar N. Bradley – l’occhialuto “generale dei coscritti” e riluttante cittadino-soldato – fu ignorato. Non a caso, nel medesimo periodo emerse una nuova visione del campo di battaglia: i militari statunitensi aspiravano, con la massima serietà, alla “totale consapevolezza situazionale” (“total situational awareness”) ed al “dominio a tutto campo” (“full spectrum dominance”), obiettivi che, se ottenuti, avrebbero garantito ai comandanti l’abilità quasi divina di governare la “tempesta d’acciaio”, di calmare le onde, di comandare l’aria.

In tale processo si perse ogni cognizione della guerra come evento completamente imprevedibile ed enormemente dispendioso. Con quest’infatuazione per la prodezza marziale dei Tedeschi, che il politologo John Mearsheimer ha memorabilmente descritto come “Wehrmacht penis envy” (“invidia del pene della Wehrmacht”, parafrasi di Freud), celebravamo la nostra abilità di “Blitzkriegare” i nemici: ciò prometteva vittorie rapide e decisive, per lo più senza spargimenti di sangue (almeno per noi). Nel 1991 la rapida e decisiva vittoria nella campagna Desert Storm della Prima Guerra del Golfo fu la prova, o allora sembrò esserlo, di come fosse in corso una “rivoluzione negli affari militari”, o RMA per usare il gergo tecnico.

Ci si dimenticava però di una cosa: che il Blitzkrieg tedesco della Seconda Guerra Mondiale finì col “terzo impero” sonoramente bastonato dai nemici, che avevano continuato a combattere anche quando le probabilità di vittoria parevano minime.

Un ribaltamento notevole, per non dire bizzarro! L’esercito ed il paese che gli USA avevano sonoramente sconfitto in due guerre mondiali (con parecchio aiuto da parte degli alleati, inclusi ovviamente quei senzadio comunisti dell’Unione Sovietica nella seconda) erano divenuti, dopo il Vietnam, il faro dei militari statunitensi. Ricorrendo ad un’analogia sportiva, è come se una franchigia della Major League di baseball, decisa a vincere le World Series, decidesse di prendere a modello non i New York Yankees bensì i Chicago Cubs.

I nuovi signori del Blitzkrieg

I busti di Clausewitz sono oggi in bella mostra tanto all’accademia dell’esercito di Carlisle Barracks, Pennsylvania, quanto all’accademia navale di Washington, D.C. Clausewitz è un autore complesso, la sua visione della guerra era densa e feconda, rifuggiva dalle facili semplificazioni. Ciò non ha dissuaso i militari statunitensi dal semplificarlo. Si chieda di Clausewitz all’ufficiale medio e quello menzionerà la “guerra continuazione della politica”, e forse qualcosa sulla “nebbia ed attrito di guerra” – e questo è tutto. Con tale versione-per-sciocchi di Clausewitz si vuole far intendere che la guerra può sembrare estrema, ma in realtà è una forma perfettamente sensata del discorso politico violento tra Stati-nazione.

Quell’ufficiale potrà ammettere con riluttanza che, a causa della nebbia e dell’attrito, “nessun piano sopravvive al contatto col nemico”. Ma segretamente starà pensando che ciò non conta nulla, in virtù della “maestria” nell’Auftragstatik dei militari statunitensi, ottenuta in parte grazie ad un armamento di prossima generazione che fornisce “totale consapevolezza situazionale” ed un margine di vantaggio decisivo.

Non sorprende che George W. Bush, Dick Cheney e Donald Rumsfeld avessero tanta impazienza d’entrare in guerra con l’Iràq nel 2003. Essi si consideravano i nuovi maestri del Blitzkrieg, i nuovi signori della guerra (o “Vulcani”, per usare un termine allora popolare), gli eredi dei migliori metodi e dell’efficienza bellica tedesca.

Questa credenza, questa fede in una vittoria totale alla tedesca, tramite la spietata abilità militare, si manifesta perfettamente nel torrenziale tributo di Max Boot alle forze armate statunitensi, pubblicato poco dopo l’auto-congratulatorio ed auto-adulatorio discorso di Bush del maggio 2003, quello del “Mission accomplished”. Secondo Boot la vittoria statunitense in Iràq doveva «classificarsi come una pietra miliare della storia militare». Ecco le sue parole:

«Prima il modello aureo dell’eccellenza operativa era il blitzkrieg tedesco del 1940 attraverso i Paesi Bassi e la Francia. I Tedeschi riuscirono a conquistare Francia, Paesi Bassi e Belgio in soli 44 giorni, al costo di “appena” 27.000 soldati morti. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra hanno impiegato solo 26 giorni per conquistare l’Iràq (le cui dimensioni sono l’80% di quelle della Francia) al prezzo di 161 morti: al confronto generali leggendari come Erwin Rommel e Heinz Guderian paiono dei veri incompetenti».

Quante probabilità ci sono che i futuri storici militari celebreranno il generale Tommy Franks elevandolo al di sopra di quegli “incompetenti” di Rommel e Guderian? Questa sviolinata, anche all’epoca in cui fu redatta, era più che fatua. Era assurda.

Nel corso della nostra storia molti Statunitensi, specialmente veterani della linea di combattimento, hanno conosciuto l’inferno della guerra reale. È una delle grandi ragioni per cui, storicamente parlando, siamo stati tradizionalmente riluttanti a mantenere un numeroso esercito stanziale. Ma la Guerra Fredda, il contenimento ed il feticismo della Wehrmacht hanno cambiato tutto. Abbiamo cominciato a vedere la guerra non come un disastro provocato dall’uomo, bensì come una scienza creativa ed un’arte. Abbiamo cominciato a cercare “moltiplicatori di forza” e vittoria totale raggiunta attraverso una mania quasi prussiana per l’eccellenza militare.

Stordito da una sconfitta apparentemente inspiegabile ed inimmaginabile, quella del Vietnam, il corpo ufficiale usò Clausewitz per scivolare fuori dal suo annebbiamento collettivo. Leggendolo selettivamente e riaffermando la propria fede nel professionismo militare e nelle armi di precisione, ci siamo ingannati da soli, spingendoci a credere d’avere ottenuto la piena padronanza dell’arte bellica. Abbiamo creduto d’aver domato i cani della guerra; abbiamo creduto d’aver sedotto Bellona, d’aver ridotto ai nostri comandi la dea della guerra.

Ci siamo scordati che Clausewitz paragonò la guerra non solo alla politica, ma pure ad un gioco di carte. La si può immagine come la partita di poker definitiva, quella con i piatti più alti. Anche il giocatore con le carte migliori e la maggior catasta di fiches non sempre vince. Contano anche l’astuzia e la resistenza, i nervi e la fortuna.

Niente di tutto ciò pare sia preso in considerazione dal militare statunitense che scimmiotta quello tedesco, vantando oltremodo le abilità ed i successi. Il risultato? Un cosiddetto “nuovo modo americano di fare la guerra”, che poi è solo una versione desiccata di quello vecchio tedesco, il quale alla Germania ha procurato solo sconfitte catastrofiche, nel 1918 e nel 1945, trascinando l’Europa nel baratro.

Basta chiedere ai Tedeschi

Proprio perché il disastro non ci riguardò, proprio perché uscimmo trionfatori da due guerre mondiali, ci siamo infatuati troppo della guerra decisiva, trascurando invece la nostra unica forza. Perché la nostra forza non risiede nello slancio militare o nell’armamento avanguardistico o nella finezza tattica (i “punti di forza” tedeschi), bensì della dedizione, nella generosità, persino nell’occasionale inettitudine dei nostri cittadini-soldati. Il loro spirito era incrollabile proprio perché, membri di un esercito di cittadini genuinamente democratico, combattevano per sconfiggere un impero malvagio e repellente, che si crogiolava fanaticamente nel proprio vigore combattivo.

Guardando indietro alla mia giovanile infatuazione per la Wehrmacht tedesca, riconosco il distorto entusiasmo d’un ragazzo per la durezza militare. Riconosco pure quanto sia affascinante ridurre il caos bellico al Blitzkrieg “scuoti e terrorizza” (shock and awe) o all’incoronazione del guerriero. Ciò che mi meraviglia, tuttavia, è come questa visione sorprendentemente selettiva ed adolescenziale della guerra – col feticcio dei risultati fulminanti, ottenuti elevando e responsabilizzando una nuova generazione di signori della guerra, guerrieri dotati d’armi avanzate – sia giunta a dominare il discorso militare statunitense post-Vietnam.

A differenza della Germania che, devastata e demoralizzata dopo le sue sconfitte, ha sminuito la guerra come strumento della politica, noi dopo la nostra sconfitta l’abbiamo persino rivalutata. Stringendoci al petto Clausewitz, abbiamo marciato in avanti, in cerca di nuove vittorie decisive. Eppure, proprio come i nostri modelli tedeschi della Seconda Guerra Mondiale, abbiamo scoperto quanto la vittoria possa essere elusiva ed illusoria.

Ecco perché ho un messaggio per il giovane me stesso: metti da parte quei minacciosi modelli di carri armati ed aeroplani tedeschi. Dimentica quei brillanti racconti su Rommel ed il suo Afrika Korps. Sgombra la tua mente puerile dal Blitzkrieg. Non c’è alcuna guerra-lampo, America. Non c’è mai stata. E se non vi fidate delle mie parole, allora chiedetelo ai Tedeschi.

(traduzione di Daniele Scalea)

Si ringrazia l’Autore per aver concesso la traduzione e ripubblicazione di quest’articolo.

Le opinioni espresse nell’articolo sono quelle dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle della redazione di “Eurasia”.

* William J. Astore è tenente-colonnello (in pensione) dell’USAF, l’Aviazione militare statunitense. Collabora regolarmente con “TomDispatch” ed insegna storia al Pennsylvania College of Technology.


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